Indiani e cowboy, tra danze navajos e tacos

Ho vissuto molti anni negli Stati Uniti e di quel grande paese ricordo con nostalgia, più delle grandi città, di New York, di Chicago, di Boston o San Francisco, le terre e i deserti sconfinati del west.  Vivevo a Los Angeles dove un anno vennero a trovarmi due mie amiche.  Il programma era di avventurarci in macchina, come novelle Telma e Louise sulle strade americane, alla volta di quelle che vengono chiamate “le terre indiane”. Avremmo attraversato California, Nevada, Utah, Arizona, New Mexico e Colorado.  Fu un viaggio indimenticabile.  Attraversammo intere regioni in cui incontrammo pochissime macchine e ancora meno gente, paesaggi selvaggi, enormi, spaventosi, dove non facevamo fatica a credere che dietro una roccia o dentro un canyon avremmo incontrato qualche dinosauro scampato all’estinzione.  Nel cuore dell’Arizona, dopo aver macinato centinaia di miglia, dopo aver goduto della straordinaria visione di un’alba a Monument Valley sotto la neve, essere scese nel cuore del Grand Canyon e esserci arrampicate sulle rosse rocce di Sedona, capitale mondiale della New Age, ci siamo perse.

 

Vagavamo in mezzo a un territorio brullo e deserto dove non si vedeva anima viva.  Tutto ciò che sapevamo era che quelle era la terra degli indiani Hopi, un antichissimo popolo che vive ai confini tra New Mexico e Arizona, all’interno della grande nazione Navajo.  Gli Hopi coltivano la terra, le loro piante sacre sono mais, zucca, fagioli e meloni.  Noi ci trovavamo ai piedi delle tre Mesas dove vivono gli Hopi, quelle strane rocce tagliate in alto, e ci sembrava impossibile che alcuna cosa potesse crescere su quelle pietraie assolate.  Si stava facendo notte e non avevamo molta benzina, decidemmo così di fermarci a Oraibi, nella Terza Mesa, l’unico luogo dove sembrava esserci un albergo.  Il paese di Oraibi e tutti i villaggi Hopi, ricordano molto la Matera di 50 anni fa, le stesse case scavate nella roccia, la stessa povertà, le stesse facce segnate dal sole inclemente.  Gli indiani ci osservavano in silenzio, seduti sulla porta, sul tetto di molte case vedevamo, acquattate e immobili, grandi aquile.  Gli Hopi sono un popolo ancora intriso di magia, detentori di una profonda saggezza e spiritualità e conoscitori di segreti che vanno oltre la normale apparenza delle cose.  Sono loro, per capirsi, che hanno previsto la Terza Guerra Mondiale, non sanno quando ma sanno che un giorno cadrà sulla terra con gran fragore una enorme stella blu, quello sarà il segno che la grande distruzione è arrivata.  L’albergo dove trovammo da dormire era davvero spartano, sembrava una kiva, le costruzioni sotterranee dove gli Hopi vanno a purificarsi prima delle loro funzioni sacre.

 

Il proprietario, indiano anch’esso ci scrutò con curiosità: “Siete qui per le danze?”.  Quali danze, pensai.  Così ci raccontò che il giorno sarebbero iniziate le cerimonie per il solstizio d’estate e sarebbero durate tre giorni.  “Non è permesso ai non Indiani di partecipare, ma se state in silenzio in un angolo e non fate fotografie, vedrete che nessuno avrà a che ridire”.  Non ce lo facemmo ripetere due volte, non capita tutti i giorni di assistere ad una vera cerimonia indiana e non a quelle tristi rappresentazioni che vengono inscenate per i turisti.  Così il giorno dopo arrivammo nella piazza del villaggio e ci mescolammo alla folla.  Il villaggio era presente al completo, nessuno ci degnò di uno sguardo e assistemmo così ad uno degli spettacoli più emozionanti della nostra vita. Gli indiani ballavano in cerchio, indossando abiti e piume colorate, i visi coperti dalle inquietanti maschere kachina, le loro maschere rituali. Le danze durarono tre giorni in un crescendo ipnotico che terminò con il lancio di pannocchie e verdure che il resto del villaggio afferrò prontamente.

Ci sembrava di vivere in un altrove magico, rapite in una strana estasi.  Alla fine della cerimonia ci accorgemmo di avere una fame tremenda e ci furono offerti i tacos navajos, tortillas a base di farina, lievito e semi di girasole che vengono fatte lievitare e poi fritte, si servono con pomodori a pezzetti, lattuga, chili e una salsa piccantissima.  Poi stordite piombammo in un sonno pesante.  Il giorno dopo ci svegliammo tardi, ancora stordite e convinte di aver vissuto un’esperienza unica.  Ogni tanto ancora ce la raccontiamo questa avventura, per essere sicure di averla davvero vissuta.  E naturalmente in quelle occasioni non mancano mai i tacos navajos.

 

stefia:
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