Gli approfondimenti dell’Ispi: Israele e Iran, la “guerra fredda” cambia passo

Per Israele sono giorni critici. Oltre alle difficoltà interne, con il primo ministro Benjamin Netanyahu che rischia l’incriminazione per corruzione, anche il fronte esterno si è fatto più caldo: soprattutto quello siriano. L’abbattimento lo scorso 11 febbraio dell’F16 israeliano di ritorno da una missione in Siria, dopo che a sua volta un elicottero israeliano aveva colpito un drone iraniano che aveva sconfinato nel suo spazio aereo, ha fatto aumentare la tensione tra Israele, il regime di Damasco e i suoi alleati regionali, in primis l’Iran. La rapida evoluzione degli eventi, che ha provocato una risposta immediata da parte israeliana, sembrerebbe portare Israele verso un maggiore coinvolgimento nella crisi siriana e allo stesso tempo ampliare lo scenario di crisi.

Israele nella crisi siriana

Nel corso della guerra civile siriana Israele si è mantenuto ufficialmente su una posizione di strategica neutralità. Stretta tra due fuochi – da un lato gli storici rivali Damasco e Teheran, dall’altro la minaccia crescente rappresentata dalle fazioni islamiste anti-Assad – Tel Aviv ha inizialmente preferito osservare l’evolversi del conflitto in Siria da una posizione attendista. Questa postura è però iniziata a mutare nel 2013, con l’arrivo in Siria di Hezbollah – acerrima nemica di Israele – e con il progressivo sbilanciamento della guerra a favore del regime di Damasco e dei suoi alleati negli ultimi due anni. Per Israele è infatti necessario impedire alla milizia libanese – sostenuta dall’Iran – di avvicinarsi troppo ai propri confini con la Siria, definiti dalla linea dell’armistizio del 1974 sulle alture del Golan. Da qui Hezbollah potrebbe lanciare attacchi a Israele senza esporre direttamente il territorio libanese a rappresaglie. In questo contesto, impedire alla milizia di rafforzarsi ulteriormente è una priorità per Tel Aviv, che ha potuto approfittare del caos siriano per condurre nel paese una campagna di bombardamenti mirati volti a contenere la minaccia. Negli ultimi cinque anni Israele ha condotto un centinaio di attacchi a convogli che transitavano in Siria per trasportare armi destinate a Hezbollah o ad altri gruppi ritenuti ostili. Il raid israeliano seguito all’abbattimento dell’F-16 è stato il più consistente dall’inizio della guerra in Siria, nonché il primo a colpire direttamente basi iraniane nel paese (su dodici obiettivi colpiti, quattro sono iraniani). Tale evoluzione potrebbe segnare uno spartiacque importante e alzare ulteriormente il livello dello scontro tanto in Siria quanto sul piano regionale.

Verso uno scontro aperto con l’Iran (e Hezbollah)?

Dopo le fasi delle primavere arabe, delle guerre civili e del ritorno dei regimi militari (o, altrove, dell’affermazione dello Stato islamico), per il Medio Oriente sembra essersi aperto un quarto capitolo: quello della creazione delle sfere di influenza, con gli attori regionali impegnati in una lotta per la conquista della propria sfera di influenza nella Siria martoriata dalla guerra. Israele, per quanto tenutosi ufficialmente ai margini del caos mediorientale di questi anni, non è esente da questa nuova lotta. Infatti proprio in Siria si scontrano le “linee rosse” di Tel Aviv e Teheran, due potenze tradizionalmente rivali, impegnate negli ultimi decenni in un conflitto “freddo” fatto di operazioni sotto copertura, bombardamenti chirurgici e omicidi mirati. Nonostante l’ipotesi dello scoppio di un conflitto aperto tra Iran e Israele resti al momento lontana, l’episodio di sabato scorso ha fatto alzare la temperatura dello scontro. Se per Teheran rimane invariato l’obiettivo di preservare l’unità territoriale della Siria e la permanenza di Assad al potere per poter continuare a garantirsi la profondità strategica necessaria per esercitare la deterrenza nei confronti di Israele, per Tel Aviv è fondamentale la creazione di una zona di influenza che si estende dalle alture del Golan entro i confini siriani per 40 km, allo scopo di tenere il più lontano possibile le milizie alleate all’Iran. Alla luce di tutto ciò, è lecito attendersi nei prossimi mesi altri incidenti “di confine” che, pur non deflagrando in un conflitto aperto, rischiano di allontanare la prospettiva di una Siria pacificata e stabilizzata.

 

Russia: unico mediatore possibile?

Intervenuta militarmente nel settembre del 2015 per preservare il regime di Assad e la sua posizione nel Mediterraneo, la Russia è diventata un attore cruciale in Siria. Mosca ha saputo – e dovuto, visti i limiti dell’economia russa – bilanciare sapientemente la sua azione nell’area e nonostante la vicinanza all’Iran e ad Assad ha mantenuto un rapporto privilegiato con Israele, come dimostrano anche i frequenti colloqui tra esponenti di spicco dei due paesi. L’ultimo incontro tra Netanyahu e Putin, avvenuto poche settimane fa, ha avuto un copione simile ai precedenti, con il primo ministro israeliano che ha esposto al presidente russo le preoccupazioni strategiche del suo paese; in particolare, ha rimarcato la volontà di impedire a Hezbollah di acquisire armamenti avanzati e all’Iran di rafforzare la sua presenza in Siria. Data la volontà di Mosca di rimanere impegnata nel paese – e l’annuncio recente riguardante l’espansione della base di Tartus ne è una conferma – la stabilizzazione della Siria è una priorità. Per questo, in seguito all’abbattimento dell’F-16 israeliano e alla rappresaglia seguita, il ministero degli Esteri della Federazione ha rilasciato una dichiarazione chiedendo alle parti di mostrare moderazione ed evitare di complicare ulteriormente la già difficile situazione. La Russia, in quanto partner di Teheran e protettore di Assad ma con buoni rapporti con Israele, sembra essere lo stato più adatto per mediare tra le parti e forse l’unico, attualmente, in grado di evitare che le tensioni accumulatesi nell’area sfocino in aperto conflitto.

Verso un asse israelo-saudita?

Il graduale reintegro dell’Iran nelle relazioni internazionali dopo gli anni dell’isolamento e delle sanzioni sembra avere spinto Israele e Arabia Saudita – nemici regionali dell’Iran – a unire le forze allo scopo di controbilanciare il ritrovato peso geopolitico di Teheran. Nel settembre dello scorso anno Netanyahu ha parlato di contatti informali con paesi arabi – pur rimanendo vago. Due mesi più tardi Yuval Steinitz, ministro dell’Energia israeliano, ha rivelato contatti segreti proprio tra Israele e Arabia Saudita focalizzati sulla condivisa percezione di Teheran come una minaccia. Oltre a dover costruire un asse volto a contrastare l’Iran, l’Arabia Saudita non è ancora arrivata a una soluzione per la guerra in Yemen – che, secondo uno studio di Harvard, costa a Riyadh circa 200 milioni di dollari al giorno – e allo stesso tempo è impegnata in un complesso tentativo di riforma economico-sociale al suo interno. Il faraonico progetto Neom, la nuova area economica speciale che sorgerà sul Mar Rosso, ha proprio l’obiettivo di rispondere a quest’ultima sfida. L’area sarà ubicata in prossimità dello Stato di Israele: un avvicinamento geo-economico oltre che politico e strategico.

Fonte: ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

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