Una mattina in via Montenapoleone

Pubblicato il 28 Dicembre 2015 in

 

montenapoleoneUn racconto di Sergio Mattana – Eduardo Squillace – Donatella Tessi – Riccardo Zanzi

Ho attraversato via Montenapoleone e mi sono fermato al semaforo. È quasi primavera. Mi sono tolto la giacca rimanendo in maglione perché l’aria è tiepida. A un tratto mi sento sfiorare il torace e penso: forse un ladro attorno, ci ha provato. No. Non può essere. Non ho tasche e non porto borselli, mi dico. Il verde è apparso, ma mi sento pigro. Non voglio alzare la gamba. Una sensazione di piacevole abbandono. Un dolce deliquio. Il cuore pompa di più, il respiro accelera il suo ritmo. Le immagini diventano più soffuse con i margini meno netti, come se un impressionista avesse preso il controllo della mia vista.

Quanto mi è sempre piaciuto l’impressionismo con la pennellata di colori un po’ smorti. Anche i rumori del traffico, il vocio dei passanti passa in secondo piano. Che bello! Quanto dolce il momento mai sperimentato prima. Non so se faccio un tuffo o una caduta, mi trovo a terra, come se qualcuno mi avesse preso in braccio e disteso gentilmente sul suolo. Mi pare appena bagnato, non so dire il colore del liquido, sono apparsi toni bui nella mia visione. Sento ancora voci lontane sempre più distanti. Dicono: l’hanno accoltellato, sta morendo.

Simona è appena uscita dal negozio sull’altro lato della via già pentita del suo acquisto. Ha sempre odiato i tacchi alti. Lei è il tipo della ragazza sportiva, alta, slanciata, i lunghi capelli biondi raccolti in una treccia che le ricade sulle spalle, il viso pulito, solo un filo di trucco a sottolineare i grandi occhi verdi e quell’aria un po’ troppo decisa di chi vuole nascondere la propria vulnerabilità. Certo non passa inosservata nonostante i soliti jeans e il solito giacchino di pelle. Ora è arrabbiata con se stessa. Come diavolo ha fatto la commessa premurosa a convincerla a comprare quel paio di scarpe che costano un occhio della testa e che certo non porterà? Oppure mentre le provava lei ha pensato che a lui sarebbero piaciute? La consapevolezza di non aver fatto una scelta libera la fa sentire smarrita. Conosce bene quella sensazione di dipendenza e se ne vergogna. Già si figura la scena. Lui la costringerà a spogliarsi e a rimanere nuda su quegli orribili tacchi poi… Prova disgusto di se stessa. Basta. Lotterà e alla fine vincerà. Non tornerà mai più in quell’appartamento da cui esce sempre umiliata e sconfitta. È una promessa. Incrocia le dita con un gesto da bambina. E lui? Come reagirà all’abbandono? Con il solito tono divertito e vagamente sprezzante dell’uomo sicuro del suo potere? Non crederà una parola di quanto lei gli dirà. Si sente soffocare dall’odio. Fa quasi caldo e la via è affollata. È l’ora dell’aperitivo. In quel momento vorrebbe trovarsi nel solito bar vicino all’Università insieme ad altri studenti che come lei vi cercano rifugio e compagnia. Quello è davvero il suo mondo. Ma proprio in quel mondo lei ha nuovamente incontrato l’uomo nero della sua infanzia che si era portato via i suoi sogni in un nebbioso giorno d’inverno. Era successo tanti anni prima nel salotto di casa. Non può sopportarne il ricordo e non ne ha mai parlato con nessuno, nemmeno con suo marito. Lui era il Professore, un uomo carismatico e di successo. Lei soltanto un’insignificante bambina. Non aveva potuto resistergli quando lui, piacevolmente sorpreso al rivederla cresciuta, l’aveva invitata a una serata che poi si era rivelata a due. Da allora ci sono stati molti altri incontri, troppi, e la violenza di lui ogni volta più esigente e crudele. Non lo ama, non l’ha mai amato. E allora perché non è mai riuscita a staccarsene? Perché non riesce a innamorarsi davvero di nessun altro? Perché si chiude in una corazza di riservatezza ogni volta che qualcuno mostra di interessarsi a lei? È un legame sciagurato fra una vittima e il suo aguzzino, se ne rende conto, avverte la sua impotenza mentre gli occhi le si riempiono di lacrime. Il Professore la conosce bene. Sa che lei si è sposata con un vecchio amico d’infanzia, solo per sfuggirgli. Un colpo di testa di cui subito si è pentita. Fra lei e Paolo c’è solo amicizia, una certa complicità intellettuale, tutti e due amano l’arte e la musica, ma i loro rapporti sono rari e frettolosi e la fanno sentire ancora più sola e disperata. Paolo non la ama e non la desidera, per lui è solo un oggetto al pari dei soprammobili e dei quadri di cui riempie il suo appartamento.

Ora si avvia verso il semaforo e a un tratto vede il Professore dall’altra parte della strada. È solo. Sembra che aspetti qualcuno. Pensa ancora una volta che è irresistibilmente bello e suo malgrado si sente invadere da un’onda di desiderio. Per un attimo la folla le nasconde la sua figura alta e dinoccolata, ma che sta succedendo? In quel momento lo vede stramazzare al suolo e non alzarsi più. Una donna grida: «Chiamate un’ambulanza, chiamate la polizia, l’hanno accoltellato».

Simona rimane ferma, come impietrita. Qualcuno ha colpito il Professore e forse l’ha ucciso. Pensa che avrebbe dovuto farlo lei. Invece è stato un altro e lei ne è stata testimone. Le tremano le mani mentre spasmodicamente cerca il cellulare dentro la borsa, poi finalmente compone un numero.

Ieri Simona mi ha chiesto un passaggio. Aveva un appuntamento in Corso Vittorio Emanuele con un’amica. Insieme avrebbero fatto un po’ di shopping. Si sarebbe distratta e mi avrebbe lasciato in pace. Da qualche tempo i nostri rapporti si sono fatti tesi. Non sopporto più il suo sguardo che mi fruga l’anima e sembra continuamente chiedermi: perché?

mozartEravamo in Corso Venezia, all’altezza degli sportelli ACI. Mancavano pochi minuti alle 10. Dovevo trovare un parcheggio in via Mozart o nelle vie adiacenti. Al Circolo della Stampa alle 10.30, al convegno Politica ed economia oggi, in rappresentanza della banca dovevo svolgere una relazione. Il giorno prima avevo preparato il mio intervento che mentalmente stavo ripassando. In attesa del via libera per via Serbelloni, dopo aver trafficato nella borsa, Simona ha deciso improvvisamente di scendere dall’auto. L’ho salutata frettolosamente. La freccia verde del semaforo aereo si è accesa, ho svoltato a sinistra. Dal retrovisore l’ho vista fermarsi e fare segni strani. Stava attendendo il verde pedonale per attraversare il corso, forse aveva dimenticato qualcosa. Ho accostato e improvvisamente un doppio segnale sonoro ha animato il sedile del passeggero. Sovrappensiero, come per automatismo, ho preso in mano il cellulare e ho letto il messaggino: “Oggi ore 15?”. Proveniva da un numero di telefono che non conoscevo. Solo in quel momento mi sono reso conto che il cellulare non era il mio. Simona stava bussando al vetro, l’ho aperto e il cellulare è passato dalle mie mani alla sua borsa. Da quel momento il colore della mia giornata è cambiato, come se il grigio dell’inquinamento milanese fosse entrato in me. Per tutto il tempo del convegno ho continuato a rimuginare. Un presentimento come un tarlo mi lavorava dentro, non vedevo l’ora di andarmene, dovevo capire… scoprire se quel messaggio simile…no, uguale a quelli che ricevevo da lui, aveva lo stesso significato anche per lei. Il convegno è terminato poco dopo l’una. Ho detto che non mi sentivo bene e non mi sono fermato per il buffet. Ho telefonato in ufficio alla segretaria, non sarei stato reperibile fino all’indomani. Una forte emicrania, sentivo la necessità di sdraiarmi e di riposare. Tutti gli appuntamenti del pomeriggio andavano disdetti. Dovevo rimanere solo, mancavano quasi due ore.

Salito in macchina, ho preso la direzione della circolare interna, via Senato, Via Pontaccio, Foro Bonaparte, Piazza Cairoli, via Carducci, via De Amicis. All’altezza di Corso Genova mi sono ricordato del Bolognese, un discreto ristorante che frequentavo con Simona ai tempi dell’università. Ho svoltato sulla destra e poi subito a sinistra in via Torti, erano quasi le due, ho trovato parcheggio e mi sono fermato. Il locale era semi vuoto. Non avevo fame, ho ordinato qualcosa per ammazzare il tempo.

Alle tre meno venti uscito dal locale, sono risalito in macchina e dopo aver percorso le vie di quella che un tempo era definita la casbah milanese, in via Arena, ho parcheggiato a fianco dei giardinetti a distanza sufficiente per osservare il cancello d’ingresso della casa, settanta metri più avanti in direzione della Darsena a sinistra del vecchio ospedale Ronzoni in disuso. La sua Mercedes era nel parcheggio di via Panzeri. Mancavano sette minuti alle tre. Minuti lunghissimi. Alle tre un taxi si è fermato davanti all’ingresso della casa. Simona, pagato il tassista, scende e suona a quel citofono, la serratura del cancello scatta. Il mondo mi sta crollando addosso. La grigia giornata diventa la più nera della mia vita.

Idiota, idiota, cento volte idiota. Come ho potuto credere a tutte le storie che mi ha raccontato? Ho solo voluto credergli, sono caduto nel suo gioco come una vittima che s’innamora del suo carnefice. Il ragno tesse la tela e la stupida mosca ci casca!

Tutto a suo tempo… mia cara Simona, dormi serena, è presto per scoprire il tuo doppio gioco, quando fingevi antipatia per lui e per le serate organizzate dal club del poker in case esclusive e con amici selezionati come il Presidente della Fondazione, che me l’aveva presentato.

Fin dal nostro primo incontro mi sono reso conto che la sua figura sembrava emanare campi di forze contrastanti, lo sguardo magnetico e duro, il gesto carezzevole e studiato come quello di un felino pronto a scattare. Mi attraeva irresistibilmente, mi costringeva a manifestare la mia vera natura che sempre ho tenuto nascosta anche a Simona. Lo desideravo con tutte le mie forze. Avevo letto da qualche parte che da giovane, Marlon Brando entrando in una festa, con la sola presenza, riusciva a zittire i partecipanti. Lui sembrava possedere la stessa magia e se ne rendeva conto!

Mi aveva blandito con grazia e poi, diventati intimi in quell’appartamento che fingeva di tenere a mia disposizione, mi diceva di essere felice solo in mia compagnia! Mi circuiva conoscendo ogni mia debolezza ed io non sapevo resistergli. Fin dall’inizio ho voluto credergli, non ho mai guardato in faccia la realtà! Diceva di aver scelto anche lui, come me, una comoda copertura per il suo ambiente, facendosi passare per un vero macho.

Tutti all’Università sapevano della sua storia con la professoressa Cugini che, consenziente, aveva fatto passare per una sua amante. E poi le innumerevoli vicende con studentesse e colleghe. Tutte balle, stronzate mai avvenute, diceva! E io, cretino, innamorato perso, mi bevevo tutto senza cercare riscontri, prove del suo amore che era, questo sì, solo una beffarda mistificazione!

Pensavo di averlo conquistato, che sentisse almeno un po’ di riconoscenza per tutti i rischi che ero costretto a correre, per le soluzioni che gli proponevo per risolvere i suoi innumerevoli problemi finanziari e di gioco. Gli avevo offerto tutto me stesso, la mia fedeltà e anche il mio denaro per evitargli di finire in mano agli strozzini. Sì, ora ho capito, mi considerava solo il suo cane di paglia, senza personalità, che non sa reagire e accetta tutto, anche una pedata… la coda tra le gambe e a cuccia!

Dormi Simona, riposati dopo che hai soddisfatto il tuo corpo, quel frocio che hai sposato vi regalerà la visibilità che meritate!

 

L’ambulanza è appena partita a sirene spiegate quando il commissario Walter Zané, rivolto ai suoi uomini, comincia a impartire nervosamente i comandi:

– Tenete lontana quella gente, per favore. Sbrigatevi a fare le foto e gli altri rilievi. E voi non state lì impalati. Cercate di individuare i possibili testimoni presenti sul posto.

Dal gruppo di curiosi si stacca un viso conosciuto che gli viene incontro.

– Buongiorno, commissario.

– Buongiorno a lei, – risponde al saluto il commissario masticando il suo mezzo toscano spento. – Naturalmente il grande giornalista Vittorio Alberti non può mai mancare in simili circostanze. Però, mi devo complimentare: ha fatto davvero in fretta ad arrivare sul luogo del delitto.

– Come ben sa la nostra redazione è qui a due passi. Ma mi dica: quali sono le condizioni del professor Carboni?

– Pare sia conciato davvero male. Lo hanno portato all’ospedale più vicino, al Fatebenefratelli, ma il medico che l’ha soccorso non mi è sembrato molto ottimista.

– È stata una coltellata. Me lo può confermare?

– Sì, una coltellata.

– Una o più coltellate?

– Ma, Alberti, non mi rompa i coglioni. Le indagini sono appena iniziate. Cosa vuol sapere?

– Ci sono testimoni oculari?

– Probabilmente sì, anche tra quella gente che sta lì a guardare. Dobbiamo però fare le identificazioni.

– Posso fare anch’io alcune domande a quelle persone? Magari può venir fuori qualche dettaglio a caldo che potrebbe essere interessante anche per le sue indagini.

Il commissario guarda il cronista con aria di malcelata sopportazione.

– Va bene. Faccia pure. Ma mi raccomando non intralci il lavoro dei miei uomini. E quando scriverà il pezzo per il giornale cerchi di essere il più obiettivo possibile, senza tanti voli pindarici come è suo solito.

– Come al solito, commissario. Senza tanti voli pindarici. Ma domani su tutti i giornali la notizia del ferimento del professor Fabio Carboni sarà in prima pagina. Il professore è un personaggio molto conosciuto e anche molto chiacchierato. A proposito, cosa pensa commissario? Si tratta di un’azione terroristica, un delitto passionale, un atto delinquenziale magari a scopo di rapina?

– Le ho detto che le indagini sono appena iniziate. Ma mi sento di escludere lo scopo di rapina perché il professore aveva con sé il portafoglio, una catenina d’oro e persino un Rolex che non poteva sfuggire all’attenzione di un ladro. Per il resto, tutte le ipotesi rimangono aperte. Ma mi chiarisca un particolare. A cosa si riferiva quando ha detto che il professore era “molto chiacchierato”?

Il giornalista per un attimo resta in silenzio, quasi stia scegliendo le parole, poi con un ghigno da vecchio satiro sbotta:

– Commissario, forse lei è uno dei pochi che a Milano non conosca il professor Fabio Carboni, esimio professore di filosofia della scienza, studioso e cattedratico universitario apprezzato in tutto il mondo, ma anche un vero porco con i suoi studenti e soprattutto studentesse. Di lui si dice che alla Statale abbia non una cattedra, ma un vero e proprio harem. Qualcuno sostiene che frequenti anche ambienti poco raccomandabili e che coltivi la passione per il poker e un po’ tutti i giochi d’azzardo.

– Si dice, si dice. Ma lei ha le prove di tutto questo?

– Commissario, le prove le deve trovare lei. È il suo mestiere. Io sono soltanto un giornalista.

Il commissario gli volta le spalle aggiungendo soltanto:

– A non vederci presto, Alberti. Mi raccomando, non faccia troppi danni. – Poi rivolgendosi a uno dei suoi uomini: – Caruso, diamoci una mossa, che qui tra poco saremo invasi dai giornalisti e dalle televisioni. Hai preso le generalità dei testimoni?

– Certamente, signor commissario. I testimoni oculari che si sono trattenuti comunque sono pochi. C’è quella coppia di signori anziani e quella ragazza seduta sul marciapiede.

– Chi? Quella Maria Maddalena in pianto?

– È ancora sotto choc. Sembra che conosca bene il professore e che sia una sua allieva.

– Bene, bene. Non lasciartela sfuggire. E ricordati di fare richiesta delle registrazioni di tutte le video-camere della zona.

 

Dove sono? Cosa mi è successo? La sensazione è quella di un dolce languore. Tutto mi scivola intorno, non riesco a parlare. Questa donna in tuta arancione ha uno stetoscopio al collo. Deve essere una dottoressa, la vedo distintamente ma a tratti. Tra un bagliore e l’altro. La guardo con l’occhio sapiente di chi ben conosce le donne e i loro punti deboli. Si sente ammirata, diventerà più efficiente.

Credo mi stia soccorrendo. Mi misura la pressione, mi schiaccia sul viso una maschera d’ossigeno, dà ordini concitati al suo assistente. Sento una sirena. Il suo suono mi sembra modulato così come la mia percezione visiva. Buio e luce. Mi pare di attraversare un tunnel scuro ma riesco a intravedere nel fondo una grande luminosità. Ho sempre letto che queste sono le sensazioni che si hanno in punto di morte. Ma chi sta morendo? Non ci credo, potrei essere io. Anche le immagini che mi ritornano alla memoria sono reali o virtuali? Che ci faceva Simona sull’altro marciapiede? Avrà visto Paolo che mi veniva incontro con lo sguardo allucinato, pieno di animosità? Che strano! Mi sembra che ci fossero anche i miei genitori e che avessero le ali.

Simona, già Simona, quella troietta. Mi vuole lasciare, ma tornerà, o se tornerà! Proprio ieri l’ho costretta a inginocchiarsi a suon di schiaffi. Lei ha tentato di ribellarsi e si è persino messa a piangere. Non ho mai potuto sopportare le lacrime delle donne. Lei però era bellissima e indifesa nelle mie mani, avvolta solo nei suoi capelli, per questo prima di prenderla l’ho dovuta colpire ancora più forte.

Non ho mai interpretato il modesto. No, mi è naturale apparire quel che sento di essere, un diverso, ma un palmo sopra gli altri. Fin da piccolo, in famiglia e con i compagni di scuola, mi comportavo da leader. Già allora mi sentivo un attore nato. Quante volte, nella mia vita, ho interpretato il ruolo più adatto al momento. Io sono nato per dominare gli altri, per manipolarli, adattarli alle mie esigenze, come con Simona. Come tutti gli uomini d’intelligenza superiore io non credo in niente se non nella mia convenienza e nel mio piacere. Chi è quel bambino che mi viene incontro? Mi rivedo all’oratorio. Un monsignore mi aveva in simpatia, lo lasciavo fare. Sapevo che era lui il succube, io il dominatore. Poi c’erano le bambine con le calzettine bianche e le gonnelline svolazzanti. Sentivo nei giochi proibiti la mia vera natura, erano loro a cercarmi. Dicevo che erano le mie schiave e lo erano per davvero. Anche Simona è una mia creatura, io l’ho plasmata per esserlo. Non te ne andrai mai, Simona. Saprò ben punirti la prossima volta che mi resisterai. Nella mia successiva educazione e poi carriera, ho sfruttato con successo le mie doti. Senza vincoli dell’etica o della correttezza, ma con la mia abilità politica di apparire onesto, giusto, amichevole. Se disprezzavo profondamente un rivale o un superiore, non lo manifestavo mai. Agivo in modo che emergessero le loro colpe o difetti. Nonostante tutto, ho sempre ottenuto la stima degli altri, anche di quelli che ho messo in ombra o che ho addirittura distrutto.

Sono e resto un vincente. Non ho mai sopportato le sconfitte. Nel poker ad esempio, la mia profonda capacità di leggere nella mente altrui mi ha dato le dritte più importanti per guadagnar quattrini. La filosofia teoretica è sempre stata il mio campo di affermazione e insegnamento ufficiale. Mi sono conquistato una baronia. Ma solo io so quanto la conoscenza e la pratica della psicologia mi permette di non aver di fronte a me interlocutori specchi ma vetri trasparenti. Vedo le rotelle del loro cervello che si muovono e i pensieri che sviluppano come un film a me più palese che a loro, che ne sono i registi o gli interpreti.

Di nuovo buio e poi ancora luce. E ancora rapidi flash, fra volti senza nome ecco quello della Cugini. Ottenerne la cattedra fu il mio vero capolavoro. Non posso fare a meno di sentirmi pieno di ammirazione per me stesso. Innamorai e sedussi senza difficoltà la famosa Professoressa e ne divenni assistente. Conoscevo il suo carattere passionale e orgoglioso. Dopo poco capii che potevo farne quel che volevo.

Chiesi un anno sabbatico e partii per l’Inghilterra diretto al Trinity College di Cambridge. Cominciai a trascurarla nella corrispondenza ma riuscii a farle filtrare notizie di mie nuove relazioni con studentesse e professoresse. La Cugini, presa da un accesso di gelosia, lasciò in aspettativa il suo posto e corse da me. La cucinai a fuoco lento, feci alzare al calor bianco la passione della poveretta, poi mi feci sorprendere apposta da lei con un’altra. Per lei fu il tracollo. Non ebbe il coraggio di rientrare alla Statale di Milano, dove tutti sapevano. Temevo potesse fare un gesto tragico. Mi avrebbe infastidito. Io presi il suo posto.

E Paolo? Dove è finito il suo sguardo buono da cane bastonato? Non ha capito niente. È solo un debole, uno senza palle, uno cui basta un po’ di sesso consumato in fretta sul divano di casa mia. Io su di lui avevo un preciso progetto.

La mia posizione di cattedratico mi ha dato risorse interessanti, inadeguate però a quanto ho sempre ritenuto mi sia dovuto. Senza tante fatiche, con la mia sola presenza o con delle perizie che non mi costano sforzo, ho ampliato i miei introiti. E anche sfruttando in maniera indolore per loro i miei collaboratori, mi sono creato dei gregari pronti a versarmi parte dei loro guadagni. Un dovere, non certo un mio sopruso.

Mi piace il gioco, quello d’azzardo. Ed in questo campo devi avere il coraggio di rischiare, di sopportare periodi di perdita aspettando la rivincita che non mi è mai mancata.

Un grosso dirigente bancario come Paolo è quello che ti occorre. Fidi e prestiti è riuscito a concedermi. Solo l’essere asservito a me gli ha dato il coraggio di infrangere ogni regola del buon direttore di banca. Non ho mai chiesto nulla. Lo rendevo partecipe di miei problemi finanziari. Era lui allora a propormi soluzioni ardite, pregandomi di accettarle. Un ingenuo Paolo, un povero sentimentale, lo disprezzo per questo. Non ha mai saputo di essere stato un pesciolino caduto nella mia rete, crede di avermi sedotto. Prima di conoscerlo sapevo già tutto di lui. La sua omosessualità era servita a farlo crescere nella Banca dove lavorava. Il suo presidente aveva gli stessi suoi gusti. Si frequentavano, ma l’altro gli aveva imposto di costruirsi una facciata irreprensibile a fugare sospetti. La soluzione era una moglie. Sapevo delle voci che giravano quando io e Paolo iniziammo a frequentarci fino a stabilire una relazione.

Fu una sorpresa ritrovarlo marito di Simona. Anni prima avevo fatto di lei bambina un oggetto di trasgressione. Mi era piaciuto svegliarla al sesso e quando l’avevo rivista all’Università, era ormai una splendida femmina sensualissima dietro quell’aria acqua e sapone. Fu di nuovo mia ogni volta che volevo e come la volevo.

Perché mi guardi e piangi Simona? La verità è che non posso fare a meno di te, del tuo corpo pieno e snello su cui infierisco, perché qualcosa di te sempre sfugge al mio possesso e spesso nei tuoi begli occhi avverto il guizzo della ribellione. Ma io ho in pugno la tua vita e quella di tuo marito di cui ignori tutto. Questo mi dà una sensazione di onnipotenza e di gran divertimento. L’ho sempre avuta, ma ogni giorno il divario tra l’io apparente e quello nascosto, con l’inganno che riesco a propinare agli altri, mi riempie di gratificazione!

Mi pare di essere il protagonista di un film. La visione è chiara, nettamente ne vedo i particolari, come in un ralenti, ma la quantità di contenuti mi dice che al contrario la pellicola è realizzata in un ritmo accelerato, come una farsa di Ridolini. Non capisco come faccia la sua sequenza a essere costante, mentre il mio stato di coscienza procede a sbalzi, fra appisolamenti e lucida veglia. Sono proprio io quello sulla barella, Fabio Carboni, il Professore. Ho insegnato filosofia. Sono ormai ateo convinto. Dopo non mi aspettano le Urì, né un celestiale paradiso. O un più probabile caldissimo inferno. Persino le filosofie orientali, più credibili della dottrina cristiana, con la loro metempsicosi, non mi hanno mai convinto. Se fossero vere non vorrei diventare una salamandra, preferisco uno scattante cavallo bianco. Ho insegnato anche filosofia della scienza. So che questo film che sto vedendo non è una qualche anticipazione di nulla, né un distacco programmato dall’esistenza terrena. Lo vedo più pragmaticamente come un automatismo del cervello, della sua memoria. L’automatico aprirsi di un file, molto complesso e zippato. Il file ha un nome: Vita. Si è aperto senza chiedere neppure la password. E ora…

La dottoressa ansimante posa i contatti del defibrillatore, dopo un ennesimo tentativo.

– Stacca l’apparecchio – dice rivolta all’assistente – La giornata è cominciata male.

Poi, professionale, accende il registratore e detta:

– Il decesso è avvenuto in Milano ore… del…

Stanca, afferra la pezzuola verde che le viene offerta e si massaggia lievemente le palpebre chiuse, asciugando il sudore dalla fronte e dalle guance. Sente l’assistente dire all’autista:

– Valerio rallenta pure, è inutile ormai.

 

Il commissario ha quasi concluso l’interrogatorio della testimone e continua, quasi meccanicamente, a girare e rigirare un foglietto spiegazzato tra le mani guardandosi la punta delle scarpe. Quel foglietto, scritto con il computer e senza firma, è arrivato dentro una busta e il timbro postale indica la spedizione da una cassetta per lettere della zona centro di Milano. Lo ha letto decine di volte ed ormai il contenuto lo conosce a memoria:

«Caro Commissario… di Dulcinea del Toboso si dice che ebbe la mano più abile di tutte le donne della Mancia para salar puercos… E allora… l’interesse, il timore, il rancore e la simpatia non devono deviarTi dal cammino del vero, di cui è madre la storia, emula del tempo, custode delle imprese, testimone del passato, ejemplo y avviso de lo presente, advertencia de lo por venir. Cerchi la Dulcinea della nostra storia e, sono certo, Lei troverà tutto quanto può desiderare.»

Quel messaggio anonimo il commissario lo percepisce come una sfida, un enigma che lo costringe a sviare dal suo solito metodo di lavoro e gli alimenta l’insopportabilità del dubbio. Dentro di sé pensa: «Chi può aver scritto il biglietto? Di certo è uno che conosce lo spagnolo e si diverte a ricopiare il Don Chisciotte del Cervantes facendo esplicito riferimento ad una moderna Dulcinea che sa come “salare i porci”. Chissà se ne sa qualcosa quel furbone del nostro cronista che ben conosceva il professore. Ma chi è la Dulcinea della nostra storia? È questa donna che ho davanti? Di sicuro qualcuno ha voluto mettere in mezzo questa ragazza sapendo, per altro, che oggi avrei dovuto chiamarla a testimoniare. A quale scopo? La ragazza ha ammesso di aver avuto una relazione con il professore. Ma ha anche chiarito di che tipo di relazione si trattasse e sostiene che il rapporto si è interrotto ormai da tempo. Però, chi altri potrebbe essere il porco se non il professore? Da quanto è emerso nell’interrogatorio, la ragazza avrebbe potuto avere ben più di un motivo per uccidere il professore ovvero para salar el puerco. Ma ad ucciderlo non può essere stata lei. Era dall’altra parte della strada.

Ha forse commissionato ad altri il delitto? Eppure con quella faccia così morbida e quelle mani così nervose e indecise non mi sembra proprio la persona che commissiona ad altri un delitto. Anzi credo che non sarebbe capace di uccidere neanche una mosca. È difficile che mi sbagli. Non è mai successo. E poi perché il cronista mi ha mandato questo biglietto? Che cosa può voler dire “il cammino del vero … madre della storia … esempio e avvertimento per il presente, ammonizione per il futuro”? Si tratta forse di minacce o semplici intimidazioni? Solo un codardo usa le lettere anonime. Il cronista è un farabutto e un codardo che vuole soltanto creare dei sospetti per deviare le indagini e nascondere qualcosa di molto più grave. Ma cosa? Lo devo mettere con le spalle al muro e fargli sputare quel rospo che si tiene in corpo».

Il commissario rivolge lo sguardo verso la ragazza e con un sorriso le chiede:

– Un’ultima domanda. Ha mai letto il Don Chisciotte di Cervantes?

– Veramente, – risponde con imbarazzo la ragazza – non ricordo di averlo mai letto. Perché?

– No, niente. Soltanto così, per curiosità.

– Allora abbiamo finito? Posso andare?

– Certamente. Ma le ricordo che deve rimanere a disposizione per la prosecuzione delle indagini.

– Buona sera, commissario.

Simona Danieli esce dalla stanza, ha le spalle curve, le tremano le gambe, ha fretta di correre a casa. Il commissario rimane solo a rigirare stancamente quel foglietto.

Fuori dal commissariato, Simona si stringe la testa fra le mani. Che ne sarà di lei? Dove andrà? Perché una cosa è certa, lei lascerà Paolo e fuggirà lontano. Il suo matrimonio è in pezzi e lei ha paura di suo marito, delle sue reazioni. Lui è lì ora che l’aspetta.

– Che cosa hai detto? – la incalza Paolo – Hai parlato di noi, di me?

Lei non risponde, nemmeno quando prende a strattonarla. Dentro di lei qualcosa si è rotto.

– Troia, sei una troia! Te la facevi con lui, come una cagna in calore… mentre io… tu non sai nulla né di me, né del professore. Tu non sai cosa vuol dire soffrire per amore. Tu mai saresti stata capace di dargli il vero affetto, io lo amavo, lo amavo… Vattene, Simona! Sparisci alla mia vita!

Simona ancora tace. Ora sa di aver visto giusto.

 

L’ascensore si blocca di colpo al sesto piano e il commissario Walter Zané si trova sul pianerottolo, davanti alla targhetta su cui è scritto: Dott. Danieli.

Il commissario schiaccia il pulsante del campanello e rimane in attesa. Dopo qualche istante il doppio scatto della serratura anticipa l’apertura della porta su cui si staglia la figura di Simona, la bellissima moglie del bancario. I grandi occhi verdi si fanno tristi, un fremito di paura le scuote le spalle.

– Buonasera, signora Danieli. Mi scusi per questa visita non annunciata e per l’orario inconsueto. Ma avrei bisogno di parlare con suo marito con una certa urgenza.

Simona, ferma sulla porta, continua a fissare il commissario con aria sorpresa, senza riuscire a spiccicare neanche una sillaba.

– È in casa il dottor Danieli?

– Mio marito non è ancora rientrato, ma lo aspetto per cena. Dovrebbe essere qui a momenti. Se vuole, lo può aspettare qui in casa.

– Lei è davvero gentile. Non vorrei abusare della sua cortesia.

Il commissario intanto ha già fatto i primi passi verso l’ingresso dell’appartamento.

– Prego, entri. – Simona lo invita facendosi da parte senza, però, controllare il suo imbarazzo – Non faccia caso al disordine. Stavo preparando qualcosa in cucina.

– Mi scusi ancora signora.

– Venga. La faccio accomodare nello studio di mio marito – dice Simona e dopo un attimo di esitazione aggiunge – Così sarà più comodo. Faccio strada.

Nella casa si respira un’atmosfera di tranquilla agiatezza, l’avverte subito il commissario. Una casa di persone perbene o che magari nascondono inconfessabili segreti.

Appena entra nella stanza, il poliziotto nota subito l’enorme libreria che occupa tutta la parete, lunga sei o sette metri, alta da terra sino al soffitto. Piena, fitta, di volumi, disposti anche in seconda fila.

– Quanti saranno? – si chiede il commissario – Forse più di qualche migliaio – è la sua risposta.

Gli scaffali sono ordinati per tipo e per soggetto. Sul primo ci sono i dizionari e le enciclopedie: fanno bella mostra di sé l’intera raccolta della Treccani, edizione anni Venti, quella storica della British, la Larousse Illustré ed altre che debbono risalire alla fine dell’Ottocento e inizio Novecento. Poi c’è lo scaffale dei libri d’arte con i nomi dei pittori e scultori, i più famosi e meno famosi. Ecco i volumi di saggistica, di storia, di economia, di scienze sociali, filosofia, psicologia, ecc… Infine, gli scaffali di narrativa, poesia e teatro. Al fondo della stanza, nelle immediate vicinanze della finestra, c’è un tavolo di legno massiccio su cui sono sparpagliati, in modo alquanto disordinato, un macbook dell’Apple, un paio di cellulari, diversi giornali mischiati a riviste e quaderni di appunti, qualche penna e matita e, infine, tre libri impilati l’uno sull’altro. Il commissario riesce a leggerne i titoli: Conversazione nella Cattedrale di Mario Vargas Llosa, Finzioni di Jorge Luis Borges e Les mains sales di Jean Paul Sartre, quest’ultimo in lingua originale edizione Livre de poche.

L’attenzione del commissario che ha il gusto del dettaglio si sposta su un divano a due posti, forse con un letto estraibile, e su un mobile basso con vetri scorrevoli dove è contenuto un piccolo angolo bar, con relativi bicchieri e bottiglie, una raccolta di qualche centinaio di dischi in vinile e lo spazio per il piatto di un vecchio giradischi che sembra ancora funzionante. Sulla stessa parete, sopra questo mobile, troneggia un grande quadro di Mario Schifano e ai lati fanno bella mostra di sé un dipinto di Mario Sironi, uno di De Chirico, un ritratto patafisico di Enrico Baj e una donna bottiglia di Massimo Campigli. Un vero tesoro, roba pregiata da collezionista di classe. Ma il quadro più bello è quello che si vede dalla finestra socchiusa.

Le prime ombre della sera si stanno allungando e avvolgono pian piano gli alberi del sottostante giardino di via Palestro fino a coprire i tetti delle case di via Marina. In fondo, la Madonnina del Duomo e il profilo della Torre Velasca sono appena illuminati dalla luce radente del tramonto. «In questi momenti Milano rivela la sua bellezza segreta» pensa il commissario, che nonostante il suo mestiere non nasconde la sua anima poetica. «So bene di non potermelo permettere, ma questo è lo studio che avrei voluto sempre avere. Un ossimoro nei fatti: il mio studio impossibile, nella finzione della realtà, come in un gioco di bambini». Poi si rivolge alla bella Simona e rompendo il silenzio dice:

– Sono quadri di grande valore. Starebbero benissimo in qualsiasi pinacoteca.

– In effetti, sono la pinacoteca privata di mio marito. Il collezionismo è la sua vera passione – risponde Simona e le trema un po’ la voce.

Quindi rivolgendo l’attenzione verso la libreria, il commissario continua:

– Ma è anche un bibliofilo, vedo. Qui ci sono dei volumi veramente preziosi. Complimenti! Qui c’è un’edizione del Don Chisciotte del Cervantes molto vecchia e probabilmente molto rara. Posso vederla?

– Certo. Faccia pure.

– Si ricorda? L’ultima volta che ci siamo visti le ho chiesto se aveva mai letto il Don Chisciotte e lei mi rispose “no”.

– Di certo non ho mai letto tutti i libri di mio marito e le confermo quanto le dissi la volta scorsa a proposito di questo libro – risponde seccata Simona.

Il commissario Zanè prende in mano il volume e comincia a sfogliarlo sin dalle prime pagine. Sul frontespizio si legge chiaramente la dedica: “Al mio caro Don Chisciotte, con tutto l’affetto che solo lui conosce, Fabio” e alla pag. 79 (Parte Prima, cap. IX) c’è un piccolo foglietto come segnalibro. In quella pagina è scritto: “Esta Dulcinea de Toboso, tantas veces en este historia referida, dicen que tuvo la mejor mano para salar puercos, que otra mujer de toda la Mancia”.

Ha ancora il libro aperto tra le mani quando si accorge di una nuova presenza alle sue spalle. È Paolo Danieli; il suo viso è terreo mentre fissa il commissario.

– Cosa sta facendo qui? – chiede Danieli con un filo di voce. E senza aspettare la risposta aggiunge: – Commissario si rende conto che sta commettendo il reato di abuso di potere? Chiamo subito il mio avvocato.

Il commissario sorride con ironia mentre gli risponde:

– Chiami pure chi meglio crede. Se vuole, invece, io chiamo il procuratore capo.

– Veramente sono stata io che l’ho fatto entrare – si intromette Simona nel tentativo di smorzare la tensione.

– Zitta, tu. Taci – le ordina il marito quasi gridando e poi rivolto al commissario continua – Lei non si può permettere di entrare in casa mia in questo modo.

– Ma ormai sono qui, dottor Danieli. E forse è meglio che lei si calmi e ci racconti tutto, cominciando da principio, mio caro Don Chisciotte.

 

– Basta, basta… commissario, – Paolo alza il tono della voce – Basta con le stesse domande, alle quali ho risposto mille volte! Si ricordi quello che le dico: in un mondo di traditori e di pezzi di merda a me non interessa vivere, so di non avere posto. Ma lei invece ci vive bene, è il suo ambiente, ha un suo ruolo. Le serve una verità, qualsiasi verità, un qualcosa… per la gloria, che le permetta di fare carriera, il suo mostro da sbattere in prima pagina. Il posto c’è per lei, stia tranquillo. Crede di conoscere i meandri della psiche e dei sentimenti umani…è solo un piccolo funzionario inquisitore con piccole ambizioni! È sposato, ha due figli, un mutuo trentennale, vuole la testa dell’assassino, e quando raggiungerà l’età della pensione, giocando a tressette o accompagnando i nipoti ai giardinetti, romperà per l’ennesima volta il cazzo ai suoi ex colleghi con questa storia. Ma poi arriverà la fine dei giochi, come per il Professore, come per Simona e…anche per lei.

Il commissario si accorge che Paolo sta cedendo e con voce calma ma decisa lo interrompe:

– Dottor Danieli, per favore, la smetta. Forse non si rende conto della sua posizione e delle prove a suo carico. È meglio per lei se ci dice com’è andata.

– So bene che i giochi, per me… finiscono qua. È la verità che vuole? C’è arrivato da solo, ma la vuole sentire da me. L’accontento, non me ne frega più niente!

Il commissario attiva un piccolo registratore. Prova pena per quell’uomo che indovina distrutto da molto tempo. Chissà se finalmente riuscirà a capire il movente che ha spinto una persona perbene ad accoltellare un amico e a cercare di fare accusare sua moglie, quella povera Simona che ora fissa il marito quasi con sollievo, quasi stesse per liberarsi da un terribile incubo.

– Avanti. Mi dica tutto – dice con tono incoraggiante.

Ora Paolo comincia a raccontare e sembra un fiume in piena. Le parole gli escono affannose ma precise nei dettagli.

– Quella mattina alle 11, dall’ufficio del mio servizio fidi in via Bigli, ho telefonato a Simona che sapevo in Galleria con la solita amica. Le ho chiesto di incontrarci a mezzogiorno, davanti al negozio di Rolex, in Montenapoleone. «Ho una sorpresa per te,» le ho detto «ma cerca di essere puntuale, per favore. Alle 11,30 ho un appuntamento con il Professore per una questione delicata». Simona, forse allettata dal luogo dell’appuntamento, mi ha confermato che ci sarebbe stata. E ha aggiunto: «Salutami il Professore». Avevo studiato nei minimi dettagli tutta l’azione e avevo calcolato i tempi necessari. Verso le 11,10 ho telefonato al professore e gli ho chiesto dove si trovava. Stava attraversando i giardini in via Palestro e in pochi minuti sarebbe arrivato in piazza Cavour. Gli ho chiesto di rallentare il passo perché stavo ultimando una pratica e dovevo spedire una mail. Lui mi ha risposto che avrebbe percorso tutta la Borgospesso, la via meno affollata del centro, che per questo gli piaceva. Sarebbe arrivato puntuale. Alle 11.18, indossato il giaccone doubleface, dal lato chiaro, ho attraversato con passo tranquillo, sotto l’occhio attento delle telecamere, il cortile e il monumentale ingresso del palazzo della banca. Subito a destra, dopo pochi metri, c’è un anonimo portoncino chiuso, che non è mai stato considerato nei piani di sicurezza. Dà accesso a un piccolo locale che si apre dall’interno con il maniglione antipanico ed è utilizzato dalle donne delle pulizie la sera dopo le 18, per spostare all’esterno i sacchi che vengono ritirati dall’AMSA, con un piccolo mezzo ecologico. Dall’esterno, si può accedere solo con le chiavi della sicurezza. Sotto il portico di via Manzoni, ci sono grandi impalcature tutt’attorno al palazzo vuoto in ristrutturazione… fino all’angolo di Montenapoleone. Le telecamere vengono attivate solo la notte all’interno dei ponteggi. Dal palazzo di via Bigli, sino all’angolo di Montenapoleone, nessuna telecamera, ma questo lei… commissario, lo sa già! Aperto il portoncino con il duplicato delle chiavi che mi sono procurato, ho indossato il giaccone dal lato scuro, un paio di guanti e un cappello floscio da pioggia calato sugli occhi, poi sono uscito all’aperto. La porta si è richiusa con uno scatto alle mie spalle. Il rispetto dei tempi è fondamentale… sono quasi le 11,28, ho calcolato tra prima…e dopo, quattro minuti! Di buon passo percorro l’ultimo tratto dei portici, poi subito a destra in Montenapoleone, proseguo fino all’ingresso dell’agenzia della banca e…attraverso la strada. Lui sta arrivando da via Borgospesso, è quasi all’angolo di Montenapoleone. «Forse dalle telecamere si vedrà solo la mia sagoma», penso. Mi avvicino, mi riconosce. Gli occhi inizialmente meravigliati, si dilatano, forse intuisce. Ormai gli sono addosso. Un solo colpo nel punto giusto, con una lama affilata. Mi giro immediatamente, mentre lui si appoggia al muro. Abbasso lo sguardo sul marciapiede. Vedo dove è caduto solo due minuti dopo… Così l’ho ucciso, non posso credere di essere stato capace di farlo, proprio io…mi sento come sdoppiato. Una parte di me esulta, un’altra vorrebbe urlare.

– Poi che cosa ha fatto? – chiede il commissario dopo una lunga pausa.

– Ho percorso il marciapiede verso via Manzoni e sono sceso nella metropolitana dall’altro lato della strada.

– Dalla registrazione delle telecamere non ci è sembrato che lei fosse passato da quelle parti – osserva il commissario.

– Le telecamere sono puntate dall’interno sui tornelli – precisa Paolo – L’edicola a destra, per questioni di privacy, non viene inquadrata. C’è un punto morto che ho segnato sul muro con un V rosso. È il punto dove mi fermo. Getto il cappello nel cestino, inverto il giaccone dal lato chiaro e sfilo i guanti. Una ragazza mi guarda con fare interrogativo. Le strizzo l’occhio e sorrido dicendo: «È uno scherzo ad un amico». Scendo gli ultimi gradini, acchiappo una copia di Repubblica e deposito le monete nel piattino. L’edicolante mi saluta, mi conosce bene. «All’occorrenza potrà testimoniare in mio favore», penso. In fretta risalgo le scale e riemergo in strada con il giornale in bella vista. Attraverso al semaforo e mi avvio di nuovo per via Montenapoleone. Nello stesso istante arriva l’ambulanza. Attorno si è formata una piccola folla di curiosi. Il vicedirettore della banca, commessi e commesse dei negozi. Dall’ambulanza stanno preparando il trasporto in barella. All’angolo di via Santo Spirito, noto Simona… è in anticipo…chissà cosa avrà visto? Un pensiero scuro, nero pece… ti saluto…il tuo professore! Ecco, commissario, questo è successo, mi creda, tutto per colpa di quella troia di mia moglie che si è messa in mezzo, o forse no, io sono sempre stato un don Chisciotte, un idealista che sapeva fare le battaglie solo contro i mulini a vento, uno che credeva ai sentimenti, me lo diceva sempre il Professore e non potevo sopportare il disprezzo che coglievo nelle sue parole. Forse anche tu, Simona, ora che ci penso meglio, sei stata tirata dentro a una storia più grande di te e ne devi aver sofferto. Una volta ci volevamo bene… stavamo bene insieme, io e te. Avrei dovuto dirtelo tanto tempo fa che non potevo amarti come volevi. Simona, perdonami!

Paolo ora piange senza ritegno. Simona è sconvolta ma decisa. Lentamente gli si avvicina e lo abbraccia. Anche lei piange, anche lei ha tanto da farsi perdonare. Da qui deve partire per riprendere in mano le redini della sua vita.

Il commissario li guarda in silenzio. È finita e ancora una volta ha vinto. Il caso dell’omicidio del professore è ormai risolto. Già immagina l’articolo che gli dedicherà Alberti e i titoloni sul quotidiano. Ha in pugno una confessione e deve procedere subito all’arresto del colpevole. Ne ha viste tante nella sua carriera di vite spezzate come queste. Certo non è un sentimentale. Allora perché esita? La legge è la legge, ma la giustizia ha tante facce e quel Professore…

Finalmente si decide a togliere di tasca un paio di manette. Paolo vede il gesto, respinge Simona e con un balzo raggiunge la finestra, la spalanca e poi… c’è solo il buio di una notte di quasi primavera.

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