Il giovane favoloso

Elio Germano è Giacomo Leopardi

regia Mario Martone sceneggiatura Mario Martone, Ippolita Di Maio cast Elio Germano (Giacomo Leopardi), Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (Monaldo Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Valerio Binasco (Pietro Giordani), Paolo Graziosi (Carlo Antici), Iaia Forte (Rosa), Isabella Ragonese (Paolina Leopardi), Edoardo Natoli (Carlo Leopardi), Raffaella Giordano (Adelaide Antici) durata 135′

Un’opera double-face. È questa la sensazione che prevale dopo aver visto il biopic di Martone su una delle personalità più complesse e difficili della letteratura italiana: Giacomo Leopardi. Double-face perché a diversi elementi positivi che il regista napoletano ha saputo creare sullo schermo mettendo in scena un personaggio così problematico, corrispondono quasi altrettanti motivi di perplessità. A favore va l’aver affrontato la vita del poeta senza schematismi retorici, senza pregiudizi e senza nemmeno il desiderio di stupire, ma rappresentando alcuni episodi cruciali dopo un’attenta lettura della difficile opera leopardiana. Dai Canti, allo Zibaldone alle Operette morali queste ultime già portate in scena a teatro dallo stesso Martone. Il minimo che succeda allo spettatore medio, che sicuramente ha letto qualcosa di Leopardi a scuola, ma che forse ne ha compreso poco la grandezza, è la quantità di spunti che il film gli offre per saperne di più, per leggere qualcos’altro, persino per visitare Recanati dove le scene sono state girate nei luoghi stessi che hanno visto agire il poeta: il palazzo di famiglia, le strade acciottolate, i muri di mattoni a vista, la bellissima collina marchigiana… Merito non da poco di Martone è insomma quello di indurre a entrare nel mondo poetico leopardiano per capirlo di più e meglio. Con alcune intuizioni davvero efficaci nella messa in scena, come la parte dedicata allo scambio di lettere tra Giacomo e Pietro Giordani. Qui le immagini del “natìo borgo selvaggio”, le voci fuori campo con il dialogo a distanza tra i due interlocutori e la musica (moderna) che accompagna l’azione compongono un brano di autentica poesia cinematografica. Peccato che a queste scene ne corrispondano altre, come il Dialogo della Natura e di un islandese (dalle Operette morali) che lasciano sinceramente perplessi con l’orripilante statuona animata che uccide il pathos del testo e affonda nel kitch figurativo. Meno devastanti, ma concettualmente simili, gli “effetti speciali” con l’eruzione del Vesuvio, anche questi inutili a fronte delle strofe della Ginestra. Altra scelta discutibile, far interpretare al 34enne Elio Germano il giovanissimo Leopardi di Recanati (tra i 17 e i 22 anni). Non c’era un attore in grado di reggere il ruolo? Inoltre, altra cosa incomprensibile, la scelta, come titolo del film, di una cervellotica frase di Anna Maria Ortese a fronte di uno sterminato campionario leopardiano non a caso saccheggiato a man salva dalla musica (Tutto il resto è noia), dal cinema (Vaghe stelle dell’orsa) e dalla saggistica (All’apparir del vero; Cosa arcana e stupenda).

LA DIMENSIONE UMANA DEL POETA

Ma torniamo ai meriti. Per un articolo intitolato Il sorbetto di Leopardi, scritto da Alberto Savinio nel 1939 per la rivista Omnibus di Leo Longanesi, il regime fascista decretò la chiusura del periodico. Motivo: una sorta di lesa maestà della gloria poetica nazionale. Per la retorica mussoliniana Giacomo Leopardi doveva restare in una sorta di limbo disincarnato destinato solo a un’ammirata contemplazione. Il torto di Savinio era stato quello di portarlo sulla terra, tra i comuni mortali, con i suoi pregi e i suoi (molti) difetti. Non ultimo la golosità. Per fortuna gli anni non sono passati invano e Martone ha avuto buon gioco proprio nel rendere la dimensione umana del poeta. Le sue spinosità, le sue idiosincrasie, persino le sue illogiche (e scarse) simpatie e le sue altrettanto illogiche (ed eccessive) antipatie. Forse alcuni episodi restano poco chiari a chi non conosca a fondo la vita di Leopardi, a cominciare dal fallito tentativo di lasciare Recanati con un passaporto ottenuto a insaputa del padre Monaldo. O la riluttanza a uniformarsi alle “mode” dei salotti letterari, sia a Firenze che a Napoli. Il “vero” Leopardi, il Leopardi della vita quotidiana era come ce lo descrive Martone: ruvido e scorbutico, in perenne conflitto con se stesso e il mondo. Un uomo incapace per tutta la vita di darsi un’occupazione che non fosse il soffrire e l’esprimere poeticamente tale sofferenza. Ma il “vero” Leopardi era anche tabagista e poco incline all’igiene. Faceva sorridere se dava del “pidocchioso” all’editore napoletano Starita per i ritardi nei pagamenti dato che lui stesso era perennemente afflitto da pediculosi. E quando a una ormai anziana Fanny Targioni Tozzetti, amata in gioventù dal poeta, qualcuno chiese perché avesse disdegnato i sentimenti di un genio, la donna molto prosaicamente rispose: “Perché puzzava”.

UN RAPPORTO CONFLITTUALE

Altro accenno molto preciso, ma forse poco chiaro, contenuto nel film è, verso la fine, la concessione di un piccolo vitalizio da parte della famiglia, chiesto e ottenuto attraverso la madre, l’austera e bigotta marchesa Adelaide Antici. Il motivo storico è semplice (ma non spiegato): il padre, Monaldo, era stato interdetto dall’amministrazione perché aveva quasi dilapidato i possedimenti familiari con le sue follie bibliofile. Per quanti difetti abbia avuto la povera Adelaide, si sappia almeno che è stato grazie alla sua oculata amministrazione se oggi c’è ancora un casato Leopardi e un cospicuo patrimonio immobiliare e terriero, vanto della tanto detestata (da Giacomo) “vilissima zolla di Recanati”. E proprio nella descrizione dei rapporti padre-figlio, che occupano la parte più consistente del film, Martone mostra allo stesso tempo finezza e rigore. Anche se, qualche volta, diventa un po’ sbrigativo. In effetti molto della personalità (anche poetica) di Giacomo trova spiegazione dall’intricato e sempre difficile confronto-scontro con il genitore. Il ritratto dell’epoca (con le “esibizioni” pubbliche dei bambini) si mescola felicemente con i ritratti individuali dei vari personaggi, supportati da attori perfettamente all’altezza del ruolo. Cosa che non si può sempre dire per i restanti episodi ambientati a Firenze e Napoli con una Fanny Targioni Tozzetti, per esempio, decisamente sotto tono rispetto a quanto riportano le cronache coeve quanto a bellezza, spirito e carisma. Un’altra scelta double-face.

Nella sezione weekend del sito, un reportage sui luoghi leopardiani di Recanati

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
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