LE RIFLESSIONI DI GINO, UNO DI NOI: “L’eredità” (48)

Pubblicato il 24 Agosto 2021 in Letture Ideas
everest

Distrattamente guardo la tele. Un film recente, americano, protagonista un attore a me gradito. Un padre in pensione, vedovo, solo, decide di incontrare i suoi figli dispersi per l’America. I quali intrattengono con il genitore diafane relazioni intrise di bugie. Amare, amarissime saranno le sorprese di questo viaggio: come padre conoscerà l’incompiuto e il trascurato lasciato dietro di sé. Un viaggio che sa di inaspettato momento della verità, occasione per un doloroso bilancio.

Un segno di speranza sul futuro, suggellato nel giorno di Natale, sgombrerà dalle amarezze il finale del film. Non è certamente un capolavoro, ma un film poco più che mediocre. Eppure…

Mi sono rannicchiato fra le ombre di Morfeo con appiccicato addosso una inquietudine: “lasciare qualcosa” dopo di sé che cosa significa? E che cosa? Ed io che cosa lascerò dietro di me? Passano due ore. Morfeo mi ha abbandonato.

Lasciare qualcosa dietro di sé… che cosa e a chi… ma è un problema? Posso chiudere la mia vicenda umana semplicemente dicendo “però me la sono goduta, me ne vado soddisfatto”? Andare via senza lasciare traccia, nel più completo anonimato, nell’indifferenza? No, personalmente non lo accetto. Abbiamo bisogno di eternità, di restare nel tempo oltre il nostro tempo. Non solo essere materia per i ricordi. Penso alla occasione persa di non essere stato padre. I figli sono un segno tangibile che la tua vita continua: la tua fiamma alimenta un’altra anima. Bellissimo.

Io che non lo sono, a chi posso dare la mia fiammella? Deve proprio spegnersi con me?

Penso di essere davanti ad una domanda grande grande: rispondere è come dire del senso che ha la morte, la vita. Non so perché, ma penso alle tracce digitali, indelebili, più o meno ricche, che ognuno di noi lascerà dietro di sé attraverso internet. Che saranno sempre disponibili, per tutti. Una eternità fittizia. Che cosa c’è di noi in una identità digitale? Pensiero penoso…

Mi chiedo, se non riesco ad accogliere un Dio nella mia vita, che posso fare davanti a quella domanda.

I filosofi, che son gente più intelligente e istruita di me, si sono persi in un ginepraio di risposte diverse. Per un Gino qualunque come sono io è come trovarsi alla base dell’Everest da scalare. E scalarlo con un paio di ciabatte.

Non scrivo parole consolatorie per giustificare una fuga a gambe levate dalla domanda. Perché quella domanda è dentro di noi. Anche nel luogo più ameno e lontano possibile, sarebbe sempre lì, davanti, a sollecitarci.

E’ quasi mattina e si va scavando un insopportabile vuoto dentro di me. Quella fiammella che destino avrà?

E Dio tace. Lui che avrebbe tanto da dire..

Nella penombra guardo una foto, un momento felice con i colleghi di lavoro, una decina di anni fa. La memoria improvvisamente si attiva, come un film ritornano suoni, voci, immagini, battute, emozioni…Forse la risposta è proprio dentro quella foto. Il nostro lascito è aiutare, donare istanti di felicità a coloro che incontriamo. La relazione, forte o episodica che sia, è il solo veicolo possibile. Penso che un ricordo di felicità sia più vero della felicità stessa. E felicità, non fraintendetemi, raccoglie in sé mille e mille possibili sfaccettature: la “parola buona”, un sorriso, un aiuto, un sostegno, una battuta, un consiglio, una dichiarazione attesa, una carezza, uno sguardo, una mano tesa..

E credo che esista a riguardo anche un metodo, facili ironie a parte: vivi la tua giornata come se fosse la tua ultima.

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