LE RIFLESSIONI DI GINO, UNO DI NOI: “Spavento” (42)

Pubblicato il 21 Agosto 2021 in Letture Ideas
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Ieri mattina abbandonare il piacere del sonno è risultato faticoso. Una attrazione fatale con il letto. Una stanchezza che ti rallenta ogni gesto, ti fa sembrare lontana ogni cosa. Sento il cuore che pulsa, con insistenza. Le immagini sono sfuocate. Davanti allo specchio ho trovato un’altra persona: un uomo invecchiato, un po’ bolso, dallo sguardo sfatto. Era lì, davanti a me, nella sua imbambolata fissità. Senza dirmi niente. Copiava ogni mio gesto: ho realizzato che quell’estraneo ero io.

Sensazione strana: quell’uomo visto come estraneo, estraneo non era. Ho capito. Ci sono dei momenti in cui ci ricordiamo la ruggente giovinezza come la pelle di una muta abbandonata. E sotto non c’è pelle nuova. E fingiamo che non sia così. I “vecchi” sono gli altri, non noi. Se non esistessero gli specchi, il tempo inutilmente potrebbe preparare sorprese per noi.

Sento le gambe pesanti, come fossero affondate nella sabbia.

Cerco la sedia più vicina, possibile sollievo. Ci abbandono il mio peso sopra. Respiro lentamente.

Qualcosa non va. Il fiato è pesante.

Il cellulare, lasciato sul tavolo acceso, sembra mi dica qualcosa.

Chiamo.

“Lina, ti prego, vieni qui. Qualcosa non va”

Fatico ad alzarmi dalla sedia. Penso a chi è solo in questi frangenti: braccato per un nulla dal nulla che incombe. E’ un momento in cui lascerei un messaggio alla umanità: tralasciate dopo una certa età i litigi. Restare da soli non è un buon affare.

Passa un tempo interminabile: sento armeggiare alla porta. E’ lei. Lina.

Entra come un turbine. Si piazza davanti a me senza una parola. Mi guarda. Un “ciao” crolla miseramente fuori dalle mie labbra.

E’ spaventata.

“Che cosa ti senti?”

“Come se avessi il serbatoio della benzina vuoto”.

“Chiamo il medico!”. E mentre armeggia con il telefono, il mio contatto con il mondo si fa ancora più incerto e paludoso.

Credo di avere avuto un black out.

Mi risveglio nel mio letto.

C’è il medico. E Lina. Lui dice qualcosa. E lei risponde. Voci lontane.

Di nuovo black out, credo.

Riprendo i contatti con il mondo mentre fuori è buio.

Lei è lì, accanto a me, mi tiene la mano. Il mondo ora è più nitido, i suoni meno spugnosi. Provo a muovermi. Tutto sommato meglio. Forse, probabilmente è così, il medico mi ha visitato, ma non ricordo nulla.

“Gino, avevi la pressione molto bassa. Il medico non mi ha detto molto. Ma mi ha lasciato una sfilza di esami. Da fare appena possibile. E mi ha anche detto che se ti senti ancora come questa mattina ti devo portare di gran corsa al pronto soccorso. Che cosa mi hai combinato?”

Il suo sguardo è pieno di tenerezza. E non mi molla la mano. Non voglio guarire: voglio andare in paradiso così.

“Hai fame?”

“Non so, forse si”. E mentre le rispondo provo a sedermi sul letto. Le gambe non protestano, ogni cosa intorno appare ben salda nella sua posizione. Il peggio è passato?

“Non chiedermi la carbonara proprio adesso”

“Mi basterebbe una brioche”

“Me lo aspettavo, sai? Eccola”. E mi allunga con delicatezza un piattino con due brioches ancora calde. Il paradiso può attendere. Mentre dormivo è andata in pasticceria. Ma come posso lasciarla sulla terra sola?

Mi guarda, mi spezza in bocconi la prima brioche e me li appoggia sulle labbra.

Sbircio: su un altro piatto attende il thè, con la sua fetta di limone già tramortita dallo stuzzicadenti.

“Tu hai già mangiato?”

“Non preoccuparti di me. Non ti lascio, stasera dormo qui. Non voglio altre sorprese. Se te ne vai, io che cosa ci sto qui a fare?”

E passa alla seconda brioche.

Mi sfugge un battuta: “Continua così che potrei anche decidere di sposarti”

Mi guarda seria. “Gino, se è così, vado subito giù a comperare un chilo di brioches”

Abbozzo un sorriso: “Però tutte con la crema. Altrimenti niente”

Sorride. E mi abbraccia. Può congedare il suo spavento.

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