“Cultura e paesaggio, punti di partenza per il rilancio dei territori”

Pubblicato il 13 Giugno 2015 in da Vitalba Paesano

Professor Carandini *, quali ritiene siano le cause di quella che lei definisce la “decadenza”? E che cosa è possibile fare per invertire la tendenza al declino?

C’è stata una decadenza della classe dirigente, con le demagogie dei vari versanti. Per avere voti sono state profuse immani quantità di denaro che hanno creato il debito pubblico e sono state protette corporazioni che andavano, invece, riportate al servizio del bene comune. E quindi si sono create nicchie di modesto, ma radicato privilegio tra le quali rientrano anche la corporazione accademica e la corporazione dei funzionari della burocrazia per cui adesso per ricomporre la società e ricompattarla ci vorranno anni e anni. Ma credo che una certa dimenticanza delle ideologie del passato di cui oggi si vedono chiare tracce nei giovani con il “presentismo” sia un elemento negativo, ma che ha anche qualcosa di positivo cioè gli uomini oggi si apprestano a fare errori diversi da quelli del passato. Faranno errori, ma saranno diversi. Il mutare delle civiltà in fondo non è stato altro che commettere errori diversi. Non c’è mai stato nessun paradiso in terra.

Lei ha più volte sostenuto che per il nostro Paese la cultura, il paesaggio e il patrimonio storico e artistico potrebbero rappresentare un fattore di prosperità. Ritiene possibile oggi un progetto innovativo che ponga la cultura al centro dell’interesse nazionale? E quale ruolo può svolgere il FAI?

Questo è un punto nodale. In fondo quello che sto facendo nel FAI è cercare di dargli sempre più “spirito”, ma anche trasformarlo sempre più in un’intrapresa. Il FAI si sta organizzando come un’impresa culturale. E come ogni impresa ha degli indicatori che dicono dove sta rispetto alla visione e alla strategia che si è date. Noi siamo esattamente a questo, abbiamo tutti gli indicatori e ci siamo dati una strategia novennale. E’ il modello del National Trust che abbiamo preso come esempio. Noi eravamo ancora un po’ artigianali, un po’ l’esito di una direzione personale, molto elitaria seppure piena di buono spirito. Quindi era necessario dotarsi di quella “cassetta degli attrezzi” che serve per crescere perché senza organizzazione, dopo un certo livello che si è raggiunto, non si cresce più. Noi dobbiamo transitare verso una cultura che pur restando industriale incomincia a fare anche della cultura un’industria, a inglobare la cultura nell’industria cambiando l’industria e cambiando la cultura in un’unica realtà di tipo olistico. La cultura è un sistema, non può essere pensata come una nicchia. In fondo anche nel mondo borghese la cultura era la ciliegina sulla torta. Chi aveva la cultura? Il grande imprenditore, il grande leader mentre nell’industria gli operai facevano operazioni molto banali. Oggi sappiamo che non è più così, soprattutto non è più così nel mondo dei servizi. Nel mondo dei servizi devi “sapere”.

E questo è particolarmente vero per il nostro Paese. I settori in cui l’Italia prevale – il design, la moda – sono impregnati di conoscenza…

Certo, e sarà sempre più vero in futuro perché noi dovremo produrre solo quei beni di eccellenza che in altri Paesi non si riescono a produrre. Sono passato recentemente dall’aeroporto di Abu Dhabi che è un sontuoso concentrato di ricchezza. C’erano solo prodotti e marche italiani. Solo l’Italia è in grado di fare questo. L’Italia è in grado di offrire al mondo il concentrato di natura e di storia più strabiliante che esiste e ancora oggi grazie a questa tradizione è in grado di produrre significatività e bellezza.

Nonostante la decadenza ci sono motivi di ottimismo sul futuro?

Vedo che qualche segno positivo c’è. Il fatto che il Papa si appresti a fare un’enciclica sull’ambiente è una cosa nuova che avrà certamente effetti positivi anche per il nostro Paese. Il fatto che il nuovo Presidente della Repubblica abbia nominato i musei fra i “sacrari” della vita civile e si appresti ad aprire il Quirinale come esposizione permanente è un segnale positivo. E il fatto che il ministro Franceschini per la prima volta abbia rotto in maniera chiara lo statalismo vetusto dell’intellettualità italiana osando pronunciare la parola “manager” – che per molti intellettuali italiani equivale a maneggioni – e dimostrando di non avere avversione per il privato è un fatto molto positivo. Staremo a vedere questa riforma quali pregi e quali difetti avrà ma un pregio ce l’ha certamente. Ed è che almeno per una ventina di luoghi (musei, siti archeologici…) alla direzione potranno essere chiamate persone competenti dal mondo che vuol dire anche italiani che sono ritornati in Italia dopo esperienze importanti all’estero. Ed è positivo che si distinguano finalmente le funzioni della tutela dalla valorizzazione e dalla gestione. Ci può essere un funzionario molto bravo nella tutela, ma non particolarmente bravo nella gestione e nella comunicazione. L’importante è riconoscere che queste funzioni sono connesse e complementari e devono essere viste unitariamente.

Quale è la sua visione per il futuro del FAI?

E’ una visione che si ispira al rapporto che le imprese hanno con il mercato. Le imprese cercano di migliorare il proprio rapporto con le persone perché le persone comprino le cose che producono. E quindi studiano i comportamenti, studiano i desideri, entrano nei cuori delle persone per capire quale è la saponetta che preferiscono. Perché non fare lo stesso per la cultura? Noi abbiamo capito dal National Trust che il target della cultura non può essere uno solo, quello delle persone curiose di storia e di arte. Quello era il target originario del National Trust e nostro. Ma oggi è importante aprirsi verso nuovi target. Faccio alcuni esempi, i bambini. In Italia i bambini per la cultura – anche per il FAI – non esistevano. Adesso se lei va al Castello di Masino vede che ci sono spazi e iniziative riservate ai bambini. E poi ci sono gli amanti della natura, gli amanti del movimento, gli amanti dell’esplorazione e via di questo passo. Per cui abbiamo commissionato a una società specializzata che si trova in Scozia un’indagine sui desideri degli Italiani. Un’indagine che ci ha dato delle indicazioni di straordinario interesse per capire chi sono le persone e poterle servire dando gioia, quindi, non solo a una élite ma potenzialmente a tutti. In passato la borghesia aveva tempo, aveva vacanze lunghe. Oggi le famiglie hanno poco tempo e quindi quando escono per il fine settimana devono soddisfare più esigenze nello stesso tempo e se il bambino non si diverte e piange, se il marito non fa la biciclettata, se la moglie non visita il castello, se non mangiano bene al ristorante… la domenica è rovinata! Ed è importante che il godimento dei beni sia accompagnato da un racconto che consenta di goderli nel senso settecentesco della parola, un godimento completo della persona per la bellezza del luogo, per la piacevolezza dei sensi, per la soddisfazione dell’intelletto e delle emozioni. Se alla fine della visita dicono che il livello del loro enjoyment – non il loro entertainment – è 10 allora noi abbiamo raggiunto il nostro scopo. Con questo approccio abbiamo più persone che ci apprezzano, abbiamo più introiti e con quegli introiti possiamo conservare i beni. Ecco il circolo virtuoso. Il fine primo è promuovere la cultura negli altri. Se promuovi la cultura negli altri, gli altri ti aiuteranno a conservarla.

E’ un cambio di prospettiva. Si può dire che l’attenzione primaria deve passare dai beni alle persone?

Certo. Love people as much as monuments. Questa è la prescrizione del National Trust che negli ultimi 15 anni è passato da due a quattro milioni di soci, e si muove verso i cinque. Questo scatto noi ancora non lo abbiamo fatto. Abbiamo superato il mese scorso i 100.000 iscritti. E per i Luoghi del Cuore siamo passato dal mezzo milione di segnalazioni di quattro anni fa, al milione di due anni fa al milione e seicentomila di quest’anno. Quindi c’è stata una progressione molto forte. Ma c’è ancora un lavoro enorme da fare perché si tratta di inventare un approccio alla cultura di tipo diverso. Si tratta di scoprire – per la prima volta nel nostro Paese – la possibilità di una cultura non altezzosa ma democratica.

In verità l’azione del FAI è da sempre democratica perché mette a disposizione di tutti beni il cui godimento un tempo era riservato a pochi.

Sì, ma dobbiamo pensare davvero a tutti, non solo al segmento colto delle élites. Le faccio un esempio. Tutti i fine settimana nel Castello di Masino c’è una specie di “caccia al tesoro” in cui guidati da una mappa i bambini visitano il parco, il grande labirinto, il castello dei giochi e quando arrivano nella Torre Medievale da una finestrella compare lo spettro di Re Arduino. E’ una piccola idea che diverte i bambini e li aiuta a capire. Un’idea che non dà fastidio, che non rovina il monumento. A Masino stiamo sperimentando la ricetta dei “fulcri e sistemi” che ho presentato al mio primo convegno da presidente del FAI, a Trieste nel 2013. Il monumento deve diventare il “fulcro” per andare alla scoperta del sistema paesaggistico che lo circonda. Dal paesaggio si va al fulcro e dal fulcro si va al sistema. Così a Masino abbiamo messo dei cannocchiali per vedere il paesaggio con dei meravigliosi disegni fatti da un prodigioso disegnatore del luogo che conosce e ama quei luoghi in modo che ogni villaggio, ogni fiume è descritto e quindi la gente è poi invogliata ad andare a visitarli. Oppure al bar ci siede sulle sedie di D’Azeglio dove c’è un’antica tradizione artigiana che produce magnifiche sedie impagliate che noi vendiamo e usiamo a Masino. Questa è cultura. La cultura è lo strumento che consente di comprendere tutte le manifestazioni di una civiltà perché ogni civiltà è un unico sistema che tiene uniti beni materiali e visioni del mondo.

Il FAI è anche un esempio di gestione economicamente corretta dei propri beni. Ritiene che anche lo Stato seguirà il vostro esempio?

Oggi con i biglietti siamo al 60-65% di copertura delle spese di gestione e con le sponsorizzazioni arriviamo all’83%. Quindi abbiamo un 17% che il FAI centrale deve coprire con propri finanziamenti. L’obiettivo è arrivare al 100%. Sarebbe la dimostrazione che il modello di gestione dei beni che c’è in Inghilterra è attuabile anche nel nostro Paese. Ed io sono convinto che io forse non lo vedrò ma il mio successore lo vedrà. E se il FAI arriverà al 100%, lo Stato – che oggi è al 7% – comincerà a passare al 10% e poi dal 10% al 15% e molti soldi pubblici saranno risparmiati. I beni dello Stato devono essere mantenuti anche grazie alle tasse ma è giusto che siano mantenuti anche da chi ne fruisce. Ma bisogna stare attenti perché poi arrivano i soloni che dicono “voi pensate solo all’economia, pensate solo al merchandising, pensate solo a queste cose brutte e volgari” perché per loro la società è divisa in due. Una parte alta e nobile e una parte bassa e volgare.

Già oggi nel beni del FAI si può trovare un’offerta selezionata di prodotti, un merchandising di qualità…

E’ un’offerta che potrebbe essere ulteriormente migliorata. Ma per farlo bisogna specializzarsi, bisogna imparare dall’estero. Sa quale è il mio segreto? Io credo moltissimo nel copiare. Copiare con intelligenza. Al FAI ho detto “Da quanto non andate a vedere che cosa fa il National Trust?” Siamo andati a vedere e abbiamo scoperto un abisso. Abbiamo incontrato Fiona Reynolds che stava lasciando il National Trust dopo 12 anni in cui lo aveva rivoluzionato ottenendo risultati straordinari. E ci siamo resi conto che noi per crescere dovevamo semplicemente seguire quella strada. Però in Italia c’è un provincialismo ristretto, un radicalismo ultra-conservatore che frena la creatività, frena il libero sviluppo perché è pieno di idee che un tempo erano buone ma oggi sono divenute pensieri invecchiati mentre nel FAI io mi diverto perché vedo che è aperto alle esperienze nuove, a metterle subito in pratica e a vedere che cosa danno. Questa è la partecipazione delle libere associazioni voluta da Tocqueville. E’ la prima volta che uno Stato alla francese sta declinandosi in senso anglosassone dove lo Stato non è tutto. Per i Francesi – da Luigi XIV in poi – l’Etat c’est mois. Noi veniamo da quel mondo lì mentre nelle società anglosassoni lo Stato non deve invadere tutto, deve lasciare dei margini di azione per la società civile che può anche criticare lo Stato creando spazi di libertà.

Non ritiene che la crisi che stiamo attraversando possa essere di aiuto perché ha messo in crisi il vecchio modello consumista?

La Reynolds ci ha detto: voi non dovete rubare visitatori agli altri castelli, agli altri paesaggi, agli altri beni. Voi dovete rubare visitatori ai centri commerciali. Questo è meraviglioso! Questo è un discorso economico, ma non economicistico perché tu dai alle persone dei godimenti di cultura superiore attraverso la conoscenza della natura, del paesaggio, del patrimonio invece di lasciarli lì a consumare porcherie. Bisogna unire la cultura al godimento e non al patimento perché se non si dà il godimento alle persone, gli interessati alla cultura saranno sempre una piccola élite. Bisogna rendere la cultura un bene diffuso.

Un’ultima domanda su Expo. Nei prossimi mesi sono attesi in Italia 8 milioni di visitatori stranieri. Lei ritiene che Expo possa rappresentare un momento di scoperta e di valorizzazione per il nostro Paese?

Probabilmente sì, però io immagino ben altro. L’Italia si era predisposta a essere l’epicentro del Grand Tour e ha svolto egregiamente questo ruolo. Le classi dirigenti di allora accoglievano le classi dirigenti che venivano nel nostro Paese, le ospitavano. Noi che cosa stiamo facendo per il Global Tour? Perché noi oggi siamo desiderati non più solo dall’Europa e dagli Stati Uniti, ma siamo desiderati dall’intero globo. Fino a che eravamo desiderati dagli Europei e dagli Americani ci muovevamo dentro un’unica cultura. Oggi per la prima volta c’è la possibilità di essere desiderati da gente che non sa chi è Augusto, chi è Adriano, chi è Carlo Magno. Non ne hanno la più pallida idea così come noi ignoriamo i grandi imperatori della Cina. Per questo mi sono battuto per questo “Museo dell’Italia” al Quirinale perché come a Berlino c’è il museo della Germania e lei in 3-4 ore capisce la storia della Germania dai campi legionari romani alla caduta del Muro, così si potrebbe avere un’idea della storia d’Italia per poi andare a vedere i luoghi. Perché se uno non ha un’idea generale di quel che è accaduto in questa penisola nei tre millenni passati non può apprezzarne i monumenti. Rischia di essere un’occasione un po’ perduta se non si inserisce in un quadro di accoglimento in cui noi prepariamo le persone a godere dei beni. E inoltre siccome le guide rosse del Touring nessun giovane più le apre, oggi ci vogliono delle guide web interessanti e interattive per l’Italia e soprattutto bisogna far uscire i turisti dai tour ristretti che fanno vedere solo sette cose, sempre le stesse: il Colosseo, il Davide, Piazza San Marco… E quindi ecco di nuovo i fulcri e i sistemi. Bisogna unire natura e cultura. La natura non è separabile dal paesaggio e il paesaggio non è separabile dai suoi monumenti. I monumenti costituiscono quei punti di eccellenza da cui come da un rifugio si parte all’esplorazione delle montagne del circondario mentre i monumenti sono sempre stati visti – anche nel FAI erano visti così – come perle isolate. Questa sarebbe la vera rivoluzione, la scoperta dell’Italia, distretto per distretto. Noi abbiamo individuato 600 distretti, un’unità intermedia tra provincia e comune, una decina di comuni aggregati in media. Questi sono i distretti a cui dobbiamo ridare vita uno ad uno. Rammendando l’Italia sbrindellata pezzo a pezzo. Dalle periferie ai centri, dai luoghi brutti ai luoghi sublimi prendendo come monumenti anche i monumenti della natura. Ed io credo che in questa riscoperta dell’Italia – da parte nostra e dell’intero globo – stia la possibilità di una rinascita culturale, civile ed economica, la possibilità di un’uscita dalla crisi e di una nuova prosperità per il nostro Paese.

Andrea Carandini (Roma, 1937) è uno dei maggiori archeologi italiani, è stato professore di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana all’Università La Sapienza di Roma e Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali dal 2009 al 2012. Tra le sue ultime pubblicazioni il saggio del 2012 Il nuovo dell’Italia è nel passato (Laterza, 2012) in cui pone la conoscenza della storia antica come snodo di interpretazione del presente e come terreno di progettazione del futuro e l’appena pubblicato Paesaggio di idee (Rubbettino, 2015) in cui ripercorre la tradizione liberale come guida alla riscoperta di una via europea alla felicità fondata sull’apprezzamento della molteplicità della vita e della tolleranza e sull’uso consapevole di una ragione non conformista. Dal 2013 è presidente del FAI (Fondo Ambiente Italiano) che – come ha detto nel discorso di insediamento – guida “innovando dove necessario e operando perché cultura, ricerca, paesaggio e patrimonio storico e artistico siano protagonisti in una nuova modalità di vita prospera, tutta da progettare, se vogliamo rinascere dopo questa decadenza”. Lo abbiamo intervistato per conoscere il suo punto di vista sulla crisi italiana, sulle possibili vie di uscita e sul ruolo che potrebbe svolgere il FAI.

Intervista di Paolo Anselmi per Social Trends giugno 2015- GfK