RASSEGNA STAMPA. Obama: forward

Pubblicato il 7 Novembre 2012 in da redazione grey-panthers
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I principali quotidiani nelle loro edizioni cartacee dedicano il titolo di apertura alle elezioni americane, ma si limitano al “testa a testa” tra i due candidati negli Stati chiave. Romney ha concesso la vittoria al suo avversario, Obama ha parlato davanti a circa 10 mila sostenitori a Chicago, ed ha detto che questa notte “il compito di rendere migliore l’Unione americana ha fatto un passo avanti, la storia del Paese va avanti”. “Obama trionfa e resta alla Casa Bianca”, scrive Repubblica.it. “Festa per Obama ancora Presidente. ‘Il meglio deve ancora venire’” (Corriere.it, Lastampa.it). Il Giornale.it ricorda che il Congresso resta spaccato (Camera ai Repubblicani, Senato ai Democratici), mentre per Libero.it “Ha vinto la paura”. L’Unità.it parla di “sconfitta amara per il Repubblicano Romney”, mentre Ilfattoquotidiano.it si sofferma anche sul voto su alcuni quesiti referendari: in Maine ha vinto il referendum sui matrimoni omosessuali, in Colorado e nello Stato di Washington sono passati quelli sulla marjuana.

Elezioni Usa

Il Corriere della Sera, in una analisi, spiega come la grande sfida per il nuovo presidente sarà quella del debito pubblico. L’esposizione degli Usa ha superato il 9 per cento, e si dovrà agire davvero per limitarla. Se ne parla da molti anni, i Repubblicani più estremisti, quelli dell’American Enterprise Institute ne fanno da decenni una battaglia etica contro “decenni di statalismo”. Quando però, negli anni 80, il Presidente repubblicano Reagan si ritrovò a dover rianimare il capitalismo americano fiaccato dall’inflazione e dall’aumento del prezzo del petrolio, non lo fece riducendo il deficit, ma aumentando la spesa pubblica per la Difesa, aggiungendo una drastica riduzione delle aliquote, soprattutto sui redditi di impresa. Fu il Presidente democratico Clinton a cimentarsi con l’impresa di rientrare dal debito reaganiano.

Un ruolo di primo piano, peraltro, è detenuto dalla Cina, cui Il Sole 24 Ore dedica un ampio articolo: “Debito, emergenza bipartisan, preoccupa la dipendenza dai creditori stranieri. Il 7 per cento dei bond è in mano cinese”. Spiega il quotidiano che gli americani sono debitori nei confronti dei cinesi di 1150 miliardi di dollari. Tanto valgono le obbligazioni del Tesoro Usa nelle loro mani.

E’ “solo” il 7 per cento dei 16235 miliardi di debito federale che la Casa Bianca si troverà a gestire, ma il fatto che ogni singolo cittadino abbia un debito, sia pur virtuale, di 3611 dollari con Pechino a molti americani non va proprio giù, soprattutto a quelli di destra. Non a caso, durante questa campagna elettorale, Romney e i Rep hanno ripetutamente agitato lo spettro dell’alto debito nei confronti della Cina per invocare il cambiamento. Non solo si è paventato il rischio che Pechino utilizzi la propria posizione di creditore, ma anche quello opposto, e cioè che decida di liberarsi del debito americano vendendo massicciamente titoli del tesoro Usa. E’ uno scenario che molti analisi finanziari, nonché un recente studio del Pentagono, tendono ad escludere: “Se la Cina cominciasse a scaricare Bond sul mercato, provocherebbe una loro immediata svalutazione, facendo crollare il valore del proprio stesso patrimonio. E dunque non ha senso, dice Wayne Morrison, esperto finanziario del Centro studi del Congresso. Anche il rapporto del Pentagono sottolinea che la Cina ha poche alternative dove investire il grosso della valuta che accumula negli scambi commerciali con gli Usa. Il Corriere scrive che la domanda di titoli americani potrebbe ridimensionarsi se la Cina muovesse nella direzione da molti auspicata in Occidente, cioè verso una crescita più orientata ai consumi interni, cosa utile anche a rafforzare il consenso, anziché sulle esportazioni.

La prima pagina de Il Foglio unisce il voto negli Usa per la Presidenza all’avvenimento di domani, il congresso cinese. Scrive il quotidiano che la “Right Nation” non ha un Presidente, e che la Cina ne avrà uno chic “ma d’apparato”. Il titolo sugli Usa si riferisce all’intervista che il quotidiano offre ad Adrian Wooldrich, che nel 2005 scrisse “The Right Nation: conservative power in America”. Secondo Il Foglio già durante il secondo mandato di George w Bush la right nation ha cominciato a ripiegare su se stessa. Secondo Wooldrich nel 2008 Obama era riuscito a convincere anche molti conservatori, ma l’idillio è durato poco perché il Presidente ha abbandonato il messaggio di unità ed ha iniziato ad “imporre logiche di sinistra”. E, a differenza degli anni bushiani, “la right nation non è più allineata con il Partito repubblicano”. La Right Nation non è disposta ad accettare il centralismo legato all’intervento dello Stato in economia. Chiosa Il Foglio: “Siamo sempre lì: è il Tea Party libertario l’espressione della Right Nation? E se sì, perché dopo il mini exploit al Midterm si è inabissato? Spiega Wooldrich che la Right Nation è “fuori controllo, è arrabbiata. Cercherà maggior purismo conservatore, cercherà di portare il partito in territori più estremi per sentirsi rappresentata”. Quanto alla Cina, Il Foglio ricorda che domani verrà incoronato al Congresso del Partito comunista cinese Xi Jin Ping, il prossimo presidente, uomo dell’apparato che ha un suo lato mondano. “Prendere in mano la Cina e portarla sulla strada del riformismo non è all’ordine del giorno né nelle corde del successore di Hu Jintao, che avrà bisogno di almeno due-tre anni per consolidarsi”. Il quotidiano intervista Giovanni Andornino, dell’Università di Torino, che dice: “Crescendo, l’economia cinese ha creato gravi danni ambientali, sanitari e sociali. Si è trattato di una crescita diseguale, e questo ha provocato malconento nella popolazione. Non a caso il numero delle proteste è passato da 8700 casi nel 1993 ai 230 mila di oggi, anche se le statistiche dell’ultimo periodo non sono ufficiali.

Per tornare agli Usa, una analisi sul voto: “Né bianchi né operai: i nuovi americani. Le minoranze ispaniche e asiatiche verso il sorpasso. Demografia chiave del duello repubblicani-democratici”. Un grafico mostra il “Paese che cambia”, con la percentuale dei nati bianchi negli Usa passata dal 65.8 per cento nel 1990 al 49.5 nel 2011. Il totale della popolazione oggi vede il 67 per cento di bianchi, il 16 di ispanici, il 13 di neri. I demografi dicono che l’America è vicina a un ‘tipping point’, un punto di svolta: secondo alcuni esperti della Brookings Institutions queste elezioni sono state “l’ultimo hurrà per i bianchi”. D’ora in poi i Rep non potranno più contare sulla cosiddetta “Southern strategy”, puntare su elettori sudisti, evangelici e rurali. Per la prima volta nella storia l’anno scorso i bambini nati dalle coppie miste o appartenenti a minoranze (2,02 milioni) hanno sorpassato le nascite dei bianchi non ispanici. 5,5 per cento (erano il 37 per cento nel 1990) contro il 49,5 per cento. Se in una situazione economica ancora traballante e con una disoccupazione così alta il Presidente è stato in testa nei sondaggi per quasi tutta la campagna, nonostante un misero 37 per cento di sostegno da parte dell’elettorato bianco, è perché è rimasto sempre fortissimo tra gli elettori delle minoranze.

E sulla scelta dell’America, Il Sole 24 Ore scrive: “La manifattura è il motore di crescita. La Casa Bianca continuerà a promuovere politiche di sostegno alla produzione nazionale”. Il capitolo sul “big government” è dedicato anche agli aiuti di Stato all’automobile, visto che il salvataggio dell’industria dell’auto americano è stato uno dei temi di più acceso scontro tra Obama e Romney. Il fallimento di Chrysler e GM sarebbe costato 1 milione di posti di lavoro.

Sul fronte del lavoro, tra le sfide che attendono il Presidente c’è quella di rilanciare la qualità dell’occupazione, secondo Il Sole: perché “l’economia crea nuovi posti, ma aumenta il peso degli impieghi part time o marginali”. “La rust belt si risveglia”, scrive il quotidiano, spiegando che è nella vecchia cintura industriale, con il rilancio del manifatturiero, che sono tornate le assunzioni, a cominciare dall’Ohio.

Legge elettorale

Il Sole 24 Ore ricorda che nelle ultime ore il segretario Pd Bersani aveva ammonito: ‘niente colpi di mano’. Invece, scrive il quotidiano, il colpo di mano è arrivato ieri in Commissione Affari costituzionali al Senato, “e proprio sul punto politicamente sensibile del premio di maggioranza”: l’emendamento approvato introduce una soglia minima di voti, “ben il 42,5%”, per far scattare il premio di maggioranza per la coalizione o la lista vincente (mentre il testo Malan la fissava al 15%). A favore: Pdl, Udc, Lega, Api e Mpa. Contro: Pd e Idv. E poi, aggiunge Il Sole, “al di sotto dell’irraggiungibile 42,5% è proporzionale pura”. La reazione di Bersani: “Evidentemente c’è qualcuno che per paura che governiamo noi vuole impedire la governabilità del Paese”. La capogruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro dichiara chiuso il dialogo in Commissione, annunciando emendamenti direttamente in Aula. Il senatore Pd Zanda: “Si torna ai governi Spadolini, ma senza avere più Spadolini”. Marco Follini, ex Dc, ora senatore Pd, poiché nel 2005 si dimise da segretario dopo l’approvazione del Porcellum, commenta: “Guarda caso gli autori della legge di oggi sono gli stessi della legge del 2005. Stiamo passando dal Porcellum al Porcellinum”.

L’editorialista del Sole Stefano Folli scrive che è già partita un’opera di mediazione per ricomporre la frattura con Bersani. Non sarà facile, ma è possibile, se non altro perché il Pd non ha interesse a presentarsi come l’ultimo difensore del Porcellum, mentre ha convenienza ad ottenere il piccolo premio di consolazione (8, 10 per cento) di cui si discute per la lista che arriva prima. E’ Stefano Ceccanti, senatore e costituzionalista Pd, a contestare che l’individuazione di una soglia fosse invocata dalla sentenza della Corte Costituzionale che, nel gennaio scorso, aveva respinto il referendum per la reintroduzione del Mattarellum: “La soglia di cui parlava la Consulta era riferita al premio illimitato del Porcellum, non ad un premio massimo del 12,5 per cento”.

Su La Repubblica il segretario Udc Cesa invita i Democratici a non lamentarsi e li accusa: “in realtà loro vogliono ancora il Porcellum”. Poi dichiara che il testo presentato dal Pd e quello votato ieri non sono molto diversi: “La struttura è la stessa: un terzo di parlamentari eletti con liste bloccate, due terzi con le preferenze, soglia di sbarramento al cinque per cento, assegnazione dei seggi a livello nazionale”. Risponde a chi lo accusa di aver costituito la Casa delle Libertà: “Ma se per quattro anni abbiamo votato al 99 per cento insieme al Pd in Parlamento! Non darei un significato politico alla maggioranza che si è formata ieri in Commissione”. Questa bozza favorisce il Monti bis? “Noi auspichiamo che Monti continui a guidare il governo. Ma il verso senso della norma è la nascita di coalizioni vere e di governi che nascono su accordi programmatici”. Di fianco, si sintetizza così in un articolo il pensiero di Bersani: Casini “ha fatto partire il treno del Monti bis”. Si scrive che si lavora ad un accordo tra centristi e Pd per far scendere al 40 per cento la soglia oltre la quale scatta il premio di maggioranza, “garantendo comunque un ‘premiolino’ del 10 per cento al primo partito nel caso la coalizione non vinca il ‘premione’. Tradotto, l’allenza tra Pd (30 per cento) e Sel (5 per cento) non potrebbe governare da sola, non raggiungerebbe il premio, e avrebbe comunque l’appoggio della “lista per l’Italia” di Casini e Fini per formare la maggioranza, spalancando così le porte ad un Monti bis. Grazie al “premiolino” la coalizione dei progressisti potrebbe però consolarsi alla Camera con il 45 per cento dei seggi (35 per cento + 10 regalati ope legis)”. Secondo questo retroscena del quotidiano nei giorni scorsi Massimo D’Alema e Pierlugi Bersani avrebbero proposto un patto ai centristi che ruotava su due cardini: mantenere il premio di maggioranza così com’è e, in cambio, assicurare il sostegno del Pd all’elezione di Monti al Quirinale. La presidenza della Camera sarebbe andata a Pierferdinando Casini, quella del Senato ad Anna Finocchiaro. “C’è questo dietro la baraonda ieri in Commissione affari costituzionali al Senato, perché la possibilità di mantenere il vita il Porcellum – con l’autosufficienza dell’allenza Pd-Sel – ha allarmato non poco tutti gli altri protagonisti. Provocando una reazione immediata di rigetto. Senza contare che Monti, che nel disegno del Pd dovrebbe traslocare al Quirinale per lasciare il posto a Bersani, non è affatto entusiasta della prospettiva”.

Grillo

Su La Repubblica: “Ecco il decalogo di Grillo: ‘Vietato andare in tv, non faremo le primarie’”. Con un post sul suo blog, il leader del movimento 5 Stelle scrive che “è fortemente sconsigliata (in futuro sarà vietata) la partecipazione ai talk show abitualmente condotti da giornalisti graditi o nominati dai partiti, come il caso delle reti Rai, Mediaset e La7; non sono vietate interviste di eletti del movimento 5 Stelle trasmesse in tv per spiegare le attività di cui sono responsabili”. Poi Grillo fa i nomi: “Lerner, Fazio, Formigli, per citare solo alcuni della truppa cammellata che imperversano nel piccolo schermo, sono le nuove fate smemorine, il cui compito è trasformare delle zucche vuote in statisti e attaccare con qualunque mezzo e ferocia chi mette in discussione il Sistema (del quale sono i pretoriani)”. Poi, il punto sui rapporti con Di Pietro: “Ha la mia amicizia, ma il Movimento 5 Stelle non si alleerà né con l’Idv né con nessun altro perché vuole sostituire il Sistema dei partiti con la democrazia diretta”.

Il Fatto intervista Carlo Freccero, che dice: “Il no alla tv è la sua resistenza”. Rifiutare il video è per Grillo “un calcolo tribale” perché “lui punta al 25 per cento, ma demolendo alla radice il sistema dei partiti”.

Internazionale

Il corrispondente de La Repubblica dalla Francia dà conto delle polemiche scatenate, ancora una volta, dal settimanale satirico Charlie Hebdo: una nuova copertina “blasfema” nella quale si ironizza sulle gerarchie cattoliche che si oppongono al matrimonio per le coppie gay.

La Stampa scrive che in Spagna il tribunale costituzionale ha respinto il ricorso presentato dal Partito Popolare del premier Rajoy contro la legge sui matrimoni omosessuali approvata nel 2005 dall’allora premier, il socialista Zapatero. E’ “una bruciante sconfitta” per i Conservatori e per la Chiesa, che ha fatto fuoco e fiamme (persino una manifestazione con la presenza in piazza di 19 vescovi) per bloccare una legge di cui hanno usufruito, secondo i dati dell’Istat spagnolo, 22442 famiglie. Il PP, allora all’opposizione e unico partito dell’arco parlamentare a votare contro, insieme a quattro deputati di centrodestra del partito catalano di CIU, sosteneva che la legge infrangeva gli articoli della Magna carta postfranchista, tra cui il 32esimo, secondo cui “l’uomo e la donna hanno diritto a contrarre matrimonio con piena uguaglianza giuridica”. Spiegava ieri Rajoy: “Abbiamo presentato ricorso non tanto per gli effetti giuridici, che non ci importavano, quanto per il nome di queste unioni, matrimonio”. Il quotidiano scrive anche che la sentenza non è stata unanime. Su 11 membri dell’Alta Corte (sette progressisti, quattro conservatori), i sì sono stati otto, i no solo tre. Si ricorda anche che tra i popolari l’ostilità a quello che i fondamentalisti cattolici chiamano ‘gaymonio’ non era condivisa da tutti: l’attuale ministro della Giustizia Gallardòn ha dichiarato qualche mese fa che le nozze omosessuali non erano affato incostituzionali. E da sindaco di Madrid aveva celebrato molti matrimoni omosessuali.

di Ada Pagliarulo e Paolo Martini