A Rovigo, in mostra l’Ottocento elegante

Pubblicato il 26 Gennaio 2011 in , da Vitalba Paesano

L’Ottocento elegante

Arte in Italia nel segno di Fortuny, 1860 – 1890

Rovigo, Palazzo Roverella, 29 gennaio – 12   giugno 2011

Nel 1867 l’exploit della pittura italiana all’Esposizione Universale di Parigi attestava il trionfo della cifra stilistica imposta da Domenico Morelli, mista di colorismo napoletano e aggiornamenti francesi, mentre Vincenzo Gemito trasponeva in bronzi e terra cotte le sprezzature cromatiche di Mariano Fortuny e il caratterismo di Jean-Louis-Ernest Meissonier. Sono proprio le opere realizzate da Morelli a partire dalla fine degli anni Sessanta a indicare la via del fortunysmo: sono dipinti a soggetto mistico e religioso, prevalentemente di ambientazione esotica e quindi ravvivati da un’accesa cromia .

Il sogno parigino di De Nittis avviatosi fin dal 1867 nell’orbita di Meissonier e Fortuny sancisce dalla Francia la diffusione italiana di un gusto destinato a segnare l’intera stagione ottocentesca, tra preziosismi pittorici e curiosità tematiche.

D’altra parte l’affermazione del quadro di genere, di un modello di pittura cioè che propone aspetti di vita contemporanea spesso intrisi di sentimentalismo e ai quali sovente sottendono moniti moraleggianti e didascalici, sembra porsi come sorta di contraltare alla raffinatezza delle mode neosettecentesche o alle suggestioni revivaliste.

Indagare su tale molteplicità di tematiche, sui dibattiti che ad esse sottendono, sugli esiti figurativi alle quali esse approdano, consente, così come è negli intenti di questa mostra, di dar conto di profondi cambiamenti  etici e culturali della società italiana risorgimentale. In tali varietà di scelte sembra rispecchiarsi la difficile e contraddittoria  ricerca di una identità anche sul piano delle arti da parte della nascente borghesia italiana.

E’ questo un percorso affatto inedito, certo meno scontato e celebrativo, che può essere offerto al grande pubblico in occasione della ricorrenza dei 150 anni dall’Unità d’Italia

A partire dagli anni Sessanta la pittura di genere subisce la divaricazione in diversi filoni. Da una parte il rinnovamento del soggetto storico, da sempre privilegiato da parte della committenza più esigente, dall’altra rivoli di una quotidianità più aneddotica, dove l’umiltà del vero e la trivialità dell’aneddoto prendono il sopravvento sull’idealità della storia. Non manca l’evasione verso il serbatoio esotico e quello in costume, dal Medioevo al Settecento, a soddisfarre il desiderio di una committenza sempre più desiderosa di evasione.

In Lombardia, tra i principali protagonisti di tale svolta figurano i fratelli Induno, Domenico e Gerolamo. Nel 1863 Domenico dipinge Un pensiero a Garibaldi esposto a Brera nell’autunno di quell’anno, celebrato quale capolavoro di una pittura di genere nella quale eccelle lo stesso fratello, Gerolamo. Nello stesso anno Gerolamo dipinge Roma 1963, noto come La bandiera nazionale: entrambi i dipinti possono identificarsi come il riassunto di tutta la pittura lombarda all’epoca dell’unità d’Italia, pittura complessa e densa di contraddizioni.

Dai soggetti di storia a quelli di carattere e costume, corre in questi frangenti un dibattito critico che tende a svilire questi ultimi quale frutto di una vera degenerazione, ma, nel corso di tale tragitto tematico, piovono comunque le committenze ad entrambi i fratelli da parte della più illustre nobiltà lombarda.

Domenico e Gerolamo Induno saranno celebrati all’Esposizione Universale di Parigi del 1855, dove ai dipinti storici e pietistici di Domenico si affiancano quelli militari, ma anche di genere neosettecentesco, del fratello. Ne è testimonianza l’apprezzamento di Théophile Gauthier che avanza addirittura un paragone tra gli Induno e la maniera di Hogarth. Per gli stessi motivi il mazziniano Giuseppe Rovani, uno dei massimi protagonisti del dibattito artistico a Milano, bocciava nel 1855 Domenico per l’assenza di contenuti moraleggianti nella sua rappresentazione della vita del popolo.

Con la Lettura del bollettino di Villafranca Domenico ratificava in effetti il rinnovamento della tematica storica alla luce delle sue ripercussioni sulla Milano popolare e non ufficiale, in omaggio ad una solidarietà tutta manzoniana destinata ad affievolirsi dopo l’unità.

D’ora in avanti gli Induno proseguiranno il loro percorso creativo nell’ambito di una reiterata ed evasiva produzione dedicata ad un repertorio oscillante tra scene militari, temi domestici e bozzetti neosettecenteschi, in omaggio ad un collezionismo sempre più pervasivo, benché culturalmente meno esigente.

Tra gli Italiani che appaiono maggiormente suggestionati dalla dimensione esotica diffusa dall’ondata fortunyana si citano il torinese Alberto Rossi, impegnato nella rivisitazione del mondo egizio se pur con sensibilità di verista e il milanese Carlo Mancini, distintosi per una produzione paesaggistica in stile tardo – impressionista di estrema modernità, parte della quale conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.

Oltre all’esotismo è il gusto neosettecentista ad accompagnare in Italia la diffusione dello stile fortunyano, a partire da uno dei più fulgidi protagonisti della pittura veneta dell’Ottocento, ovvero quel Giacomo Favretto che, a partire dai primissimi anni Ottanta, avverte più insistentemente l’ascendente del lezioso linguaggio pittorico di Mariano Fortuny, conosciuto nel soggiorno parigino tra il 1878 e il 1879. A seguito di tale scelta “di campo” l’artista ottenne proficui contatti con commercianti tedeschi e inglesi e le sue opere conquistarono il mercato internazionale.

Ma è soprattutto il caso del lombardo Mosè Bianchi che, grazie al pensionato Oggioni, ottiene nel 1867 il finanziamento di un soggiorno di due anni a Venezia, dove studia la pittura del Settecento, quindi a Roma e a Parigi, dove è impressionato dalla pittura di Meissonier e Fortuny. In particolare furono la suggestione del cromatismo Veneto e la decorazione illusionistica del Tiepolo a caratterizzare la sua cifra stilistica verso un fortunysmo di successo.

Appare evidente il meccanismo di rispecchiamento che coinvolge la borghesia italiana e che potrà offrire una solida base di un successo a tale pittura giunta senza flessioni fino agli anni ‘80: «Le signore e i signori alla moda, i borghesi ricchi» scriveva nel 1877 il pittore e critico pugliese Francesco Netti «ritrovavan se stessi in quelle opere. Vedevan le stesse stoffe che avevano addosso, i tappeti che avevano a casa, il lusso nel quale vivevano, e poi scarpe di raso, mani bianche, braccia nude, piccoli piedi, teste graziose. Quelle figure dipinte stavano in ozio tali e quali come loro. Al più guardavano un oggetto, o si soffiavano con un ventaglio. Le più occupate facevano un po’ di musica o leggevano un romanzo. Era il loro ritratto anzi la loro apoteosi. E si faceva a gara per averle».

Prima sezione della mostra: Italia-Parigi tra Meissonier e Fortuny

A partire da Giuseppe De Nittis e Giovanni Boldini tutta una serie di scene galanti e interni di genere inonda le esposizioni parigine sulla scia di quel gusto calligrafico da una parte, e dall’altra di uno sfrenato cromatismo che personalità alla moda quali Meissonier e Fortuny avevano imposto come cifra trionfale.

Seconda Sezione: La scuola meridionale sulle orme di Fortuny

L’arrivo di Fortuny a Portici nel 1874 contribuiva a enfatizzare l’immediatezza narrativa e la rapidità cromatica della maniera napoletana, al punto che molti napoletani recatisi a Parigi assimilarono le mode di Meissonier e Fortuny, in primis Edoardo Dalbono.

Terza Sezione: Il fortunysmo a Roma

Gli anni Settanta dell’Ottocento vedono comunque Roma impugnare lo scettro del fortunysmo a partire dall’orbita dell’Accademia di Spagna fino a italiani quali Achille Vertunni che ne trarranno spunto per una produzione paesaggistica di ambientazione orientalista. Il cosiddetto “impero del bianco”, denominazione efficace adottata per uno stile, quello napoletano, che privilegia gli effetti luminosi, vede tra i protagonisti il romano Pio Joris.

Ma è soprattutto il caso Michetti a segnare il trionfo di un filone di ispirazione idillica, fortemente connotato di virtuosismi pittorici, come documenta la condanna nel 1877 della sua Processione del Corpus Domini ad opera di Adriano Cecioni proprio sulla base della taccia fortunyana: «non può esser mai un artista quello che approva l’arte dei seguaci di Fortuny, cioè Michetti e compagni, perché in questi pittori tutto è fatto per l’occhio, sola e unica preoccupazione di quella pittura».

Quarta Sezione: Esotismi e Revival

Travestimenti esotici e messinscene di gusto storicistico, tipiche delle mode fortunyane trapassano in molti protagonisti della pittura dell’Ottocento Italiano, dal napoletano Domenico Morelli al lombardo Mosè Bianchi all’emiliano Giovanni Muzzioli, con dovizia di dettagli scenografici e preziosismi cromatici.

Quinta Sezione: I dettagli del genere

Dal Veneto al meridione, senza dimenticare il caso Lombardia, con i fratelli Induno, dilaga la propensione per un folklore interpretato alla luce di un dettato stilistico internazionale: mercati, vedute urbane, botteghe di antiquari, consentono di gustare in un registro di quotidianità più popolaresca e briosa quelle innovazioni stilistiche dettate dalle mode spagnole.

Si tratta di un genere amatissimo presso il collezionismo italiano e internazionale, destinato a suscitare un dibattito critico di ampie coordinate. Ne è conferma il destino critico dei fratelli Induno, addirittura sviliti questi ultimi quali emblemi di una vera degenerazione, proprio mentre piovono comunque le committenze ad entrambi da parte della più illustre nobiltà lombarda.

Non è un caso che nella dibattuta questione sull’aggiudicazione del primato ad uno dei due Induno, resti in maggioranza chi antepone Domenico al fratello Gerolamo, più incline quest’ultimo ai compromessi di un mercato dell’arte sempre più sensibile al quadro in costume di un Fortuny o di un Meissonier.

Sesta Sezione: L’Ottocento in costume

Non restringibili al campo del revival antichizzante, di gusto romano o neopompeiano, le messinscene in costume rispondenti al gusto fortunyano si orientano frequentemente verso il repertorio medioevale e rinascimentale, dando origine a tutta una categoria di paggi, fornaretti e menestrelli che da Giovanni Boldini a Giovanni Battista Quadrone si animano di nuove movenze e di sontuosi colori.

In Toscana il caso di Francesco Vinea è quello che meglio illustra la diffusione del modello Meissonier e Fortuny, basti pensare all’opera Prima del duello (1875 ca.) conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.

Settima Sezione: Il neosettecentismo

Oltre all’esotismo è il gusto neosettecentista ad accompagnare in Italia la diffusione dello stile fortunyano, basti pensare a Mosè Bianchi che nel 1866 sarà in grado di verificare nel corso di un soggiorno parigino quell’inclinazione per la pittura in costume alla maniera di Meissonier. La presenza di Fortuny a Parigi proprio nel 1866 gli consentirà di progredire in fatto di virtuosismi pittorici nel reparto delle tematiche neosettecentesche almeno fino agli anni Ottanta.

Tra gli Italiani di Parigi saranno ancora una volta Giuseppe De Nittis e Giovanni Boldini a coniugare i fasti neosettecenteschi in virtù di una sapienza cromatica e di una verità di atmosfera che sfugge ad ogni manierismo accademico.

Ottava Sezione: La vita contemporanea

Sempre più spesso evenienze mondane e parate ritrattistiche vengono affidate nella seconda metà del XIX secolo a quegli artifici pittorici che Mariano Fortuny aveva saputo imporre quali ingredienti di un’arte alla moda: assoli di nobildonne, vedute di ippodromi, ribalte teatrali, interni ovattati diventano palcoscenici per rari e pregiati arredamenti oltre che per sieste regali: da Giovanni Boldini a Giuseppe De Nittis, da Giacomo Favretto a Edoardo Tofano, da Carlo Pittara a Riccardo Pellegrini, l’attualità dei ricevimenti mondani e la modernità dell’icona femminile affascinano con artifici rinnovati.