L’inno al superfluo indica il disprezzo per la superficialità delle apparenze, il dolore per la mancanza del vero bello

Pubblicato il 3 Marzo 2021 in , , da Giorgio Landoni

Preambolo.
Medici non bastavano…..né arte umana……..Alla fine, vinti dalla grandezza del male, tutto abbandonarono”. Così, anni fa, in un saggio elegante, Giuseppina Lombardo Radice citava il racconto che Tucidide fa della peste in Atene all’epoca di Pericle.
Non voglio esagerare, ma certi aspetti di questa descrizione sembrano attagliarsi bene ai nostri tempi.
La peste é forse il simbolo più usato per alludere a tutti i mali che ci possono colpire senza che noi possiamo difenderci, il male come la guerra o forse anche peggio. .
Si legge in Tucidide ma anche in Manzoni o in Albert Camus.
É il male assoluto, il male senza rimedio: “…la morìa repugnante, indiscriminata, anonima…….l’epidemia che prostra coi forti i deboli…….Perché……la malattia che é di tutti e di ognuno é il pretesto esterno allo sviluppo sicuro e crescente di un intimo travaglio logoratore di vita”.

Pretesto.
Per cercare la salvezza gli antichi avevano i loro idoli ai quali si rivolgevano con maggiore o minore fiducia.
Noi, fortunatamente, abbiamo anche rimedi più efficaci e tuttavia non smettiamo di avere idoli e feticci.
Leggevo poco tempo fa su un quotidiano lo scritto divertente di un noto letterato dedicato alle vicende che attraversano la vita di tutti noi toccandoci profondamente, suscitando e alimentando appunto l’ “intimo travaglio logoratore di vita” descritto da Tucidide.
Cito alcune sue frasi che mi hanno colpito: “Non c’é niente di bello nella frugalità imposta…….La verità é che la natura umana esulta per i fasti del superfluo, che il lusso é persino più romantico di un tramonto. Da qui lo sconforto per le saracinesche abbassate, gli stadi vuoti, le notti desolate”.
E ancora: “C’é un bambino in me, un piccolo ingenuo selvaggio, una bestiolina impressionabile, che si emoziona di fronte ai monili luccicanti……Non c’é niente di bello nella frugalità imposta da circostanze avverse, non c’é decoro nella rinuncia, né umanità nella parsimonia……….Sogno di poter tornare quanto prima a interpretare il misantropo in un mondo leggero e vaccinato che ha di nuovo imparato a spassarsela”.
Questa protesta appassionata seppure espressa in forma di paradosso:“evviva il superfluo”, non può celare un fondo di disprezzo altero per la superficialità delle apparenze alle quali spesso si pretende di affidare il senso del nostro vivere.
Tuttavia, lasciare che tutto si esaurisca nell’invettiva di una passione delusa, nell’ironia pungente fino al sarcasmo equivarrebbe a negare sia la ricerca di un impegno diverso da quelli a cui ci siamo abituati, sia la possibilità che si possa anche cambiare qualcosa. Forse si può cercare di andare oltre, anche solo di poco e sempre ammesso che l’oltre non sia solo un’illusione della mente.
Anche perché, vorrei tanto sbagliarmi, avremo altre occasioni di occuparci di rinuncia, di frugalità e di parsimonia anche se ci saranno altri vaccini.

Spiegare per, forse, capire
Il collegamento fra la mancanza del superfluo e lo sconforto che ne deriverebbe mi suscita qualche perplessità. Possibile che il superfluo abbia tutto questo potere?
Accade spesso che la spiegazione della realtà sia affidata alla descrizione il più accurata possibile dei fatti come noi li percepiamo. Pure adesso, la nostra desolazione viene spiegata ricorrendo a una serie di fatti esteriori: vie e piazze, stadi e teatri, saracinesche e così via. Si tratta di un metodo usato ad esempio dagli storici oppure anche dai medici, gli psichiatri per esempio, che dalla descrizione minuziosa e dettagliata di una situazione sembrano ritenere di poterne spiegare le cause, salvo dover poi ogni volta, malinconicamente, ricominciare da capo.
Non si scappa: descrivere non é spiegare e spiegare non é automaticamente garanzia di capire il senso profondo delle cose.
Occorre andare oltre la descrizione, interpretare quello che percepiamo. Interpretare come gli attori, i quali presentano i loro personaggi come se fossero persone reali.
Oppure come, molto più modestamente, cercano di fare gli psicoanalisti.

Interrogarsi
La tesi che sembra emergere dalle righe riportate pare semplice: noi esultiamo per il superfluo. Esso ci affascina, ci fa sentire vivi e quindi ne abbiamo bisogno.
La sua mancanza, la frugalità imposta che oggi tutti siamo costretti a sperimentare nostro malgrado, ci rende tristi come bambini ai quali viene ripetutamente negata una prelibatezza, un giocattolo, un capriccio qualsiasi.
Verissimo che in ognuno di noi vi é un bambino, quello che siamo stati, ma un conto é che esso stia in noi, un altro che noi stiamo in esso come se fossimo veramente dei bambini.
Inoltre: se la frugalità non ha nulla di bello, si tratta di avere il superfluo o di recuperare la bellezza che manca?
Detto in modo semplificato: soddisfare il bambino ghiottone o sostenere l’adulto incerto e dolente?
Quei monili luccicanti ci emozionano perché superflui oppure perché belli?
Mi sembrerebbe strano che si esultasse per qualcosa di brutto o di sgradevole anche se superfluo.
Per finire: siamo certi che la bellezza abbia a che vedere con il superfluo?
E se proprio adesso, in questo istante, penso che forse sono io lo strano, mi persuado invece che no, non sono strano: la bellezza si presenta e si fa riconoscere in modo molto semplice, attraverso il piacere che ci procura.
Di ciò che consideriamo bello diciamo che ci piace e di solito non troviamo bello quello che ci provoca dispiacere. Noi viviamo il dispiacere come un’aggressione e quando esso raggiunge un limite per noi eccessivo, la vita, a partire dalla nostra, é minacciata. O non é forse comune l’espressione: mi dispiace da morire?
Parentesi: lasciamo da parte per il momento il caso particolare di chi può provare piacere nell’infliggere o nel subire sofferenza.

Le cose e gli oggetti
Non vi é molto di superfluo in certi spettacoli della natura o in certe armonie di suoni che possono muovere in noi emozioni indescrivibili.
Vi é invece nel mondo, non si sa dove perché diffusa dappertutto, una misteriosa qualità che chiamiamo bellezza e che si può esprimere in tanti modi: in un gioiello o in un tramonto, in un volto, in una melodia o nel canto di un poeta, in un manicaretto prelibato o in un quadro e così via.
Esisterebbe la bellezza senza l’essere umano? Non possiamo dirne nulla salvo che l’idea di bellezza ha le sue radici nell’intimità più profonda di ognuno di noi.
Le cose che ci piacciono, le cose belle per noi, diventano tali perché si animano, perché possiamo renderle vive con la nostra emozione, proprio quella che se da un lato fa di noi delle bestioline impressionabili, dall’altro rende le inerti, vuote, banali cose del mondo oggetti vivi del nostro personale mondo vivente.
Quando, all’inizio della nostra vita, come bestioline, cominciamo a provare qualcosa, un’emozione diciamo, in primo luogo nel corpo senza sapere di cosa si tratti, lo colleghiamo a ciò che percepiamo, che sentiamo, che vediamo. Consideriamo ciò che viviamo come una relazione concreta con le “cose” del mondo e riteniamo che quello che proviamo ci venga da lì, da fuori. In questo modo le nostre emozioni più primitive e profonde costruiscono legami, rapporti emotivi, vivi, che ci uniscono alle “cose” in modo molto intenso, vitale perché le animano. Se veniamo privati di quelle prime cose che sperimentiamo come vive perché a loro attribuiamo quello che proviamo, noi ci sentiamo letteralmente in pericolo di vita.

Piacere e dispiacere: breve nota
Mi sentirei quindi di dubitare del fatto che la cupezza dei tempi sia il frutto della perdita del superfluo.
Da un lato credo che superfluo e bello non vadano necessariamente insieme, dall’altro mi pare invece che ci manchino cose belle, manchi fortemente la bellezza e il piacere che essa ci procura.
Il piacere é sempre gradevole, ma non é tutto così semplice come potrebbe apparire.
Infatti se il dispiacere ci pare assolutamente da evitare, concedersi il piacere, farne una caratteristica del vivere proprio e altrui rimane un’arte estremamente difficile.
In fondo noi tendiamo a considerare il piacere con sospetto, con diffidenza. Il piacere di vivere prende facilmente tinte oscure, indicazione di tendenze quanto meno ambigue se non pericolose e/o peccaminose.
Siamo facilmente preda dell’idea che finiremo per pagarla e la favoletta della cicala e della formica é esemplare in questo senso.
Però, a ben pensarci, sarebbe forse necessario capovolgere il ragionamento: normalmente noi tendiamo a trascurare il nostro personale piacere di vivere, non lo coltiviamo molto e per giustificare questa trascuratezza ci siamo inventati la favoletta che in qualche modo ci giustifica.
Coltivare il piacere di vivere può assumere le forme più varie: il modo di occupare il nostro tempo, di intrattenere i nostri rapporti, di concederci occasioni di svago, di incontro, di amicizia, di contatto, emotivo, psicologico e fisico.
Invece siamo spesso presi da altri interessi, forse appunto troppo attratti dalle illusioni del superfluo. La favola appena ricordata ha molto a che fare con questo perché allude all’incapacità di porsi dei limiti, di assaporare il piacere di quello che si possiede e di custodirne con molta cura il possesso affinché non lo perdiamo.
Da questo punto di vista mi sembra che vi sia ben poco di piacevole nel superfluo in sé, mentre é sicuro che esso può diventare occasione di creare bellezza come si potrà dire meglio un’altra volta.

GROW di Daan Rosegaarde esalta la bellezza dell’Agricoltura

Superfluo e bellezza
Eppure, in fondo, nella media non si può dire che lo scrittore abbia completamente torto.
Forse, come egli scrive citando un personaggio a qualcuno già noto, la Signora Dalloway, una creazione di V. Woolf, non si può amare la vita con gravità.
Mrs. Dalloway é una “soave” creatura appena scampata a una grave malattia. Essa possiede un’unica qualità: sa organizzare bene feste, piacevoli incontri. Una festa é una cosa inutile in fondo. Superflua dunque?
A ognuno di giudicare: una festa é un’offerta gratuita, é il piacere di offrire qualcosa di piacevole. Insomma é una cosa forse anche inutile, ma certamente bellissima.
La frugalità che i tempi ci impongono é privazione di cose superflue o eccesso di cose grigie, opprimenti e quindi brutte, mancanza di cose anche inutili da un punto di vista utilitaristico, ma a volte bellissime? Privazione di bellezza, inutile magari, ma quanto piacevole e dunque necessaria?
Insomma, chiedendo scusa allo scrittore: ci manca il superfluo oppure ci manca il piacere che il bello porta con sé? A ognuno la sua scelta, ma non é per caso questo che oggi ci rende la vita difficile e ci lascia, tutti, un poco ammaccati?
Mi pare francamente “superfluo” porre queste domande in questo luogo, frequentato da persone che, per la loro non breve esperienza, sanno bene come non vi sia nulla di superfluo in ciò che ci dà vita e come invece anche le cose più chiassose e sgargianti, quando non portino in sé un contenuto di umanità, siano perfettamente superflue ossia inutili.

Conclusione provvisoria
Pure su un punto mi pare che il superfluo, o potremmo chiamarlo anche “opulenza”, ha una sua importanza per le sue conseguenze che ne possono derivare.
Il superfluo può avere a che fare con la bellezza, può nutrirla, a condizione però che chi lo possiede non ne faccia uno scopo, ma un mezzo. Basti pensare al rapporto tra mecenatismo e arte attraverso la quale il bello entra nelle nostre vite tramite oggetti che hanno in sé qualcosa di magico: il potere di procurarci piacere.
Cosa é questo piacere che ritorna?
Come mai un oggetto é in grado di procurarci piacere? Quale miracolo esso é in grado di operare?
Gli antichi pensavano che una statua raffigurante una divinità fosse in grado di esaudire desideri, concedere grazie, evitare dolori. Univano in quell’oggetto grazia estetica, potere benefico, capacità di scongiurare il dispiacere e di rendere piacevole la vita.
Noi consideriamo feticci quelle statue e ne manteniamo solo il valore artistico, quando esiste, o di documentazione.

Gli scacchi con i baffi, un omaggio a Duchamp: Bello e Superfluo?

Tuttavia, come loro, anche noi abbiamo i nostri feticci: cellulare, vestito o scarpe, uno dei mille gadget più o meno sofisticati che ci sono continuamente offerti come qualcosa in grado di cambiare la nostra vita, di renderci felici
Tutte queste cose ci sono offerte insistentemente per il piacere che dovrebbero procurarci, come qualcosa in grado addirittura di cambiarci la vita.
Ma perché, pur sapendo che non può essere così, noi le cerchiamo?
In realtà questo é per noi il modo di realizzare desideri profondi, quelli di ritrovare quegli oggetti primitivi ai quali colleghiamo la nostra vita stessa. Quelle cose si animano, diventano come creature viventi, parte di noi stessi.
Così noi soddisfiamo i desideri titanici, sconfinati, immensi della nostra prima infanzia, quando il tutto sembra sempre a portata di mano e la felicità non sembra avere limiti.
Soddisfiamo i nostri desideri nella fantasia, come bambini che stanno a bocca aperta di fronte alle meraviglie di un teatrino dove marionette e burattini, maschere e personaggi ci raccontano favole. Per vedere questi spettacoli siamo volentieri disposti a pagare.
Toglieteci il nostro spettacolo, il teatro della vita, il nostro teatro personale e ci sentiremo subito tristi e sconsolati.