Pazienza e tolleranza, un binomio che rinvia al mite animale che tutti conosciamo, ma che non ha mai smesso anche di esercitare un forte fascino sulle persone, forse perché considerato in genere come evidente sinonimo di saggezza
A quanto narra la Bibbia, la pazienza caratterizzava Giobbe, divenuto proverbiale proprio per la sua capacità di sopportare le peggiori avversità.
Quanto alla tolleranza, da qualche parte Leonardo Sciascia scriveva che essa ha come presupposto necessario uno scetticismo radicale circa l’essere umano.
Dunque, occorre essere pazienti in proprio, per essere tolleranti con gli altri, poiché le illusioni sul genere umano sono destinate a dissolversi rapidamente: come i nostri sogni, finiscono all’alba.
Pazienza e tolleranza, qualità vantaggiose
La pazienza e la tolleranza sono qualità certamente vantaggiose se non altro per il fatto di facilitare a chiunque il governo di quelle situazioni complesse e sgradevoli che fanno parte della vita di tutti. Non è necessaria pazienza né tolleranza quando le cose “filano lisce” come si usa dire, ma siccome esistono anche ostacoli, delusioni, dispiaceri di ogni tipo, malattie, conflitti interiori e interpersonali, la nostra capacità di mantenere un equilibrio sufficiente per non alterare troppo gravemente la qualità delle nostre vite è messa costantemente alla prova .
Ognuno di noi riceve continuamente ogni genere di stimolazioni a cui non siamo in grado di contrapporre quasi nessuna protezione.
I giornali, e in generale i mezzi di comunicazione che la tecnica rende disponibili, ci informano su problemi politici e su decisioni che ci toccano emotivamente perché in vari modi ci riguardano, ma ai quali non possiamo opporre alcun genere di risposta diretta. In fondo il meccanismo dell’informazione, della quale siamo obesi, fa poco più che assicurarci che iniziamo e terminiamo la nostra giornata con la dovuta, quotidiana dose di senso di impotenza e frustrazione.
Persone vengono massacrate qua e là nel mondo e noi possiamo solo prenderne atto, oppure cede una diga, si capovolge un’imbarcazione, erutta un vulcano o cade un aereo da qualche parte ma noi non possiamo fare nulla per le vittime se non cercare di portare poi qualche minimo conforto ai superstiti.
Oppure possiamo cercare di consolarci volgendo lo sguardo altrove, il che non è affatto un male anche se, quando per esempio in modo un poco più fatuo seguiamo le fortune della nostra squadra di calcio o della nostra star preferita, questo non ci aiuta minimamente a smettere di fumare o di riempirci di alcool, dolciumi o grassi nocivi.
Un vasto apparato di filmografia, di fiction a buon mercato e di intrattenimenti più o meno ebeti, nutre fantasie circa un mondo dove i problemi etici non presentano alcuna difficoltà intellettuale per essere risolti e dove le relazioni personali non hanno in fondo alcun genere di complessità.
Un mondo finto, dove non è necessario essere capaci di vera pazienza e di vera tolleranza, perché basta parlarne: come se, in definitiva, piaceri e dolori della vita reale non esistessero.
Sappiamo tutti quanto sia facile dire “ti amo”: lo fanno anche i bambini. Quanto ad amare realmente, a saperlo fare, è tutta un’altra questione.
Pazienza e tolleranza hanno a che fare col fatto di amare ossia di riuscire a mantenere una posizione equilibrata, benevola in fondo, sapendo quanto è complessa la vita nella sua realtà.
Ma si tratta di qualità innate o le acquisiamo nel corso della vita? E come?
Pazienza e tolleranza vanno acquisite, per dimostrare senso di realtà
In verità termini come pazienza e tolleranza non fanno parte propriamente del bagaglio psicoanalitico, ma sono considerate conseguenze auspicabili semplicemente in termini di utilità personale, di vantaggio, di un’azione profonda e costante sulla propria base personale.
Tutto si risolverebbe, alla fine, nella capacità di acquisire una qualità: capire come ci muoviamo nei confronti della realtà della vita, del mondo, posto che, per definizione, essa si discosterà sempre, in misura maggiore o minore, dalle nostre aspettative.
Questo scostamento comporta un senso di dispiacere, di delusione che, ancor prima di assumere un aspetto psichico, di qualità affettiva capace di influire sul nostro umore e, quindi, sul modo di vedere la realtà, viene attribuita a un influsso cattivo di cui qualcuno è responsabile: un oggetto cattivo insomma.
Per fare un esempio banale: il piccolo bambino/a che picchia inavvertitamente la testa contro uno spigolo del tavolo (meglio tavoli rotondi dunque), sarà consolato/a sgridando il tavolo cattivo e facendogli anche la “bua” con qualche schiaffetto.
La nostra umana storia è piena di queste situazioni, di spiriti benigni o maligni che ci vogliono bene o male e che continuamente cercano di proteggerci o di nuocerci in varie maniere. Essi sono una costante nella storia del genere umano e ancora oggi sono diffusamente presenti. Basti pensare alla fortuna che ancora ai nostri giorni incontrano maghi e fattucchiere, streghe e stregoni, indovini dei due sessi, lettrici e lettori del futuro e dei suoi arcani, esorcisti e sciamani, non solo in contrade remote, ma nella nostra realtà quotidiana, tecnologica e scientifica e che si vorrebbe, quindi, priva di superstizioni.
Certamente si potrebbe obiettare a ragione che basta rinunciare a quello che ci procura insoddisfazione, per esempio non leggere i giornali o non seguire certi spettacoli, assicurandosi così un certo grado di benessere. Ma chi si occupa di queste cose, per esempio gli psicantropi, quei tali che nel mondo odierno si occupano a vario titolo della cosiddetta psiche, sanno benissimo che questo genere di rinunce, in quanto vettori di un senso di privazione, non sono mai completamente efficaci perché gli stimoli evitati in vario modo, si ripresenteranno in altra forma e su altri livelli.
Solo con il passare del tempo, con la nostra crescita progressiva ci rendiamo conto che, ahimè, la vita non è il paradiso in terra che ci aspettiamo ma, a lato di tanti lati piacevoli, ha anche alcuni aspetti spiacevoli con i quali occorre saper fare i conti.
Qui, a volte, l’asino non sta in piedi o almeno fatica a farlo.
Pazienza e tolleranza, che dire di loro?
Come definirle una alla volta? Pazienza: una virtù? un’arte? In ogni caso si tratta della capacità di saper attendere. Una disposizione d’animo, abituale o momentanea, congenita al carattere oppure frutto di volontà e di autocontrollo, che permette di accettare e sopportare con moderazione e senza reagire con violenza, le avversità della vita in genere. Una qualità evanescente, ma utile, anche se soggetta a un continuo va e vieni. Essa rende possibile l’attesa come se fosse una barriera capace di opporsi all’impeto della reazione immediata che vorrebbe scaricare qualsiasi tensione eccessiva che si impadronisca di noi. Fra gli umani forse le donne sono più dotate degli uomini: tradizionalmente l’attesa fa parte di certe loro prerogative specifiche.
Attendere vuol dire sopportare che le cose non si presentino subito nel modo desiderato, ma che richiedano, magari, uno sforzo di elaborazione che impegna tutte le nostre capacità psichiche, non solo quelle cognitive, ma anche e specialmente quelle emotive. Aspettare fronteggiando la tensione, contenendola, impedendole di uscire in modo esplosivo mantenendo un certo controllo su di sé e sulla situazione complessiva nell’attesa della soluzione, è però il risultato di un processo evolutivo lungo e non privo di fatica, in un articolarsi di diversi elementi dove fondamentale, come sempre accade, è l’influsso dell’ambiente, nel nostro caso dei genitori su ogni piccolo.
Per quanto riguarda invece la tolleranza, si deve rilevare innanzitutto che in sé questo è un termine di ampiezza praticamente indefinibile, poiché ricopre ambiti che vanno dal diritto alla biologia, dalla religione al costume, dalla filosofia (Erasmo da Rotterdam per fare un nome) all’ecologia, all’arte ed oltre ancora.
Per circoscrivere l’ambito a cui intendiamo riferirci qui senza perdere di vista l’obiettivo limitato di queste righe, potremmo dire che si tratta della capacità, della disposizione o semplicemente del fatto stesso di riuscire a sostenere e sopportare qualsiasi cosa che, in sé, potrebbe anche essere spiacevole o dannosa, oppure anche del fatto di consentire o ammettere che qualcosa esista anche se non corrisponde alle nostre inclinazioni o idee.
In definitiva pazienza e tolleranza vanno insieme per larga parte.
Pazienza e tolleranza: eredità o acquisto?
Una nozione centrale del pensiero psicoanalitico rinvia a un concetto che va sotto il nome di “madre sufficientemente buona”. Questa espressione indica la presenza di un elemento primordiale di riferimento in grado di aiutare il piccolo umano, nato da poco, dapprima a fronteggiare le sue necessità vitali provvedendovi semplicemente per non morire (poiché nessun neonato umano sarebbe in grado di sopravvivere per conto proprio) e successivamente a frenarsi poco alla volta, imparando ad attendere che le cose si svolgano nel senso auspicato senza farsi travolgere da tragici sentimenti di catastrofe, cioè di vita in pericolo quando, ad esempio, lo stomaco si fa sentire ma la pappa non arriva subito.
La madre sufficientemente buona, che in fondo è anche una madre sufficientemente cattiva ossia non perfetta, è appunto l’adulto, una donna in genere, ma anche un uomo se necessario, che riesce a svolgere in modo sufficientemente adeguato la funzione di sostenere e favorire lo sviluppo, nell’infante, del sentimento di una realtà accessibile, accogliente, amica in fondo e che tale resta e resterà pur nella sua imperfezione rispetto alle sue (e nostre) aspettative. Un ambiente imperfetto e, quindi, utile perché in grado di evitare che si creino e crescano ideali irrealistici, irrealizzabili e dunque vettori di insoddisfazione e di sentimenti di delusione e di rabbia o, peggio, di angoscia depressiva fino alla disperazione.
In questo modo, diventa non solo auspicabile, ma propriamente reale, che le esperienze di ognuno di noi nel corso della propria crescita si iscrivano in un contesto di crescente fiducia nel fatto che le proprie attese potranno essere soddisfatte oppure che, anche ove non lo fossero in un determinato ambiente, sarà sempre possibile rivolgersi altrove, cambiare l’oggetto da cui attendersi accoglienza, cura e sostegno, fidando nel fatto che esso esiste nel mondo e quindi aspettandosi di poterlo infine trovare.
Questa situazione è importante anche da un altro punto di vista: essa suggerisce che non siamo pianeti isolati nell’universo, poiché la nostra esistenza prende senso in un sistema di relazioni reciproche dove la vita del singolo individuo ha un posto all’interno di quella della specie alla quale si appartiene, per noi quella che chiamiamo “gli esseri umani”.
Qui forse si intravede meglio come pazienza e tolleranza siano in fondo due caratteristiche che si richiamano reciprocamente, nel senso che, come già dicevo, l’una non può andare senza rinviare all’altra.
Genitori e figli e la conquista/offerta di pazienza e tolleranza
I bambini non piovono dal cielo, lo sappiamo tutti, anche i bambini stessi. I piccoli osservano, sentono, introducono in se stessi, imitandoli, i comportamenti dei genitori e, più in generale delle figure di riferimento. Gli adulti insegnano ossia mettono negli altri, “in” loro, proprio dentro di loro il proprio segno. Questo accade soprattutto quando questi altri sono più permeabili ossia “piccoli” ed emotivamente legati e quindi dipendenti e perciò anche particolarmente influenzabili.
Se questi adulti, in particolare i genitori, mostrano pazienza nelle loro interazioni, è più facile per chi segue adottarla come qualità che influirà sul loro stesso atteggiamento.
Si parla di identificazione alle immagini dei genitori, degli adulti in generale.
Questo è un concetto complesso perché da un lato indica la tendenza a conformarsi a quello che si crede che gli adulti pretendano dai piccoli che da loro dipendono, dall’altro che si tende anche a fare propri quei loro aspetti che colpiscono particolarmente sia per la loro qualità sia per la quantità, cioè per la frequenza con la quale vengono proposti.
Se per esempio un adulto è capace di mostrare sia la pazienza necessaria per “insegnare” sia la tolleranza degli inevitabili errori, mancanze, imperfezioni, opposizioni o anche semplicemente della originalità e autonomia, della diversità di chi è supposto dover imparare, cioè il bambino dei due sessi, allora sarà più semplice una crescita armoniosa nella quale si articoleranno la capacità di sostenere e l’attesa di tempi migliori e lo sconcerto, la sorpresa o perfino la stizza di dover constatare che non tutti sono come noi o come noi li vorremmo.
Detto altrimenti, la pazienza di fronte alle avversità o anche solo ai contrattempi, così come la tolleranza della diversità che non è necessariamente un attacco o un affronto, si costruiscono quale risultato di un processo evolutivo lungo e non privo di fatica, dove una dimensione soggettiva, storica, si collega alla base costituita dalle diverse predisposizioni individuali che normalmente vanno sotto il nome di ereditarietà.
Ottime conseguenze e risultati
La cosa non è senza conseguenze pratiche molto rilevanti perché tutti noi dobbiamo fare i conti con il fatto che questa ereditarietà esprime anche un mondo primitivo, dove impulsi, tensioni, conflitti fra tendenza contrapposte (amare chi ci compiace e detestare chi ci contraria, anche se si tratta delle stesse persone per esempio) sono quanto di più naturale esista. Non sopportare la contrarietà è qualcosa che tutti possiamo più o meno constatare anche di noi stessi quando si diano le condizioni perché questo accada.
In questo senso pazienza e tolleranza permettono il costituirsi di forme di comunità sociale utili e vantaggiose per tutti, igieniche dal punto di vista emotivo e intellettuale, nel senso di rendere possibile per ognuno l’espressione delle proprie caratteristiche personali specifiche senza essere condannata/o all’atrofia e alla frustrazione delle proprie inclinazioni.
Mi rendo ben conto che si tratta in fondo, almeno in parte, di un pio desiderio, ma questo non dovrebbe impedirci di avere uno sguardo attento a tutte le forme di derive psicologiche e, perché no, spirituali, che spingono le comunità umane a elaborare forse troppo facilmente forme di associazione altrettanto distruttive per la salute psicologica delle persone quanto lo sarebbe l’assenza di ogni forma di assistenza medica per la salute fisica.
In fondo uno sguardo alla cronaca quotidiana permette di constatare che forse non si tratta di una considerazione del tutto priva di senso.