Una questione di pelle: “12 anni schiavo” e altre storie del cinema

Pubblicato il 28 Febbraio 2014 in , , da Auro Bernardi

12 anni schiavo regia: Steve McQueen, cast: Chiwetel Ejiofor (Solomon Northup), Michael Fassbender (Edwin Epps), Lupita Nyong’o (Patsey), Benedict Cumberbatch (William Ford), Brad Pitt (Mr Bass), durata: 133′

 

Una storia vera, quella di Solomon Northup, nell’America del 1841. Per sapere dove e quando siamo bisogna, però, che passi una bella manciata di minuti. Il film, infatti, è raccontato in mezzo flash back (la prima metà in flash back, la seconda no): una scelta narrativa senza alcuna logica. Ma entriamo nel merito: Solomon è un uomo libero, antesignano di quella media borghesia nera che oggi ha il suo esponente più famoso insediato alla Casa Bianca. Ma Solomon è anche una pregiata “merce” che fa gola a trafficanti senza scrupoli che lo rapiscono e lo vendono ai negrieri del Profondo Sud. Inizia così per lui una discesa agli inferi nei gironi della schiavitù, tra piantagioni di cotone e canna da zucchero, in attesa di un riscatto che arriverà solo dopo 12 anni, come da titolo. Il film vorrebbe essere un affresco d’epoca e un canto corale su una condizione umana. Riesce solo a essere noiosetto e scontato, psicologicamente tagliato con l’accetta e zeppo di luoghi molto comuni dal punto di vista sia narrativo sia stilistico. Completano l’insieme una musica piuttosto invadente, un’insistenza fastidiosa sulle macro (le pale della ruota del battello, i bischeri del violino…) e un uso altrettanto fastidioso del teleobiettivo con sfocature insistite per caricare d’espressività inutili primi piani. Involontariamente ridicolo il finale, tipo “I Robinson”. Insomma una bella occasione persa, visto il tema, ma con grande sfarzo produttivo, di costumi e di scenografia. Perfetto per mietere una messe di Oscar. La scena più azzeccata è il gospel sulla tomba del vecchio schiavo morto nella piantagione. Un po’ pochino per due ore e passa di film.

 

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Questioni di pelle

Sono pochi e piuttosto recenti i film che affrontano direttamente il tema dello schiavismo e della tratta dei neri d’America, argomento da sempre tabù nella società Usa. Il recentissimo Django unchained (2012) di Quentin Tarantino adotta peraltro il tema come semplice cornice per quello che è un western classico con in più lo stucchevole barocchismo grandguignolesco tipico del regista.

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Volutamente impegnato è invece il coevo Lincoln (2012) di Steven Spielberg che drammatizza l’iter legislativo abolizionista voluto dal 16° presidente Usa con relativa secessione degli stati del Sud, guerra civile e assassinio dello stesso Lincoln. Per il regista di Cincinnati è un “ritorno sul luogo del delitto” dopo 16 anni. A Spielberg, infatti, si deve anche Amistad (1996) che mette in scena, tra mare aperto e chiuso dell’aula di un tribunale, un controverso episodio di emancipazione (con inevitabile happy end).

Alla Guerra di Secessione si rifà anche Glory (1989) di Edward Zwick, che portò all’attore di colore Denzel Washington la sua prima statuetta (come non protagonista) per il ruolo del soldato Trip, uno degli ex schiavi inquadrati nel battaglione di neri dell’esercito unionista.

Dall’altra parte dell’Atlantico va segnalato Amazin grace (2006) dell’eclettico regista inglese Michael Apted che nel suo film affronta il tema dello schiavismo sempre con l’ottica dei bianchi, mettendo in scena la biografia eroicizzata dell’abolizionista William Wilberforce che, dopo anni di battaglia parlamentari a Westminster, nel 1807 ottenne l’abolizione (formale) della tratta dei neri nell’impero britannico.

Ma c’è anche un po’ di cinema italiano nella partita. Queimada (1969) di Gillo Pontecorvo, con la superstar Marlon Brando, racconta un’insurrezione di schiavi in un’immaginaria isola del Mari del Sud. Con finale amaro.

Sul tema del razzismo la letteratura cinematografica è più ampia, ma anche qui bisogna distinguere. Nella cosiddetta “epoca classica” di Hollywood (anni ’30 e ’40), i personaggi (e quindi gli attori) di colore potevano ricoprire unicamente ruoli secondari. Poco più che macchiette, come la Mamie di Via col vento (Victor Fleming, 1939) la cui interprete, Hattie McDaniel, venne peraltro generosamente ricompensata con l’Oscar come non protagonista. Fu la prima statuetta a un’attrice di colore. Non solo: il famigerato Codice Hays, le linee guida in vigore dagli anni ’30 ai ’60 cui dovevano attenersi i cineasti nella realizzazione dei film, prevedeva espressamente il divieto di “rappresentare sullo schermo relazioni tra persone di razze diverse”. Occorre perciò arrivare al 1967, alla contestazione, al Vietnam, alle marce di Martin Luther King, per vedere sullo schermo il primo film che affronta esplicitamente il problema razziale: quell’Indovina chi viene a cena del regista liberal Stanley Kramer interpretato dalla coppia altrettanto liberal Spencer Tracy-Catherine Hepburn e da Sidney Poitier, il primo attore di colore uscito dal ghetto delle comparsate.

Già sette anni prima, però, il razzismo aveva fatto da sfondo all’unico film Made in Usa di Luis Buñuel: Violenza per una giovane (1960) sceneggiato, sotto pseudonimo, da Hugo Butler che aveva conosciuto fior di persecuzione nel periodo del maccartismo non perché fosse nero, ma in quanto attivista di sinistra. Per Buñuel stupro e razzismo, violenza e discriminazione sono due aspetti complementari e reciproci dei rapporti tra gli individui in una società classista in cui le donne e gli uomini con il diverso colore della pelle sono vittime predestinate. Un capolavoro in anticipo sui tempi.