L’ageismo? Finirà quando non pretenderemo più di essere come eravamo

Pubblicato il 5 Aprile 2022 in Pensieri Ideas Tempi d’oggi / Noi e Società

Sono anni che il tema della vecchiaia è in cima ai miei pensieri, prima con una riflessione attenta su di me e su che cosa stava cambiando in me, riflessione che ha preso corpo in un libro (“L’età in più“), poi con gruppi di lavoro stimolanti, fonte di nuovi pensieri, per capire che cosa stava succedendo fuori di me, nella altre, tradotto in un altro libro (“La vita lunga delle donne“), che cercava di mettere ordine in tutte queste sollecitazioni. Non a caso con l’attenzione puntata sulla vecchiaia femminile perché si sa, ma spesso non si dice, che sono le donne a vivere più a lungo e spesso sole, annegando tutto nel neutro indistinto (“gli anziani”).

Come se fosse la stessa cosa invecchiare come uomini e come donne, invecchiare da ricche/benestanti, o da povere,  invecchiare in grandi città o in piccoli paesi, invecchiare da sole o all’interno di una comunità affettiva (non solo familiare, anche allargata, ma in questo caso non deve essere una semplice “amicizia”, deve essere una familiarità non programmata). Facendo della fase della vecchiaia un tutto unico, come se fosse la stessa cosa avere 65 anni, averne 70, averne 75, averne 80 e poi ancora di più. Da questi pensieri e da queste sollecitazioni, il pensiero generale che ho elaborato è stato quello di evidenziare, mettere in risalto, farne il fulcro del ragionamento, il pensiero che c’è vita nella vecchiaia, che più che ai dati statistici dovevamo affidarci alle nostre soggettività, che non volevamo parlare di morte o di rassegnazione, ma cercare di capire come lottare contro gli stereotipi di ogni tipo e contro l’ostilità generale delle politiche pubbliche.

Appena pubblicato il libro, è iniziato il giro delle presentazioni – che più che presentazioni sono state occasioni continue di nuovi avanzamenti, di nuovi pensieri. Felice, mi sembrava di aver contribuito nel mio piccolo a un pensiero collettivo degno di essere ascoltato. Felicità breve perché nel giro di qualche mese è arrivato qualcosa di incomprensibile che ha sconvolto le nostre vite e i nostri pensieri, la nostra immaginazione e la nostra vita quotidiana. Ha sconvolto tutti. Bambini, adolescenti, donne, uomini, ciascuno e ciascuna a modo suo, ma tutti insieme. Ha sconvolto anche noi vecchie signore e vecchi signori, perché ci ha fatto intravvedere la vicinanza palpabile della morte, non la sua immagine fantastizzata o immaginata, ma proprio la morte reale, spesso nelle circostanze più brutali, in estrema solitudine e nell’incomprensione generale (“pazienza se muoiono i  vecchi”).

Nel giro delle mie amiche, il mantra ricorrente è di aver fatto in pochi mesi un salto di un quinquennio: ieri avevo 70 anni, oggi ne ho settantacinque, ecc. E, per quanto riguarda me, una sorta di presa di distanza dalle mie riflessioni e anche dal mio libro come appartenesse a un’altra epoca. E una sorta di rifiuto a mettere ordine in annotazioni sparse che avevo scritto. Per la prima volta forse nella mia vita, mi veniva a mancare quel piacere di scrivere, che era il mio modo di capire quello che stava succedendo. Volevo attrezzarmi a vivere (o sopravvivere?), non a scrivere un altro libro. D’altra parte cosa si può dire quando dai giornali si viene a sapere che una vecchia donna ha passato tutto il periodo del Covid seduta su una sedia, nella sua casa, morta? Senza che nessuno se ne accorgesse… per due anni!

Poi, in settembre, Grey Panthers mi ha proposto di tradurre dall’inglese il Rapporto ONU sull’ageismo. Io, che per trent’anni ho letto i rapporti della Commissione europea sulla conciliazione tra vita e lavoro, che ho partecipato in prima persona e per cinque anni a un network europeo, io che guardavo con un misto di insofferenza e di fastidio gli scritti ufficiali, pieni di buone intenzioni e spesso lontani dalla realtà, ho accettato. E mi sono immersa per mesi nella lettura e nella traduzione perché potesse essere pubblicato a puntate su Grey Panthers, come un feuilleton. Forse per aggirare il rifiuto di una scrittura più personale…

Ma, lentamente, proprio il lavoro di traduzione, e le riflessioni che ha suscitato, mi ha spinto a pensare che dovevo accompagnarlo con lo sforzo di una parola più soggettiva, andare a capire di più  in quale modo potesse “parlare” anche a noi, vecchie signoreForse più che reiterare appelli perché le politiche pubbliche capiscano davvero il problema della vecchiaia, perché finora – anche nel PNRR – non viene davvero affrontato, è importante continuare a interrogarci, a riempire di testimonianze sulla nostra vita sconvolta, a prendere parola. A far vedere che cosa è cambiato.

Dicevo prima che ci siamo dovute confrontare con la morte possibile, vicina, ma ci siamo confrontate, nel passare del tempo, soprattutto con le malattie, favorite dalla clausura, dall’immobilità, dalla solitudine, dal processo di infragilimento. Prima, era un’evenienza possibile/probabile, ora è era diventata il nostro presente. Non solo mia – che pure sono stata pesantemente coinvolta con mesi di immobilità forzata e reclusione in casa – ma anche di un cerchio di amiche/conoscenti. Se prima la parola di circostanza era: “dove hai male?“ ora è “dove non hai male?“ E questo ci ha trascinato in un vortice di miserabilismo, di annichilimento perché il pensiero che si affacciava era che non ce l’avremmo mai fatta a risalire la china: troppi anni, troppe scarse energie, troppa depressione. Troppa prevaricazione del corpo, delle sue fragilità rispetto alla mente, alla psiche.

Ma proprio una indicazione mi è venuta dalla lettura del documento Onu, che ribadisce e universalizza in modo articolato e suffragato da dati e analisi le nostre precedenti riflessioni, elencando puntualmente tutti gli stereotipi sulla vecchiaia – delle istituzioni stesse, del sistema sanitario, della società – ma mette anche in risalto uno degli stereotipi possibili  tra i tanti che ci avvelenano, uno stereotipo a cui non avevo prestato sufficiente attenzione: l’ageismo rivolto contro se stessi. Una sorta di nostra appropriazione degli stereotipi vigenti, una sorta di nostalgia per come eravamo e di presa di distanza da come siamo.

Per contrastarlo, non si tratta di abbandonarsi a fantasie di onnipotenza, ma di accettare davvero, non solo a parole, che siamo in una fase della vita diversa, forse più difficile, fiaccate, come siamo, da due anni di pandemia e dall’orrore della guerra. E invece credo che sia persino più forte di prima l’urgenza di rivendicare una postura di assunzione della propria età, di disegnare a sé agli altri un modo proprio di fabbricare il rapporto con la vita. Perché la vecchiaia, come l’adolescenza, rappresenta una soglia critica, un momento di una soggettività entrata in crisi, ma che interroga se stessa, la capacità di “agire” il trauma, anziché limitarsi a subirlo, come scrive Francesco Stoppa. Un rilancio del sentimento della vita. Che può proporre anche una diversa visione di ciò che sta fuori, una diversa capacità di ascolto. Non solo di sé, anche degli altri. Un esercizio quotidiano sul contrastare il pensiero di abbandono e  aprirsi al dono della comprensione benevola.

Mi piacerebbe che la lettura del documento che vi abbiamo proposto suscitasse  il desiderio di approfondire le vostre sensazioni, di comunicarle, di condividerle. Anche in questo momento così buio in cui l’orrore della guerra, il pensiero di chi muore, di chi fugge, di chi sta asserragliato negli scantinati senza acqua,  senza cibo, al freddo sembra togliere rilevanza a qualsiasi nostro problema. Anche ora.

 

di Marina Piazza

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