Dobbiamo vivere in equilibrio tra potenza e impotenza, tra espansione e limite

Pubblicato il 17 Marzo 2017 in

A Marina Piazza (nella foto) sociologa ed esperta di Studi sulle differenze di genere, autrice, tra l’altro, del recentissimo “Incontrare la vecchiaia, guadagni e perdite “(Ledizioni 2016) spettano le riflessioni di più ampio respiro, sul processo di invecchiamento e sulla difficoltà a misurarsi con il cambiamento.

“Io parlo di vecchiaia, non di età anziana, o post-adulta o senior o diversamente giovane perché mi voglio contrapporre alla rimozione della stessa parola – vecchiaia – nel disperato tentativo di passare per giovani, di tenere a bada il terrore di ciò che potrebbe succedere. Come se il terrore di ciò che potrebbe succedere togliesse qualsiasi valore al tentativo di vivere bene l’ultima parte della vita.

Sono consapevole che nelle interviste della ricerca c’è un rigetto quasi totale di questa parola, ma permettetemi di usarla lo stesso.

Si tratta di passare da un’accezione della vecchiaia come negazione della vita, come declino inevitabile, nell’isolamento e nell’impotenza, in definitiva come “problema”, alla capacità di vedere che cosa possa significare attingere alla “fontana della  vecchiezza” come la chiama Betty Friedan [1] piuttosto che cercare di restare giovani, senza riuscirci. E continua Friedan,come l’oscurità viene talvolta definita come l’assenza della luce, così la vecchiaia è definita come assenza di giovinezza. La vecchiaia non è dunque valutata per quello che è, piuttosto per quello che non è”.

E anche Hillmann ribadisce il concetto quando sottolinea che il disprezzo per i vecchi dipende da una mentalità superficiale che sa cogliere i significati soltanto attraverso lo strumento della contrapposizione.

Sulla base della mia esperienza, personale  e collettiva, condivido questi pensieri, e desidero sottolinearli sulla base della mia esperienza, anche per confrontarmi su questa ricerca..

La mia esperienza si basa sull’aver scritto un libro sulla vecchiaia, partendo da me, nella convinzione che oggi stiamo vivendo un paradosso: nel momento in cu siamo consapevoli del fatto che facciamo parte di una  generazione per cui la vecchiaia è diventata fenomeno di massa, possiamo anche dire che non ci sono modelli cui riferirsi per l’invecchiare, ma, al contrario, che i modi con cui affrontare la vecchiaia sono tutti da reinventare e sono molteplici..

Per questo ho scritto un libro, partendo dalle mie sensazioni e dalle mie percezioni, nella convinzione che quello che importa è avvicinarsi alla “verità” del processo di invecchiamento, tentando di lasciar perdere come strumenti obsoleti sia gli stereotipi in negativo (vecchi poveri, fragili, consegnati al nulla sociale, ancorati al passato ….) sia gli stereotipi altrettanto falsi e frustranti dei “giovani” anziani, brillanti, curiosi, grandi consumatori …

Questo è stato il mio primo approccio. Poi però mi sono chiesta se non fosse possibile trovare dei fili di continuità  nella generazione di donne che stanno avvicinandosi alla vecchiaia e questa convinzione ha dato luogo a un corso durato due anni  con venti donne tra i 60 e i 78 anni alla Libera Università delle donne e quindi l’angolo visuale è stato quello di approfondire e confrontare il vissuto delle donne, dunque solo una parte dell’umanità che invecchia, naturalmente importante e significativa, anche dal punto di vista numerico, come ci dicono anche i dati di Carla Facchini in una città come Milano.

L’importanza di analizzare il periodo di avvicinamento alla vecchiaia

E’ abbastanza comune trattare la fase della vita della vecchiaia come se fosse un blocco unico, omogeneo, cancellandone le differenze. Differenze appunto tra giovane vecchiaia – dai 65 ai 75 –media vecchiaia dai 75 sgli 85, grande vecchiaia dopo gli 85.

E’ importante sottolinearlo perché questa prima fase è una fase particolare di transizione tra un assetto ancora legato a una – reale o immaginata- padronanza di sé e anche forza esperienziale e il delinearsi di una minaccia di caduta nell’impotenza –anche questa a volte reale, a volte immaginata. In questo intrecciarsi di sentimenti, la vecchiaia resta ancora un indistinto, di cui non si riesce a districare i contorni, percependolo spesso come un tabù rimandato dall’esterno. Una fase particolarmente contradditoria e inquieta, appunto “di passaggio”, inteso come riorganizzazione delle priorità e quindi anche come esperienza di instabilità e di conflitto. Una fase di transito per cui è necessario munirsi di “visti di transito”, farsi in un certo senso il consenso, la legittimazione al passaggio.

Non si è più giovani invecchiati, si esiste in modo nuovo. Si esiste nella misura in cui si accetta l’esilio dalle fasi precedenti della vita. Non per rassegnarsi all’immobilità e all’impotenza, ma per assumere una piena consapevolezza di sé, per cercare nuovi strumenti. Da questo punto di vista credo, come scrive Benasayag, che ci sia una grandissima cattiveria nell’intolleranza della propria vecchiaia e della propria fragilità. Perché se non posso tollerare la mia fragilità, non posso tollerare neppure la fragilità degli altri. Per questo ritengo molto importante soffermarsi proprio su questa fase della vita, vedendone con lucidità perdite e guadagni. Ed è proprio  questa generazione- che Anna Tempia chiama di cesura, posta su un crinale-  che può proiettarsi in avanti, cercando nuove soluzioni.

Farsi forza della stessa debolezza, passare dalla tentazione di travestirsi al coraggio di ammettere le proprie fragilità, scommettere sulla vita. Insomma capire come il cambiamento sociale complessivo possa dare adito a un ripensamento delle forme della vecchiaia, sottraendosi al divario tra “anziano attivo” e la non autosufficienza. In un certo senso un paradosso: andare fino in fondo alla consapevolezza del cambiamento, anche del proprio cambiamento, porta a sfuggire all’orizzonte limitato dell’io e far diventare il tema della vecchiaia un tema sociale e politico.

Mi sembra di poter essere d’accordo in linea di massima sull’ipotesi centrale del rapporto di ricerca, sul fatto, cioè, che in questa fase della vita le differenze tra donne e uomini si attenuano.

Per le donne di questa generazione – che ha vissuto il femminismo e la partecipazione in prima persona delle lotte per le conquiste sociali fondamentali e anche una grande e a volte arrabbiata distanza dagli uomini – sembrano mettersi in atto strategie di contenimento della distanza e di prudente avvicinamento, nella consapevolezza che proprio il guadagno di “essere in sé” permette la possibilità della relazione: una sorta di visione “laica” che consente di analizzare la realtà e di accettarla con i suoi punti oscuri e i suoi squarci luminosi. Accompagnata tuttavia da prudenza, perplessità e a volte anche da una certa ironia. Prudenza e ironia che si ritrovano molto nelle donne intervistate più che negli uomini.

Tuttavia, questa attenuazioni delle differenze credo sia dovuta anche alla composizione del campione, costituito in maggior parte da donne e uomini  dai 60 ai 70 anni, quindi ancora all’inzio della fase della vecchiaia, caratterizzati per la maggior parte, da una forte omogeneità culturale e lavorativa tra loro e anche con gli/ le intervistatori, con condizioni economiche garantite da una buona pensione, che vivono in coppia nella stragrande maggioranza. Questo mi sembra il dato forse più debole perché in questa fascia d’età è molto importante – e lo diventerà sempre di più –  dover affrontare una fase così delicata da soli/e. E in effetti il tema della solitudine – che è stato un tema molto presente tra le donne nel mio corso – qui appare molto poco.

 Questa omogeneità di esperienze non smorza tuttavia alcune differenze tra donne e uomini su alcuni punti fondamentali:

  • Il peso del lavoro di cura è molto più rimarcato dalle donne. Non c’è più la doppia presenza ad appesantirlo, i figli nella grande maggioranza sono adulti e se ne sono andati di casa e tuttavia quel che resta è ancora sulle spalle delle donne. Con due notazioni: che le donne lo rimarcano ma direi quasi con leggerezza, a volte con ironia e gli uomini, come sempre, se ne accorgono pochissimo
  • La maggiore ansia nelle donne per le condizioni generali di salute e l’accento sulla necessità di prendersi cura di sé in questa fase, passando dall’attenzione prioritaria agli altri all’attenzione a sé per allontanare la paura della perdita dell’autonomia, paura meno presente e meno dichiarata negli uomini, come se implicitamente pensassero che comunque qualcuno/qualcuna si occuperà di loro.
  • La maggiore difficoltà delle donne per quanto riguarda il reddito, le condizioni abitative, il rischio del venire meno di condizioni positive e di cadere nella povertà. Questo elemento non emerge chiaramente dalla ricerca in quanto le donne sole sono pochissime, ma invece era un fattore di ansia molto forte nel gruppo di donne che ha partecipato al corso ed è anche sottolineato dai dati più generali sull’invecchiamento.
  • Le modalità della sessualità. Benchè entrambi – donne e uomini – siano piuttosto vaghi sul tema, dichiarano comunque una caduta della libido e un attestarsi piuttosto su una sessualità di tipo tenero, più una relazione affettiva che di sesso. Ma le donne sono più chiare e “definitive”, gli uomini esprimono qualche nostalgia e qualche difficoltà ad accettare questo ripiegamento.
  • L’uso del tempo. E’ questa forse la differenza più forte rilevata dalla ricerca. Nel passaggio alla pensione, cioè ad un passaggio che affianca a una maggiore libertà il rischio di un disancoramento e di una perdita di forti punti di riferimento e di identità, sembra che gli uomini ritrovino più facilmente un ponte tra le attività svolte prima e quelle che continuano in altri modi o si reinventano ( che sia volontariato, bricolage, pittura, giardinaggio, orto …) mentre per le donne sembra verificarsi una maggiore difficoltà di costruirsi un “centro” di vita e di esperienza.  Se così si può dire, anziché esserci un centro ci sono diversi centrini, soprattutto per attività ludiche (Cinema, teatro, ginnastica, conferenze, viaggi). Resta la casa come centro, ma per così dire svuotato della sua impellenza e necessità (la casa grande, sprovvista della presenza dei figli). In compenso, queste attività sono sempre fatte con amiche, non in coppia e con le amiche le donne parlano anche  molto, parlano di tutto, parlano anche della loro difficoltà a costruirsi un tempo (sperimento sempre qualcosa in più per riempire la giornata. Ho paura del vuoto)e parlano anche di che cosa significhi ora e nel futuro la vecchiaia.

seniorIn un certo senso quindi, messe in conto le differenze in positivo e in negativo, appare una maggiore vulnerabilità delle donne, ma in compenso anche una maggiore capacità di introspezione.

E in un certo senso credo che sia questa la maggiore forza delle donne, nell’interrogarsi continuamente, facendosi forza anche della propria debolezza perché si tratta di fare un lavoro su di sé perché nulla è dato né garantito. E forse è importante far lavorare l’immaginazione per mettere a fuoco una rappresentazione di sé e accettarne anche gli spigoli e le alternanze. Un intreccio di consapevolezza e di abbandono, un’esperienza di coesistenza, dove si lasciano aperte anche le contraddizioni, perché non tutte le contraddizioni sono componibili.

 Rivalutare l’incertezza, tutto ciò che non è definito, né definitivo, né risolutorio, inventare ossimori, rivalutare l’ambivalenza, ambire a una capacità negativa, accettare cioè di rendersi vulnerabili agli eventi, facendo della propria vulnerabilità una leva d’azione; un agire orientato all’attivazione di contesti nuovi e alla generazione di mondi possibili. Un’apertura ariosa, se così si può definire, certamente non facile, non data naturalmente, definendo appunto un possibile – anche se incerto – equilibrio tra potenza e impotenza, tra espansione e limite.

E questo vivere nel presente, questa apertura ariosa si ritrova nelle interviste, questo mettere l’accento sui guadagni oltre che sulle perdite, sul senso di liberazione che si può percepire tra sé e le cose, il tempo ritrovato della lentezza, il senso di benessere che viene anche dalle piccole cose.

E in questa disponibilità e apertura al presente si può scoprire anche una nuova modalità di imparare: imparare ad aspettare, imparare la pazienza, adottare uno spazio mentale disposto ad accogliere l’incertezza e tutto ciò che è ignoto. Essere la prima generazione che pone  nuove sfide al sociale e alla politica.

[1] Betty Friedan, L’età da inventare, Frassinelli, Milano, 1994

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.