Perché bisogna conoscere cos’è il “picco del petrolio” (Peak Oil)

Nelle puntate precedenti (1 e 2) abbiamo visto che, almeno per il momento, la maggioranza dell’energia che si consuma a livello mondiale è di origine fossile. Il consumo di petrolio continua ad aumentare: ormai si parla di quantità dell’ordine di cento milioni di barili al giorno. Dato che un barile corrisponde a circa 182 litri, vuol dire che si consumano 18.200 milioni di litri al giorno: più di 2 litri al giorno per ognuno dei 7.7 miliardi di abitanti della Terra.

Gli idrocarburi fossili sono derivati da alghe e microorganismi sepolti milioni di anni fa, e la loro quantità, come per tutto ciò che si trova sul nostro pianeta, non è infinita. Soprattutto, si può dire che oggi la velocità con cui vengono consumati è infinatamente maggiore di quella con cui si formano. Considerando questo aspetto, già negli anni ‘70 del 1900 qualche analista aveva previsto che sarebbero sorti dei problemi, dovuti appunto al fatto che l’estrazione di petrolio non poteva continuare ad aumentare con questo ritmo. Brevemente, si è detto che si sarebbe verificato “Peak Oil”, il Picco del Petrolio. Questo termine è stato utilizzato già nel 1956 dal geofisico statunitense Marion King Hubbert, che cercava un modello per prevedere l’evoluzione temporale della produzione di una qualsiasi risorsa minerale[1]. Secondo il modello di Hubbert, si raggiunge il Peak Oil quando la quantità di petrolio che si riesce a estrarre in un determinato campo petrolifero non può più aumentare ma – più o meno lentamente – declina.

Studiare questo processo non è così facile! La previsione si fa considerando il comportamento che si osserva in ogni singolo campo petrolifero: quando si comincia a estrarre il petrolio, per un certo numero di anni la produzione aumenta, ma una volta raggiunto il massimo il campo comincia a esaurirsi. È un processo graduale che avviene con tempi diversi a seconda del tipo di giacimento, di quando è iniziato lo sfruttamento e di altri parametri. Un processo che ha già cominciato a verificarsi in alcuni giacimenti e in alcune regioni, come per esempio il Mare del Nord. Ma le considerazioni di tipo tecnico sulla produzione sono solo una parte del problema. Occorre aggiungere gli effetti dell’andamento dell’economia, del prezzo,  delle scelte politiche: tutte cose di cui sto cercando di dare una panoramica – per quanto parziale e semplificata – in questa rubrica.

Leggendo la letteratura sull’argomento, nella mia ingegnuità mi ero convinta che il meccanismo del Peak Oil fosse abbastanza semplice: diminuendo la quantità a disposizione, il prezzo del petrolio sarebbe salito, e questo avrebbe avuto conseguenze sull’economia di tutto il mondo e ci avrebbe spinto a consumarne meno.

Nei fatti invece cosa è successo? In molti casi, le nuove scoperte hanno compensato le perdite. Soprattutto perché, dato che il prezzo è aumentato e che le tecnologie di estrazione sono migliorate, è diventato conveniente estrarre alcune risorse che si conoscevano da tempo, ma non erano state considerate perché ritenute economicamente poco redditizie. Si tratta soprattutto del cosiddetto “shale oil”, “olio di scisto”, di cui abbiamo già parlato. Estrarre l’olio di scisto richiede:

  • la perforazione di moltissimi pozzi, spesso con la tecnica orizzontale, messa a punto di recente
  • l’iniezione nel giacimento di acqua ad alta pressione contenente diversi prodotti chimici misti con sabbia.

Gli Stati Uniti grazie a questo tipo di estrazione sono riusciti a diventare il primo produttore di petrolio al mondo, più o meno alla pari con l’Arabia Saudita. In molti paesi però, si è scelto di non sviluppare i giacimenti di Shale Oil per non danneggiare l’ambiente.

Intanto, a partire dal 2015 la produzione americana ha fatto scendere il prezzo del petrolio, e questo ha contribuito a far aumentare i consumi. Anche perché c’è chi pensa che le riserve siano così grandi da permettere di non preoccuparsi del Picco del Petrolio almeno per i prossimi 100 anni – corrispondenti più o meno alla durata della vita di tutti gli esseri umani che sono oggi sulla Terra. Ma occorre  tenere conto di un terzo importante fattore, di cui si parla spesso ma – almeno a mio parere – senza veramente impegnarsi a trovare delle soluzioni. Questo fattore  l’ambiente. In inglese si parla delle tre E: Energy, Economy, Environment. È abbastanza scontato che se si utilizza una maggiore quantità di idrocarburi si aumenteranno le emissioni di anidride carbonica (e non solo).  Tutti sanno che le emissioni creano problemi per l’ambiente, ma non tutti si rendono conto che ogni trasformazione di energia, qualunque tipo di energia, produce calore. A quanto sembra le preoccupazioni per l’inquinamento e per i cambiamenti climatici non bastano a farci consumare di meno.

Con l’avvento del Picco, potremmo nostro malgrado essere costretti a fare i conti con la diminuzione della disponibilità di combustibili fossili, ma non è facile prevederne nei fatti le conseguenze. Diversi autori ne parlano, e nel tempo hanno anche cambiato il loro atteggiamento[2], soprattutto per quanto riguarda le previsioni sulle conseguenze del Picco. In particolare sembra chiaro che non è facile prevedere quando si verificherà il picco del petrolio a livello mondiale, anche se per alcuni Paesi produttori sembra che sia già in atto. È anche chiaro che i problemi associati al picco della produzione mondiale di petrolio non saranno temporanei e che occorre cercare di capire meglio il problema e organizzare per tempo le azioni compensative: su questo punto sicuramente siamo in ritardo, soprattutto perché non è chiaro cosa si dovrebbe fare.

Molti pensano per esempio che il progresso tecnologico ci permetterà la transizione verso altri tipi di energia, senza che si debba diminuire il quantitativo consumato; personalmente ritengo che sia un’illusione, perché al di là del tipo di combustibile o di energia, questo livello di consumi di per sé non è sostenibile e produce inquinamento e calore.

Secondo altri analisti, un primo grave problema potrebbe essere dovuto alla scarsità di carburanti liquidi per il settore del trasporto; questo mi vede piuttosto d’accordo, anche perché oggi i trasporti sono alla base dell’economia dei consumi, come abbiamo già visto per il cibo e per il vestiario. E forse diminuire i trasporti, almeno fino a un certo punto, non sarebbe così difficile e aiuterebbe a diminuire i consumi.

Si sentono anche molte affermazioni discordanti sugli effetti che il picco potrebbe avere sul prezzo del petrolio. Le opinioni sono opposte: secondo alcuni, il picco comporterà un aumento dei prezzi, ma secondo altri, invece, il prezzo diminuirà perché l’economia andrà in recessione. Forse questo dualismo si può spiegare precisando che il consumo di petrolio e l’andamento del prezzo si influenzano l’un l’altro. Se il prezzo sale, il consumo dovrebbe diminuire, provocando un eccesso di offerta che a sua volta farà scendere il prezzo. Ma questo, mi dicono, vale solo se la domanda è elastica, e spesso per i carburanti non lo è. Infatti non c’è solo questo meccanismo. La politica cerca di agire sul prezzo, e la mia impressione è che lo sforzo degli Stati Uniti nello sviluppare i campi di Shale Oil possa essere interpretato in questo modo. Senza badare alla convenienza economica, gli USA vogliono ottenere due risultati: tenere basso il prezzo – necessario per mantenere un tenore di vita elevato -, e diventare indipendenti dal punto di vista energetico.

C’è poi chi sostiene  che il costo di estrazione dell’olio di scisto è maggiore del ricavo, e che a questi prezzi le compagnie stanno accumulando debiti. Anche il debito pubblico americano sarebbe aumentato molto a causa degli investimenti necessari per estrarre questo tipo di petrolio.

Mi piacerebbe allora capire meglio  il collegamento tra il cosiddetto “Quantitative Easing” (e cioè l’abbassamento dei tassi di interesse) e il prezzo del petrolio. Facendo una analisi superficiale, mi viene da pensare che i tassi bassi hanno permesso di finanziare l’estrazione di questo petrolio troppo costoso e troppo pericoloso per l’ambiente. Ma qui mi devo fermare, con un’ultima considerazione: il petrolio è la materia prima per tantissimi prodotti utili, dalle fibre tessili ai fertilizzanti, dalle plastiche ai medicinali, e molto altro. A partire dagli anni ’60 del Novecento, il numero di prodotti utili derivati del petrolio è aumentato moltissimo e sarebbe bene tenerne conto. Occorre evitare di sprecare una risorsa così preziosa, bruciandola allegramente nei motori dei nostri mezzi di trasporto e dei nostri trattori, sempre più efficienti ma anche sempre più grandi e pesanti.

C’è un altro collegamento tra economia e energia, un aspetto di cui forse si parla meno ma che potrebbe essere molto importante. La sigla – sempre in inglese – è EROI: Energy Return Over Invested, cioè Energia Ricavata in rapporto alla Energia Investita. Ne parleremo, cercando di proseguire in questa veloce carrellata.

 

[1]     Marion King  Hubbert, Nuclear Energy and the Fossil Fuels ‘Drilling and Production Practice’, Spring Meeting of the Southern District. Division of Production. American Petroleum Institute, San Antonio, Texas, Shell Development Company, giugno 1956, pp.22–27

[2]     https://oilprice.com/contributors/Ron-Patterson

Giovanna Gabetta:
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