In un’epoca che misura tutto in termini di utilità e rendimento, la gratuità sembra un relitto sentimentale. Eppure filosofia, economia e psicoanalisi mostrano che proprio il gesto senza calcolo, la cura non contrattuale, la generosità non strategica costituiscono l’ossatura invisibile della nostra vita sociale e affettiva. Perché ciò che il mercato non vede è spesso ciò che tiene insieme il mondo
Nel vocabolario economico e culturale contemporaneo, poche parole appaiono marginali quanto “gratuità”. Non che sia scomparsa, anzi: sopravvive nei gesti quotidiani, negli affetti, nei momenti di dono spontaneo. Ma è come se avesse perso legittimità: una dimensione “debole”, inefficiente, quasi ingenua, mentre la bussola dominante punta verso ciò che è misurabile, monetizzabile, utile.
Eppure la gratuità — la disponibilità a dare senza aspettarsi ritorno — non è un comportamento anomalo né un lusso morale. È un principio antropologico che attraversa le forme della socialità, della relazione e persino dell’economia.
Per comprenderne la portata, occorre far dialogare tre campi del sapere: la filosofia della società, l’economia comportamentale e la psicoanalisi. Da questo incrocio prende forma un quadro sorprendentemente coerente.
Umberto Galimberti: il consumismo come anestesia del gratuito
Nel suo lungo lavoro di analisi culturale, Umberto Galimberti ha più volte sostenuto che la nostra epoca vive sotto l’imperativo del consumo. In una sua nota afferma: “Il consumismo non è un’abitudine: è una mentalità”.
Una mentalità che definisce ciò che conta e ciò che non conta, e che “produce identità attraverso ciò che si possiede”, non attraverso ciò che si è. La gratuità, in questa logica, diventa un corpo estraneo.
Non produce status, non crea capitale simbolico, non muove indicatori economici. Il rischio, secondo il filosofo, è che l’umano venga educato a riconoscere valore solo a ciò che passa per il mercato, mentre l’universo del gratuito — la cura, l’amicizia, la gentilezza, l’ascolto, l’attenzione — diventa invisibile, quasi inutile.
La gratuità è allora ciò che la società dei consumi fatica a pensare. Non genera profitto: genera senso.
E questo, oggi, sembra paradossalmente più destabilizzante dei costi.
Sergio Beraldo: l’economia scopre la forza del gratuito
Se la filosofia denuncia la marginalizzazione culturale della gratuità, l’economia comportamentale ne studia invece la persistenza reale.
Nel paper On the Economic Relevance of the Principle of Gratuitousness (2015), l’economista Sergio Beraldo mostra come gli atti gratuiti — definiti come “azioni costose senza ritorno diretto” — non siano eccezioni idealistiche, ma componenti strutturali del comportamento umano.
Donazioni anonime, tempo dedicato agli altri, volontariato, aiuto reciproco: tutti gesti che sfuggono alla razionalità utilitaristica. Eppure sono essenziali per la costruzione della fiducia, per la cooperazione di lungo periodo, persino per il funzionamento dei mercati.
Beraldo scrive che la gratuità “richiede di distinguere tra azioni esteticamente equivalenti sulla base della disposizione psicologica dell’agente”: due gesti possono sembrare identici, ma la motivazione fa la differenza.
La gratuità, in economia, diventa così una forza anti-utilitaristica, una corrente sotterranea che permette ai sistemi sociali di non collassare sotto il peso del puro interesse.
Come osservava anche il sociologo Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono (1925): “Nelle società umane, il dono non è un incidente, ma una struttura”.
Oggi la scienza economica torna a confermarlo: l’altruismo non è un errore di calcolo. È un investimento evolutivo.
Vittorio Lingiardi: la gratuità come primo linguaggio emotivo
Ancora più radicale è la prospettiva psicoanalitica. Per Vittorio Lingiardi, la gratuità è la grammatica originaria della relazione umana. In un suo intervento osserva: “La cura nasce da un gesto, non da un contratto”. È nella gratuità primordiale del prendersi cura — lo sguardo che accoglie, il nutrimento non condizionato, la presenza che non chiede performance — che si forma l’Io. Ogni bambino cresce grazie a una sequenza innumerevole di atti non misurabili, non meritati, non bilanciati.
La gratuità è dunque la radice psichica della fiducia: se non l’abbiamo ricevuta, difficilmente potremo offrirla, e la relazione rischia di trasformarsi in scambio, controllo, compensazione.
La psicoanalisi mostra che la gratuità non è un abbellimento della relazione: è la sua condizione di possibilità.
Una convergenza inattesa
Mettendo insieme filosofia, economia e psicoanalisi, appare chiaro che la gratuità non è un lato B marginale dell’esistenza. È ciò che permette alla società di essere più della somma dei suoi scambi, all’economia di non ridursi a un’arida contabilità, alla psiche di non crollare nella solitudine narcisistica. La gratuità è un atto di fiducia in un mondo che misura tutto.
Un investimento senza garanzia. Un rischio che fa esistere l’altro non come partner di scambio, ma come soggetto.
È ciò che George Bataille definiva “il principio dell’eccedenza”: “La vita umana non è riducibile all’utilità; è eccedenza, dépense, spreco luminoso”.
E ciò che Hannah Arendt chiamava “la natalità”, la nostra capacità di dare inizio, di creare qualcosa che non è necessario, ma che apre nuovi mondi.
Che cosa resta, allora?
Resta un punto semplice e vertiginoso: la gratuità non serve a niente, e proprio per questo serve a tutto. Serve all’economia perché genera cooperazione. Serve alla psiche perché genera fiducia. Serve alla società perché genera legami non strumentali. E serve alla nostra interiorità perché ricorda che il valore non coincide con il prezzo.
Il mercato produce beni, il consumo produce identità provvisorie, ma è la gratuità che produce umanità. È la trama invisibile che sostiene ciò che conta davvero: ciò che possiamo donare senza perderlo, ciò che possiamo ricevere senza pagarne il prezzo, ciò che ci permette di vivere non solo insieme, ma gli uni per gli altri.
(In apertura:* Marc Chagall, L’anima di Elpenore da Odyssey, 1989, Litografia)
“La grazia del gratuito” non è un titolo di opera di Marc Chagall, ma può descrivere un sentimento presente nella sua arte, dove temi come l’amore, la nostalgia e la spiritualità si esprimono attraverso un linguaggio onirico e simbolico. Le sue opere, che uniscono elementi della tradizione ebraica e di vari movimenti d’avanguardia, offrono immagini di gioia, felicità e amore trascendente che sembrano “date senza motivo”.
Il dono della presenza
Presenza e contatto: Al centro della performance c’è l’incontro, in cui i visitatori sedevano uno alla volta di fronte all’artista, stabilendo un contatto non verbale che ha generato momenti di intensa emozione e commozione per molti. L’opera si è conclusa con la riconciliazione visiva e commovente con il suo ex compagno e artista Ulay.
Dono e vulnerabilità: L’artista donava la propria presenza fisica e vulnerabilità, creando una relazione che non si basava su un possesso o un contratto, ma su un libero e reciproco scambio di energia nel qui e ora.
Preparazione e disciplina: Per affrontare questo stato di presenza, l’artista ha sottolineato la necessità di una preparazione metodica, che include l’esercizio rigoroso di concentrazione, ascolto e silenzio.
Tempo sospeso: La performance permetteva di sospendere il tempo, creando uno stato di coscienza che va oltre la dimensione quotidiana e permette di connettersi con se stessi e con l’altro in modo più profondo.
Reperibilità: Il successo della performance ha portato alla sua ri-esposizione in vari contesti, sia attraverso il documentario “The Artist Is Present”, sia tramite la ri-performance da parte di altri artisti, come in Seven Easy Pieces.