“Donne della Repubblica”, la storia del nostro Paese, vista con l’occhio e l’azione delle donne

Donne della Repubblica“, il Mulino, Bologna, pag. 278 Euro 23,00.

Introduzione di Dacia Maraini, testi di Paola Cioni, Eliana Di Caro, Elena Doni, Claudia Galimberti, Lia Levi, Maria Serena Palieri, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Federica Tagliaventi, Chiara Valentini.

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Per ricordare il 2 giugno si può partire da una foto ormai ingiallita che riproduce una pagina della Domenica del Corriere dell’estate del 1946. Spesso pubblicata quando si parla della nascita della Repubblica italiana, quella pagina riporta tante faccine di donne, 21 per l’esattezza, le elette all’assemblea costituente. Una minoranza rispetto ai 535 uomini, ma comunque un buon risultato se si considera che fino ad allora alle donne italiane era persino vietato votare, figurarsi entrare in Parlamento! Cinque di loro (Nilde Iotti, Teresa Noce, Lina Merlin, Maria Federici, Ottavia Penna Buscemi) andranno poi a fare parte della ristretta commissione dei 75 incaricata di elaborare il progetto di Costituzione. Non un contentino per tenersele buone, un fiore all’occhiello in un Parlamento maschilista per tradizione e vocazione culturale: le cinque neo deputate erano poco plasmabili ai desiderata e agli ordini di scuderia dei rispettivi partiti. Con competenza e decisione, nel corso delle lunghe sedute, diedero battaglia per difendere i diritti che le donne volevano finalmente riconosciuti. Merlin, per esempio, riuscì a fare inserire all’articolo 3 della Costituzione quella fondamentale frase, “senza distinzione di sesso” che è stata, e lo è ancora oggi, alla base di ogni rivendicazione etica e giuridica per il rispetto e l’osservanza delle pari opportunità.

Eppure, quando si parla di nascita della Repubblica Italiana si preferisce evocare i grandi padri, spesso addirittura si ignora che ci fu anche un protagonismo femminile. Donne che nell’antifascismo e poi nella Resistenza hanno lottato in prima persona e non solo per la libertà del Paese, ma anche per accelerare il processo di emancipazione femminile e affermare un’identità di genere. Proprio per colmare i silenzi della storia è uscito di recente Donne della Repubblica, opera collettiva di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Nel libro quattordici biografie di donne che con il coraggio e la tenacia hanno avuto una parte importante nella costruzione della Repubblica. Politiche di professione come Camilla Ravera, Teresa Noce, Lina Merlin, Nilde Jotti, Ada Gobetti, Teresa Mattei, Tina Anselmi, ma anche scrittrici come Alba de Céspedes, Fausta Cialente, Renata Viganò e Marisa Ombra. Nel libro inoltre trovano spazio anche un’attrice, Anna Magnani, la famosa sarta Biki, e la leggendaria Dama Bianca, la compagna di Fausto Coppi. Scrive nell’introduzione Dacia Maraini: “Le domande che vengono in mente leggendo questa raccolta di ritratti femminili che si dipana dall’antifascismo al dopoguerra sono: come mai ne sappiamo così poco? Come mai bisogna fare tanta fatica per riportare alla luce la memoria di donne che sono state importanti, anzi essenziali per la storia del nostro Paese? Siamo ancora dentro una pratica di misoginia intellettuale che tanta parte ha avuto nella narrazione della nostra storia patria?”

Qui di seguito un estratto dal primo capitolo, L’Italia non lascia ma triplica, a firma Claudia Galimberti, che ricostruisce come si arrivò nel dopoguerra all’approvazione del diritto di voto anche per le donne. Un iter non scontato, ottenuto con una larga mobilitazione dell’associazionismo femminile, sia laico che cattolico.

“Cambia la scena, a partire dal 2 giugno 1946: le donne sono, d’ora in poi, magari a poco a poco, faticosamente, ma con decisione, portatrici di nuovi gesti, di parole diverse, di uno sguardo sul mondo esterno che non sarà più estraneo, perché finalmente conosciuto e vissuto.

Per milioni di italiane era una assoluta novità. Che cosa voleva dire “andare a votare”? Scegliere il sindaco, gli assessori e poi scegliere tra Monarchia e Repubblica? Ci si affacciava su un lato oscuro del loro mondo, un lato mai visto né percepito, dove anche la modalità del voto, i fogli, le urne, i seggi erano del tutto sconosciuti. Soprattutto per la maggior parte delle donne di campagna, spesso analfabete, dedite alla fatica dei campi e alla famiglia, donne che non sapevano neanche che differenza ci fosse tra una forma di Stato e l’altra. Sapevano però distinguere tra fascismo e antifascismo e molte erano ancora per il duce. Una situazione ambigua e complessa che altre donne si impegnavano a sbrogliare. A piedi e in bicicletta ogni giorno battevano le campagne e insistevano sull’importanza del voto: parlavano di democrazia e di diritti a un auditorio sordo, analfabeta e poco propenso ad ascoltare donne di città che venivano a parlare di cambiamenti di cui avevano paura.

Il lavoro oscuro e mai abbastanza riconosciuto delle «educatrici al voto» si svolgeva nella stessa situazione che aveva già visto le donne tirarsi indietro quando le prime socialiste, Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni, parlavano di diritti nel lavoro, di scioperi, di libertà e le operaie erano restie ad accogliere le nuove idee che prefiguravano un mondo alla rovescia, di cui le stesse donne, anche allora, avevano timore. Le giovani erano più aperte, ma anche frenate dall’educazione familiare che aveva sempre insegnato, con le parole e con l’esempio, che la donna deve essere sottomessa. Le Associazioni femminili unite, l’Unione donne italiane (UDI) e il Centro italiano femminile (CIF), avevano costituito la Commissione per il voto che nell’ottobre del 1944 presenta al governo presieduto da Bonomi un documento che spiega come sia inderogabile il voto alle donne. A fine mese si costituisce un vero Comitato Pro Voto, attivissimo nel mobilitare le forze sociali e politiche a favore del suffragio universale. Laura Lombardo Radice scrive un opuscolo intitolato Le donne Italiane hanno diritto al voto. Il Comitato femminile per il suffragio dell’UDI fa pubblicare un testo da far firmare al maggior numero possibile di donne. “Noi, donne di… chiediamo al Governo di Liberazione Nazionale il diritto di voto e di eleggibilità nelle prossime elezioni amministrative. Riteniamo che l’esclusione da tale diritto lascerebbe la donna in quella posizione di ingiusta inferiorità in cui il fascismo ha voluto mantenerla non solo all’interno dello Stato, ma anche nei confronti delle donne di tutti i paesi civili.”

Nella primavera del 1945 si sarebbero tenute le elezioni amministrative e le donne premevano per potervi partecipare. Il 30 gennaio 1945 il Consiglio dei ministri approvò l’estensione del voto alle donne e il 1° febbraio venne emanato il decreto luogotenenziale n. 23 che estendeva il voto alle donne che avessero compiuto 21 anni con l’esclusione delle prostitute schedate, ma che esercitavano la professione al di fuori delle case riconosciute dallo Stato. Peccato che nella fretta di emanare il decreto la eleggibilità passiva restò fuori. Le donne potevano votare, ma non essere elette. Si riparò alla mancanza circa un anno dopo, in tempo per far partecipare le donne, con pieni diritti, alle elezioni amministrative del 10 marzo 1946.

Anche il Papa era intervenuto nella questione del voto alle donne. Il 21 ottobre 1945 Pio XII appoggiò il suffragio universale, incoraggiando la donna a entrare in azione, a non essere assente, in funzione però dei valori cristiani, per proteggere la famiglia contro chi la minacciava. Le parole del Papa furono molto importanti per le donne cattoliche, presenti all’udienza con le componenti del CIF. Scrive Cecilia Dau Novelli: le parole di Pio XII liberarono “le donne da ogni remora sulla liceità della loro partecipazione alla vita politica. In questo senso ebbero un effetto dirompente.”

D’ora in poi le italiane avevano in mano un formidabile strumento per cambiare  le sorti del Paese e lo usarono nell’appuntamento più importante al quale erano chiamate, il 2 giugno 1946, e i partiti ne erano coscienti.”

“Donne della Repubblica”, il Mulino, Bologna, pag. 278 Euro 23.

Introduzione di Dacia Maraini, testi di Paola Cioni, Eliana Di Caro, Elena Doni, Claudia Galimberti, Lia Levi, Maria Serena Palieri, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Federica Tagliaventi, Chiara Valentini.

Le autrici del volume fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Come opere collettive per il Mulino hanno pubblicato anche «Donne del Risorgimento» (2011) e «Donne nella Grande Guerra» (2014). Per altri editori: «Piccole italiane» (Anabasi, 1994), «Il Novecento delle italiane» (Editori Riuniti, 2001), «Amorosi assassini» (Laterza, 2008).

 

Per saperne di più e respirare l’aria dell’epoca

Chi ha avuto una madre che fu ragazza ai tempi dell’ultima guerra, quasi certamente ne ha raccolto i racconti sui cappotti ricavati con le proprie mani da coperte militari dal tessuto pungente, sulle camicette fatte con la ricercatissima stoffa di seta dei paracadute americani, sulle scarpe ortopediche fabbricate in casa. E quanta grazia, quanta naturale eleganza traspare da foto in bianco e nero come quelle di mia madre e mia zia che, facendo di necessità virtù, confezionandosi quegli abiti e quelle scarpe riuscivano a ribadire semplicemente la loro voglia di esser giovani e vitali. Anche quel loro farsi i vestiti con modelli disegnati sulla carta velina fu uno tra i tanti piccoli ordinari eroismi quotidiani delle donne italiane che tra gli anni ’40 e i ’50 non smisero di guardare avanti, oltre l’orizzonte degli stenti, delle sofferenze e delle imposizioni. Perché se il fascismo aveva significato il dilagare per un ventennio del modello unico della donna-fattrice, regalata a ruoli subalterni nel lavoro e nella sfera pubblica, la sua fine non coincise con una repentina libertà ma schiuse un percorso difficile dominato dal pregiudizio che continuò a imporre modelli femminili sottomessi. E che ancora nel dopoguerra, con le norme del Codice Rocco, sanciva per le donne la “minorità giuridica”.

Ora, se per noi figlie i racconti di vita quotidiana delle nostre mamme ragazze nei ’40 e ’50 possono esser sembrati lontanissimi, figurarsi come risuonerebbero alle orecchie di chi oggi è giovane e dà per scontati diritti acquisiti a prezzo di dure battaglie, nonché di una resistenza che riguardò moltissime donne, si può definire “minore” e scrivere con la “r” minuscola, ma forse non è meno importante dell’altra.

Ma il “come eravamo” è un esercizio di memoria pochissimo praticato. Perciò, il lavoro svolto dal 1992 dalle donne di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici coordinato da Dacia Maraini, è sempre più importante e appare perfetto per essere utilizzato nelle scuole. Perché con i volumi sull’identità femminile nel Risorgimento, nella Grande Guerra e ora con le “Donne della Repubblica” (tutti editi dal Mulino) ripercorre le tappe di un cammino femminile ancora sommerso nella memoria pubblica e nella storiografia stessa, entrambe viziate, come afferma Maraini, da “misoginia intellettuale”. Parzialmente diradata in occasione di anniversari come il 70mo delle elezioni del 1946, oggetto di celebrazione mediatica rapidamente archiviata. Con ricchezza di documentazione, i 14 saggi di quest’ultimo volume raccontano i percorsi di altrettante politiche, giornaliste, scrittrici, ma anche personaggi della moda, dello spettacolo o donne comuni. Tutte importanti per ricostruire una memoria collettiva della storia italiana, ma latitanti nel discorso pubblico. “Perché non si dice che Camilla Ravera” annota Dacia Maraini “con Terracini criticò aspramente nel 1939 il patto Ribbentrop- Molotov”, tanto che, come scrive nel suo bel saggio Cristiana Di San Marzano, “entrambi vennero espulsi dal partito?” E a proposito della Teresa Mattei raccontata con maestria da Chiara Valentini, perché non si ricorda che nel suo ruolo di membro della Costituente “riesce a far passare alcuni emendamenti in favore delle donne … ed entra in collisione con Togliatti a proposito del Concordato”? Risposta semplice: per via dei tabù contro le donne imperanti anche a sinistra, di cui a fare a lungo le spese fu la futura prima presidente della Camera, Nilde Iotti. A ricostruirne il percorso è Maria Serena Palieri che ne coglie bene il carattere di anticipatrice, “in corpore vili, da un trentennio … dello slogan del femminismo anni ’70 ‘il personale è politico’”. Panieri evidenzia una cosa che pochi sanno: la futura presidente della Camera fu un soggetto politico ben prima d’incontrare Togliatti. A soli 26 anni, in virtù delle sue doti intellettuali e politiche, fu una delle 21 donne della Costituente ed entrò “nel cenacolo più ristretto, la Commissione dei 75, incaricata del lavoro ‘vero’ per mandare in soffitta lo Statuto Albertino”. Palieri non si ferma tanto sulla relazione con Togliatti o su episodi come l’aborto tenuto nascosto dal partito, qui nemmeno citato, pur non mancando di far risaltare i condizionamenti esercitati dall’establishment comunista principalmente su di lei, cui fu vietato di far visita al suo uomo in ospedale dopo l’attentato. A emergere con maggiore forza è però qui il suo contributo al cammino delle donne, il lavoro sotto traccia della futura “regina rossa” che già nella Costituente pose “le fondamenta per il dopo: le leggi sul divorzio, contraccezione, interruzione di gravidanza, diritto di famiglia, pari opportunità, violenza sessuale che avrebbero plasmato l’Italia in cui viviamo oggi”.

Ma l’elemento di maggiore originalità del volume è affidato a ritratti di personaggi dall’inconsapevole forza simbolica, come Anna Magnani o la stilista Biki, tratteggiati rispettivamente da Lia Levi e Claudia Galimberti. Pur senza fare un “santino” di sinistra dell’attrice, che peraltro votava DC, Lia Levi fa risaltare come, interpretando la popolana Pina in “Roma città aperta”, seppe incarnare “l’immagine di una tragedia e del superamento di questa tragedia… ne diventò un simbolo, come una specie di Marianna per la Francia”. Quanto a Biki – nome d’arte scelto da D’Annunzio per Elvira Leonardi – no viene raccontato lo spirito di capitano d’industria, la creatività rivoluzionaria nell’accostare colori e nello scegliere tessuti, il ruolo di battistrada del Made in Italy in anni difficili anche per chi, come lei, era nata in una famiglia agiata e colta, illuminata dalla parentela con Giacomo Puccini. Ma Biki non si tirò indietro quando durante il fascismo si trattò di nascondere, in casa propria, Luchino Visconti.

A ricordarci forse più di tutte “come eravamo” è la storia della “dama bianca” Giulia Occhini, che Fausto Coppi sposò in Messico con un matrimonio mai riconosciuto dallo Stato italiano. Scandalo, offesa del “comune senso del pudore”, caccia spietata da parte di una stampa assatanata e bacchettona. L’autrice del saggio, Federica Tagliaventi, ricorda come allora non esistesse il divorzio e l’abbandono del tetto coniugale era un reato punibile con il carcere. Della moglie, non del marito. E in un articolo, la Mafai raccontò così l’irruzione della polizia a casa Coppi, una mattina del 1954: “La Signora era vestita di tutto punto ma questo non bastò a salvarla dall’umiliazione del carcere… Il carabiniere e l’appuntato… trovarono Coppi e la Occhini già in piedi per via del trambusto, e dovettero verificare il tradimento tastando il materasso del letto, ancora caldo”. Ecco come eravamo, solo negli anni ‘50.

redazione grey-panthers:
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