Al cinema “Ippocrate”, di Thomas Lilti

sceneggiatura Pierre Chosson, Baya Kasmi, Julien e Thomas Lilti cast Vincent Lacoste (Benjamin Barois) Jacques Gamblin (dott. Barois) Reda Kateb (Abdel) Marianne Denicourt (dott.sa Denormandy) Félix Moati (Stéphane) Carole Franck (Myriam) Philippe Rebbot (Guy) Julie Brochen (M.me Lemoine) Jeanne Cellard (M.me Richard) Thierry Levaret (Tsunami) genere commedia prod Francia, 2014 durata 102 min

 

Sulla scia del successo di “Il medico di campagna”, i distributori italiani hanno riesumato questo “Ippocrate” di quattro anni fa girato dallo stesso Lilti su un argomento molto simile: il tirocinio di un neolaureato nelle corsie di un ospedale pubblico. Argomento molto familiare al regista, forte a sua volta di studi medici nonché “figlio d’arte”. Proprio come il giovane Benjamin che si trova ad affrontare le prime, difficili prove professionali nel reparto in cui suo padre è primario. Gavetta tutt’altro che in discesa, mandato com’è allo sbaraglio in un camice di due taglie più abbondanti. Siamo in Francia, ma sembra l’Italia dei tagli alla sanità. Con macchinari fuori uso, riduzione del personale, manager privi di competenze specifiche e scelti solo per far quadrare i conti (al ribasso, naturalmente). Con toni leggeri, il film tocca comunque argomenti problematici come l’accanimento terapeutico, il limite della deontologia medica (il famoso “Giuramento d’Ippocrate”, appunto, oggi più che mai inadeguato) e, sul fronte interno, la solidarietà e le rivalità tra colleghi, la solitudine delle scelte decisive, le divergenze d’opinioni che fatalmente si traducono in terapie differenti quando non contrastanti. C’è poi l’amicizia-rivalità tra Benjamin e Abdel. Medico algerino tirocinante al pari suo, più scafato nel mestiere, ma più debole nel relazionarsi. E poi i compagni di reparto. A partire dal padre, dalla collega più anziana e dal gruppo di infermieri che formano un bel melting pot etnico, specchio a sua volta di una società arcobaleno all’ombra del tricolore. E due casi clinici esemplari: Tsunami, clochard alcolizzato, così chiamato per la propensione a creare casini, e M.me Richard, arzilla vecchietta di buona famiglia in fase di malattia terminale. Come nel successivo “Il medico di campagna”, anche qui il tocco di Lilti è leggero e il dramma si stempera regolarmente nel sorriso. Resta il ritratto, partecipe, ma non complice, di un mestiere se non in crisi, per lo meno in seria difficoltà. Perché se è vero che oggi guarire è più facile, curare è diventato più difficile.

 

E allora perché vederlo?

Per avere un’idea di quello che sta dietro una cartella clinica.

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
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