“La paranza dei bambini”, di Claudio Giovannesi

Sceneggiatura Claudio Giovannesi, Maurizio Braucci, Roberto Saviano dal suo omonimo romanzo.  Cast Pier Francesco Di Napoli (Nicola) Artem Tkachuk (Tyson) Alfredo Turitto (Biscottino) Ciro Vecchione (O’Russ) Ciro Pellecchia (Lollipop) Mattia Piano Del Balzo (Briatò) Viviana Aprea (Letizia) Valentina Vannino (Mamma di Nicola) Pasquale Marotta (Agostino) Luca Nacarlo (Cristian) Carmine Pizzo (Limone) Aniello Arena (Lino Sarnataro) Renato Carpentieri (don Vittorio). Genere drammatico. Produzione Italia 2018 Durata 105 min.

Contrariamente a quanto accaduto sinora (vedi il Gomorra garronesco e quello televisivo) si può fare un film sulla criminalità organizzata (Camorra, Mafia, ‘Ndrangheta o quel che vi pare) e persino un film da un libro di Saviano senza cadere nella “retorica del male” ossia senza pigiare sul pedale del “come sono brutti, sporchi e cattivi” che, alla lunga, finisce con il rendere gli eroi negativi più simpatici di quelli positivi. O, almeno, più “veri”, autentici personaggi, non burattini.

Giovannesi riesce inoltre nel difficile compito di rendere credibile l’endemicità del male, il dna del male, il brodo di coltura del male che, come in un sofisticato laboratorio, produce solo germi patogeni. E lo fa attraverso la storia di un ragazzino dalla faccia pulita, simpatico di suo senza bisogno di tanti abbellimenti, mostrando come, per ragioni che verrebbe da dire antropologiche, già a quindici anni ha nelle vene sangue malavitoso. Senza nemmeno appartenere per nascita a una famiglia mafiosa. Perché il pensare da mafioso è l’unico modo che ha per uscire dal nulla che lo circonda. Non è il desiderio dei soldi facili, della droga o del “prestigio” sociale che fa scattare la molla criminale nella mente di Nicola e della sua paranza (banda di amici). O meglio: soldi, droga, prestigio e altro sono la conseguenza, non la causa, dei comportamenti deviati. Tanto che Giovannesi (e gli sceneggiatori) mantengono il personaggio nella sua dimensione di adolescente. Certo, con il colpo in canna nella pistola, ma con le turbe amorose, i sogni banali (la vacanza a Gallipoli), il pessimo gusto dei mobili luccicanti d’oro per la mamma (ovviamente single) a sua volta vittima del racket.

Il discrimine è il contesto. È il peso, portato con la leggerezza dell’incoscienza giovanile, di un codice morale al quale nessuno si sottrae. Né chi lo applica, né chi lo subisce. Napoli, quartiere Sanità. Una nuova “famiglia” ha preso il posto di quella perdente i cui ultimi rampolli (Agostino e suo fratello Limone) vivono rintanati nel fortino di casa, pieno di lussuosa paccottiglia. Fuori, a chiedere il pizzo e imporre la legge dell’omertà a tutto il quartiere, la famiglia emergente. Quando una retata indebolisce i nuovi padroni, Nicola capisce che può essere venuto il suo momento. E tenta il salto di qualità con l’appoggio di un vecchio capobastone (don Vittorio) agli arresti domiciliari.

Cinema-verità? La risposta è no. Troppo esemplare la storia per essere vera, troppo realistica per essere soltanto verisimile. Giovannesi & C. hanno colto il nocciolo della questione: se le mafie, in Italia, durano da secoli, ossia da generazioni, e, stante le cose, sono sicuramente destinate a perpetuarsi ancora per molti decenni, non è solo per la debolezza dello Stato, le connivenze politiche, gli interessi economici e via elencando, ma principalmente, perché interpretano e rispondono a una mentalità diffusa, pervasiva, presente anche in fasce sociali non sospettabili e in aree geograficamente lontane da quelle “tribali”.

È il modo di pensare della gente, l’immaginario collettivo che nel nostro Paese fa percepire, per esempio, lo Stato e i suoi apparati come comunque lontani e ostili. Idem per la burocrazia. Dunque un film che tocca le corde giuste per comprendere l’Italia, prima ancora che la Camorra o il sottobosco di Napoli. Ovvero un film, come solo a pochi riesce, che dal racconto circoscritto in un fazzoletto di terra e nell’arco di poche settimane, è capace di farti capire i meccanismi della storia.

Doverosa una parola sul cast che, a parte Carpentieri in un ruolo peraltro marginale, è formato da “attori presi dalla strada”, come si diceva una volta. Vero che Napoli è città naturalmente “teatrale” e che molti suoi abitanti sono attori nati, ma qui si rasenta il sublime tale e tanta è l’aderenza degli interpreti ai loro personaggi. Tutto bene, tutto perfetto? Adagio: alcune debolezze formali attenuano a volte l’efficacia espressiva del film. Prima fra tutte l’uso spasmodico (al cinema ormai è una “moda”) della steadicam, ossia di quella particolare attrezzatura tecnica che permette di realizzare lunghissimi pianisequenza. Utilissima per gli esterni, specie se c’è gente in movimento o su mezzi motorizzati, può anche andare bene per esprimere vicinanza e scavo psicologico sul personaggio. Tutto quello che si vuole, ma si tratta pur sempre di una macchina da presa e non di un frullatore. Se poi è in perenne movimento, finisce col dare fastidio. Qualche inquadratura “statica” in più non avrebbe guastato.

E allora perché vederlo?

Non c’è “un” perché. L’importante è vederlo.


SCELTI PER VOI

 

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
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