Osservare l’arte: la Sacra Famiglia a tavola

L’ultima domenica di gennaio si è celebrata la festa della Famiglia; la domenica successiva, la prima di febbraio, è dedicata alla Vita. Simbolo e sintesi di entrambe le feste, potrebbe risultare l’opera che si conserva nella sala da pranzo del Palazzo Arcivescovile di Milano e che capta una scenetta di serena intimità familiare durante il pasto, fissandone un momento particolare.

Requisita in epoca napoleonica a un convento di frati della provincia di Modena, la tela è di attribuzione e data incerte. Il quadro, eseguito nell’ambito della famosa scuola di Guido Reni intorno alla metà del 1600, è attribuito dai più ad Elisabetta Sirani, altri critici, invece, ritengono che la paternità dell’opera spetti al francese Nicolas Pierre Du Laurier (detto anche Monsù Pietro) che visse per qualche tempo in Italia, gravitando attorno alla “scuola Guidesca”. Anche Du Laurier, come Elisabetta Sirani, è citato nel trattato del 1678 “Fèlsina Pittrice vite de Pittori Bolognesi” del conte e canonico Carlo Cesare Malvasia (Tomo II, parte IV, pag.441).

Fino a quando non sarà sciolto il dubbio circa la sicura attribuzione dell’opera, mi piace credere che essa sia frutto dell’estro di Elisabetta Sirani, e ciò non per mie specifiche competenze tecniche o critiche in materia, che non possiedo, ma semplicemente per propensione personale, forse ingenua, nei confronti di una giovane donna brillante e sfortunata, che in vita ha mostrato grande coraggio e sensibilità, e della quale vorrei approfondire la figura.

Elisabetta Sirani in atto di ritrarre il padre. Incisione ottocentesca di Luigi Martelli ricavata da un autoritratto esistente nell’allora Galleria Hercolani di Bologna.

Figlia di Giovanni Andrea Sirani, affermato professore e artista bolognese, collaboratore di Guido Reni, Elisabetta nacque l’8 gennaio 1638 a Bologna, dove visse. Studiò alla scuola del padre e dimostrò precocemente maestria e talento, infatti non ancora ventenne già dipingeva tele devozionali di piccole dimensioni dette “quadretti da letto”, che numerosi committenti le richiedevano.

A causa della malattia invalidante del padre, Elisabetta, in quanto figlia maggiore, fu costretta giovanissima a subentrare nella bottega di famiglia come guida e maestra, sobbarcandosi la fatica, la responsabilità e l’onere di mantenere con il suo stimato lavoro di pittrice i genitori e i fratelli, la servitù, la casa e gli apprendisti e assistenti di bottega, ai quali doveva garantire vitto, stipendio e lquota di iscrizione Corporativa.

Attorno alla sua straordinaria figura di professoressa e “capomaestra” si consolidò molto presto un cenacolo di donne pittrici, mai eguagliato nella storia dell’arte, che la indusse a fondare la prima Accademia di pittura femminile in Europa, che a quei tempi risultò un evento pioneristico ed inusuale poiché fuori dalle mura di un Convento o dall’insegnamento e guida maschile. Tra le sue allieve vi furono anche le sorelle Barbara e Anna Maria, il fratello minore, invece, ebbe da lei supporto e aiuto per gli studi di medicina.

Artista dotata, attiva e indipendente, dopo un primo esordio sullo stile della scuola di Guido Reni, Elisabetta sviluppò e affermò un suo modo pittorico autonomo,  personale ed elegante, morbido e fluido: “fa maniera da sé”, come dicevano ai suoi tempi.  Famosi sono i suoi ritratti di “femmes fortes”, eroine della Bibbia o della storia come Dalila, Giuditta, Artemisia, Circe, Cleopatra e altre, donne coraggiose e tenaci, dal carattere volitivo e ardimentoso, raffigurate, però, con grazia e in abiti riccamente drappeggiati e decorati, quasi a sottolineare attraverso l’esteriorità delle pose e dell’abbigliamento il decoro, la nobiltà e le virtù. Per meglio rappresentarle, Elisabetta si preparava meticolosamente, studiandone i personaggi sulla Bibbia e sui numerosi testi e manuali, oltre che osservandone le varie rappresentazioni iconografiche conservate nelle biblioteche e nelle collezioni d’arte.

Per la sua capacità tecnica e artistica nella materia, per l’incredibile rapidità e precisione nell’esecuzione degli schizzi e dei disegni, per la sua serietà ed erudizione, oltre che per modestia e senso del dovere, fu ammirata, cercata e celebrata da professionisti, mercanti, ecclesiastici, politici e aristocratici, che accorrevano nel suo studio e nella sua casa di via Urbana per commissionarle numerosi lavori, e forse anche per godere delle sue vivaci conversazioni o della sua musica (era una brava musicista).

Benché Bologna fosse una città  culturalmente stimolante e di larghe vedute, che da sempre incoraggiava il coinvolgimento e la partecipazione delle donne in tutti gli ambiti della vita pubblica, valorizzandone le capacità e le conquiste (a titolo di esempio si possono ricordare Lavinia Fontana nata del 1552, artista che dipinse il primo nudo femminile in “Minerva nell’atto di vestirsi” e anni prima, nel 1209, la giurista Bettisia Gozzadini, prima donna al mondo titolare di una cattedra all’Università), tuttavia il mestiere di pittore era ancora considerato dai più una prerogativa maschile; Elisabetta seppe dare una svolta a questa mentalità e con il suo stile pittorico pulito ed espressivo (che esalta la dolcezza degli sguardi e delle pose) e il raffinato senso del colore dai toni delicati, si garantì un ottimo successo professionale.

Elisabetta morì all’età di ventisette anni probabilmente a causa di una peritonite e fu sepolta nella cappella del Rosario accanto a Guido Reni, nella Basilica di San Domenico a Bologna. Nonostante la brevità della sua vita lasciò circa duecento tele, numerosi disegni, acquarelli e quindici stampe.  Il conte Malvasia, che l’aveva affettuosamente incoraggiata e sostenuta nell’avvio della carriera, nel suo Fèlsina Pittrice la definisce “Pittrice Eroina della Fèlsina, motivo di vanto per il padre, come Aristarete e Marzia”, le dedica ampio spazio, la elogia e ne ricorda le numerose doti: “Vissi adoratore di quel merito che in lei fu inarrivabile, di quella virtù non ordinaria, di quella umiltà impareggiabile, modestia indicibile, bontà inimitabile. Io fui quell’io che volli assolutamente che il Padre, per altro in ciò renitente, l’arrischiasse a pennelli, io che l’animai sempre alla degna impresa ..,ma che nel più bello della carriera viddi anche arrestato il cammino, che viddi dall’indegna falce di Morte reciso nel suo vago spuntare il più bel fiore, troncato fuor di stagione il più bel frutto in erba” (Tomo II, Parte IV, pagg. 453-462).

Ma passiamo ad osservare il quadro.

 

Nel XVII secolo gli avvenimenti della vita di Gesù, nella loro rappresentazione in maniera più secolare che sacra erano molto diffusi soprattutto in Emilia; proprio tra essi si colloca la nostra opera che ritrae il pranzo della sacra famiglia.

La scena è deliziosa e immersa in una calda atmosfera, domestica e intima.

Gesù siede a una tavola rotonda, dove non ci sono lati con una loro fine, chiara allusione a quel banchetto eterno che ci è stato promesso in Paradiso.

Il Bambino è ritratto tra Giuseppe e Maria, ma non esiste un centro o un capotavola e nessuno dei tre personaggi occupa una posizione preminente, segno di amore familiare concorde, reciproco e gratuito, oltre che della volontà divina di Gesù di essere figlio di Giuseppe e Maria umanamente “a loro sottomesso”.

Nel dipinto ben si intravvede il candore di una bianca tovaglia di lino e la trasparenza del pizzo che scende lungo i bordi del tavolo; su essa sono sistemati tre coperti, alcuni pani e un vassoio con abbondante vino, palese richiamo all’Ultima Cena di Gesù adulto e a quel Pane e Vino che costituiscono il suo corpo e il suo sangue offerti in sacrificio per la salvezza di tutti.

Sulla sinistra della tela, Giuseppe, proteso verso il figlio con affettuosa sollecitudine a sorreggergli il calice, veste una tunica color verde petrolio ed è avvolto in un mantello abbondantemente drappeggiato di color oro, tinta che simboleggia la divinità e la trascendenza, chiara allusione a un altro Padre che più tardi porgerà a quello stesso figlio un altro calice, nell’orto degli Ulivi.  Dalla finestra un fascio luminoso colpisce la spalla destra e il drappeggio del mantello di Giuseppe, esaltando la bella figura del santo, pur nella semplicità della posa. Tutto in lui evoca forza e dignità, ma anche cura e amorevolezza.

Sul lato opposto, una dolcissima Maria dalla postura rilassata osserva tranquilla e forse anche divertita la scena. La mano sinistra è appoggiata naturalmente sul pane e lo sguardo è rivolto teneramente al Bambino, ma più che compiaciuta la madre pare pensierosa, poiché, lo sappiamo: “Una spada ti trafiggerà l’anima” e “Maria da parte sua custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc. 2,19).  Tutta la figura della Vergine è luminosa, “abbracciata” dalla stessa luce che illumina Gesù; il suo abito ha il medesimo colore rosso della veste del divino bambino, a simboleggiare che essa condivide con il Figlio la carne e, seppure in maniera diversa, il sacrificio: “Caro enim Jesu, caro est Mariae”, secondo la nota espressione attribuita all’abate provenzale Ambrogio Autperto, precettore di Carlo Magno.

Al centro della scena il piccolo Gesù, seduto su un’alta seggiola della quale si intravvedono le estremità, appare straordinariamente incantevole con il largo bavaglino bianco, con il bel visetto paffuto dalle guance piene e colorite, con i riccioli biondi ribelli nonostante la pettinatura ben ordinata, con gli occhi bassi e attenti al calice che, con l’aiuto di Giuseppe, avvicina alla boccuccia che accenna un sorriso, forse pregustando la dolcezza di quel nettare.

Da adulto chiederà a un altro Padre di allontanare da Lui il calice, se possibile.

Un Angelo al fianco di Gesù, e in evidente atteggiamento di preghiera, lo assiste premuroso, pronto ad aiutarlo, se necessario. Sul lato destro del dipinto, ma lontano dal bambino, un altro Angelo, dall’affascinante posa elegante e dal bell’abito drappeggiato, non guarda Gesù. Le sue mani sorreggono un vassoio colmo di cibo, ma i suoi occhi sono bassi e tristi e il viso è volto in direzione di chi osserva la tela. È un evidente segno di richiamo: il cibo dovrà essere servito a Gesù più avanti nel tempo, dopo i quaranta giorni nel deserto (Mt, 4, 4) o dopo l’agonia del Getsemani (Mt, 14,26), quando oltre al pane l’Angelo offrirà a Gesù anche il suo conforto.

Risulta confortante a questo punto riscontrare che a Famiglia attorno a quella tavola imbandita con pane fragrante e vino abbondante è allegoria della gioia del convito, della serenità domestica, dell’amore gratuito semplice e sacro che ogni famiglia umana, fiduciosa e aperta alla vita, può sperimentare. (M.S.S,)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

redazione grey-panthers:
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