LE RIFLESSIONI DI GINO, UNO DI NOI: “La telefonata di Marco” (47)

Pubblicato il 23 Agosto 2021 in Letture Ideas
solitudine

Era tanto che non sentivo Marco. Lui con il suo Parkinson e sua moglie anche lei segnata nel suo destino. Ho ancora nella memoria quel pranzo a casa loro con Lina, quegli istanti di gioia intorno al tavolo strappati al quotidiano dolore. Mi sento in colpa per il silenzio calato sul rapporto. Ci diamo al volontariato, pensando alle grandi scelte, e poi ci perdiamo nel prossimo che ci è più prossimo.

E’ stato Marco a rompere quel silenzio. Con una telefonata. Per dirmi che la moglie non c’era più: “Gli angeli se la sono portata via”.

Al mio “vengo da te appena posso, oggi”, declina. Forse ha intuito che quella mia disponibilità improvvisa è più per me che per lui. Per lavare via il mio imbarazzo. Sia come sia, ci vado lo stesso. E Lina è con me. E’ bastato dirle della telefonata di Marco.

Arriviamo. Al citofono mi apre, con un “ma non dovevi venire”. All’aprirsi della porta, lui ci accoglie nella penombra. Un odore quasi maleodorante mi prende. La casa è nel caos. Lui è scavato in volto, il bastone sostiene più il peso del dolore che di un corpo ormai esile. Si muove come in preda ad una grande stanchezza. Entriamo. Ritrovo su una poltrona il vestito di lei messo durante il nostro incontro. “Voglio che indossi per l’ultima volta quel vestito, era serena e sorridente quel giorno, con voi. Dopo è rimasto sempre lì”. Vorrebbe piangere, ma non ha più lacrime.

“Marco, lascia che mettiamo un po’ a posto”. Vorrebbe dire di no. Ma lo sa che un “lascia, ci penso io” sarebbe una immensa bugia. Si abbandona nella poltrona e si limita a un gesto impercettibile di consenso.

Lina non perde tempo: apre finestre e fugge in cucina.

Il nostro pomeriggio passa così. Lina ed io in movimento per ridare allo spazio la sua vocazione di accoglienza, con Marco che ci guarda stupito e un telefono che squilla per le funebri considerazioni. Provo a scambiare qualche parola con lui, ma inutilmente. E’ chiuso a doppia mandata nel suo dolore. Non insisto.

Mentre cerco di rimettere a posto un appartamento a dir poco trascurato, la mia testa macina: il pensiero va a coloro che predicano quanto è bella e stimolante l’età del pensionamento.

Più procedo e più mi convinco che si tratta di una bella quanto pericolosa generalizzazione. Io ho incontrato Lina. Certo. La mia vita è trapassata dal grigiore ai colori più smaglianti. Ma ho fatto anche i conti con la malattia, e con i suoi limiti. E con la malattia e i dolori altrui.

Come ogni età della vita, la sua bellezza è nel poterla e saperla conquistare. Non ti è data quella bellezza. O fingi con te stesso, ti racconti le bugie, o rimandi. Finché dura. Anche qui le prove non mancano, i cambiamenti ti aspettano. Nel corpo, nello spirito, nelle relazioni, nelle certezze. Sapendo che hai un futuro molto prossimo da poter disegnare, che ora è più fragile di un tempo. Raggiungi la bellezza guardando al sasso che ostacola il cammino e affrontandolo. E’ l’età del coraggio. Questo sì. L’esercizio del coraggio porta alla bellezza di questa età.

Arrivano le sette e mezza. Vedo Lina visibilmente stanca, sempre in compagnia di quella fastidiosa tossetta. Marco si guarda intorno al tacere finalmente del telefono. Mi guarda e sorride. E’ il suo grazie. Entra in cucina. Lina ha davvero dato tutto. Linda e pulita, ogni stoviglia è dove deve essere. E sul piccolo tavolo è una teglia fumante di pastasciutta al pomodoro. Marco si siede, e la guarda come rapito. Chissà da quanti giorni non vede pastasciutta.

“Vi prego, andate ora, è tardi, avete fatto anche troppo. E poi ho voglia di restare un po’ in solitudine.  Ho solo energie per dirvi grazie”.

“Marco, ti lascio sulla lavagnetta il mio numero di cellulare. Avrai bisogno. Chiama, mi raccomando!”. E’ l’ultima parola di Lina. Usciamo lasciando Marco seduto davanti alla sua pastasciutta. Come in contemplazione di un piccolo miracolo.

Il coraggio dei piccoli gesti. Ecco che cosa mi insegna questa età.

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