E’ il momento di rinegoziare il rapporto con noi stessi e con il mondo, ma di dire, come sempre, sì alla vita

Pur non essendo credente, la Pasqua ha sempre rappresentato per me una sollecitazione a fermarmi, a capire se e come ci si poteva concedere una sosta di riflessione e di pensiero per ripartire. Dopo il dolore, un anelito al futuro, in coincidenza con il riaprirsi della natura. Persino quando, un anno già lontano, nella casa di campagna, il giorno di Pasqua nevicava, la neve era leggera, una danza di fiori di ciliegio.

Quest’anno, persino più dell’anno scorso, mi sembra un giorno come gli altri, immerso in una routine sempre uguale, senza movimento – né fisico, né spirituale- senza speranza, senza leggerezza. Al contrario, nei giorni scorsi, vampate di furore, di incredulità per come sia stata sottovalutata e trascurata l’importanza della vaccinazione per gli over 70 e in genere per i fragili. Che non è (solo) una questione di protezione, ma di salute pubblica, di vita o di morte. Non è solo mancanza di sensibilità, è soprattutto una mancanza di intelligenza. Ancora all’interno della passione e del dolore, non della Resurrezione.

Nemmeno un desiderio? Un lieve sguardo al futuro ? nonostante le sollecitazioni del presidente Draghi?

Mi sono allora ricordata di un libro recente di Francesco Stoppa, Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza. Un libro che non è in relazione con la pandemia, ma con la vecchiaia. Forse può essere utile anche nel binomio che stiamo vivendo: vecchiaia+covid.

 La tesi di fondo è che l’adolescenza e la vecchiaia rappresentino le età per antonomasia della vita, perlomeno se pensiamo le età come soglie critiche che ci costringono a rinegoziare il rapporto con noi stessi e con il mondo. Sia nell’adolescenza sia nella vecchiaia c’è l’inevitabilità di una scelta: scegliere di mettersi sulla strada della propria umanizzazione sprovvisti di un libretto delle istruzioni. L’adolescenza e la vecchiaia sono paragonabili a delle vere e proprie unità di crisi dove il soggetto deve prendere atto che esistono pezzi di sé che incorrono in graduali o repentine mutazioni o che addirittura gli si staccano di dosso, ma dove allo stesso tempo, ha potenzialmente modo di non subire ma di “fabbricare” il suo rapporto con la vita. Momenti di una soggettività entrata in crisi ma che interroga se stessa.

Ognuno si ritrova spodestato dal ruolo, dall’idea e dall’immagine che si era fatto di sé o che gli erano stati cuciti addosso. Questa età della vita, non obbligatoriamente votata a passioni tristi (nostalgia, rassegnazione, rancore) richiede di esercitarsi in una disciplina che potremmo chiamare l’arte di tramontare. L’emorragia di narcisismo è compensata dalla leggerezza e dal senso di liberazione che ci colgono di sorpresa ogniqualvolta ci mostriamo in grado di ”perdere pezzi”, di staccarci da noi stessi. Allora dovremo riconoscere che la fedeltà all’essenza delle cose, al senso più intimo della nostra esperienza, non la si dimostra arroccandosi in se stessi, ma lasciandosi trasformare nell’incontro con la realtà. Si tratta di quei momenti di improvviso, ma inequivocabile risveglio che consentono di passare dalla rassegnazione alla sorpresa di scoprirsi all’altezza del se stessi, dal risentimento alla gratitudine nei confronti della vita, dal dolore di esistere alla gioia di esserci. Dire di sì alla vita.

Ho cercato di mettermi in sintonia con quello che scrive Francesco Stoppa. Non credo che, almeno per me, si tratti di rinnegare o sotterrare il furore, ma di non lasciarsene travolgere, di continuare a “vedere” qualche ramo di ciliegio oltre che la gelata. Difficile, ma forse necessario. Scrivo il venerdì prima di Pasqua, il giorno più nero. Domani, secondo la liturgia, sarà il giorno del silenzio. Voglio approfittare del silenzio per  esercitarmi a trovare in me qualche sprazzo di desiderio. Difficile, ma non impossibile, con qualche aggiunta di buona volontà.

 

Marina Piazza: sociologia, femminismo, donne, studi sulla vecchiaia
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