Ritorna Strehler, a vent’anni dalla morte

Pubblicato il 2 Novembre 2017 in , , da Laura Bolgeri

Per due mesi, fino alla fine di dicembre, Milano celebra Giorgio Strehler con una serie di iniziative che ricordano il nostro grande regista, che ha dato vita a spettacoli che fanno parte della storia del teatro europeo.

Il Piccolo Teatro ha in programma incontri, letture, proiezioni di filmati e mostre sia nella sede storica del teatro di via Rovello, nato nel 1947 e ribattezzato Piccolo Teatro Grassi, e nell’adiacente Chiostro intitolato a Nina Vinchi, sia Nel Teatro Studio, inaugurato nel 1986 e noto come efficiente teatro sperimentale. Nel foyer del grande Teatro Strehler di largo Greppi, inaugurato nel 1998 (che Strehler non fece in tempo a vedere compiuto) una serie di manifesti, fotografie, costumi e una videoinstallazione multimediale fanno parte delle manifestazioni.

Molti gli artisti e i personaggi che porteranno testimonianze dirette e filmate del lungo lavoro con Strehler. Per citarne alcuni: Ezio Frigerio, Valentina Cortese, Luciano Damiani, Franco Graziosi, Ferruccio Soleri, Ottavia Piccolo, Giulia Lazzarini, Mina. Fra i primi testimoni Ornella Vanoni, che ha debuttato con Giorgio Strehler al Piccolo Teatro alla fine degli anni Cinquanta con uno spettacolo sulle canzoni ispirate a vecchie ballate dialettali, fra cui la struggente canzone “Ma mi “, scritta da Fiorenzo Carpi proprio per la voce della Vanoni, e la regia di Strehler. ”Sono nata qui – ha raccontato commossa- l’ho amato tanto, ci siamo amati”.

Io ho incontrato più volte Giorgio Strehler per ragioni di lavoro e ho conservato la registrazione di alcune interviste. Fra cui il racconto straordinario delle sue prime forti emozioni, davanti a uno spettacolo teatrale, che risalivano a tempi molto lontani. Giorgio Strehler bambino in campo San Trovaso a Venezia, la mano stretta a quella di sua madre, guardava incantato un signore vestito di bianco, con guanti bianchi, che dava ordini agli attori. “Era Max Reinhardt – mi ha precisato allora Strehler – uno dei grandi registi europei del teatro del Novecento, che dirigeva la messa in scena de “Il mercante di Venezia “ di Shakespeare. Forse è stata la prima volta che ho visto un regista all’opera – ha  aggiunto Strehler, ricostruendo nei dettagli quell’immagine lontana. A ripescarla dalla memoria era stata la citazione di una frase dello stesso Reinhardt sull’attore: “un uomo che si è messo segretamente in tasca la sua infanzia per continuare a giocare”.

“Nella lingua italiana non abbiamo, come in francese la parola ‘jouer’ o in inglese ‘to play’ che vogliono dire ‘recitare’, ma anche ‘giocare’. Quindi all’attore italiano mancherebbe questa forma di gioco e dovrebbe soltanto recitare – commentava Strehler. Il fare teatro in realtà rimane una grande forma di divertimento, anche se con implicazioni enormi, a volte altissime. Però l’elemento ludico, infantile, il fatto di mettersi a giocare e raccontare delle storie, di questo grande gioco”.

Ero nel camerino di Strehler, nel Teatro Studio, durante una pausa delle prove per la messa in scena del “Faust”, il grande poema di Goethe. Allora quel lavoro era una grande avventura per il regista, che lo aveva impegnato a studiare l’opera per più di due anni. E sarebbe stato un avvenimento per il teatro, quell’opera che Strehler voleva rappresentare integralmente. Ma dopo un lungo lavoro di ricerca e di meditazione ne portò in scena, come regista e attore, affiancato da Tino Carraro, Giulia Lazzarini e una serie di bravi attori, solo una parte, dei “Frammenti”.

Giorgio Strehler era generoso nel parlare di sé, trascinante. E allora abbiamo parlato della sua infanzia: la mamma slava, la nonna francese, il padre austriaco, lui nato a Barcola, vicino a Trieste. “Per l’anagrafe storica sono un mitteleuropeo con una componente francese più segreta che è abbastanza rilevante nella mia vita. Il senso dell’infinito che è proprio dell’anima slava con le sue melanconie e il senso romantico della vita, l’amore per la musica, che sono tipicamente mitteleuropee, si mescolano a un’esigenza di chiarezza che è più francese.  “Mia madre era una delle poche donne che negli anni ’20 suonasse il violino a livelli di buona professionalità. Aveva avuto buoni maestri e successo all’estero. Poi, a un certo punto, ha smesso di suonare in teatro e ha dato lezioni. Sono nato con la musica e ho passato la mia infanzia con la musica da camera. La musica mi teneva compagnia. Ma non pensavo allora di fare teatro lirico. La vocazione per il teatro è nata più tardi, quando già facevo il liceo e quando poi mi sono trovato a fare parte della scuola dei Filodrammatici a Milano. Ed è nata quasi per caso. Jouvet diceva: ‘ci si trova un giorno su un palcoscenico, si recita, si è là. Se ci si resta tutta la vita vuol dire che c’era la vocazione’. Non sono un uomo del piccolo compromesso”.

Come sulla scena Strehler amava raccontare con calore, con enfasi. “A forza di pensare al teatro, a come fare teatro, mi sono ritrovato dall’altra parte della ribalta, a guidare gli altri, pur essendo uno di loro. Io mi sono sempre considerato un attore, distaccato per servizio in un altro ruolo, quello del regista.”

Sono gli anni delle regie giovanili di Strehler con le opere di O’Neill, “Therèse Raquin” di Zola, “Caligola”, di Camus ,”L’albergo dei poveri” di Gorkij  e dei primi successi che lo porteranno a fondare con Paolo Grassi il Piccolo Teatro di Milano. Da allora la storia del teatro di Strehler coinciderà per molti anni con quella del Piccolo e con le regie divenute famose: Shakespeare e “La tempesta”, Goldoni e l’ “Arlecchino servitore di due padroni”, Cechov e  “Il giardino dei ciliegi” con Valentina Cortese nel ruolo di Liuba Andreievna, “una grande figura d’amore, una figura umana che in parte le corrispondeva – sottolineava il regista. E poi “l’Avaro” di Molière con Paolo Villaggio. Ma già alla fine degli anni Cinquanta, Strehler aveva affrontato Bertold Brecht: un teatro impegnato, stimolante.

“Cantavamo in segreto ‘L’opera da tre soldi’ di Brecht. In segreto, come fosse un peccato carnale –  mi ha raccontato Strehler -.  Brecht venne a Milano, al Piccolo, passavamo le notti a parlare dei problemi che si presentavano e a fare teatro. Di quei giorni ricordo le tensioni prima della prova generale, la stanchezza, la presenza amorevole di Brecht durante le prove. Non ricordo quale scena si recitasse allora, forse il pranzo di nozze. So che c’era ancora molto da fare: tempi, movimenti. Andò tutto molto bene. “Ricordo l’incontro con Brecht il giorno prima della sua partenza. Lo trovai nella sua stanza immerso in una profonda meditazione davanti a un grande panettone che gli avevano regalato. Non si decideva a scartarlo. Era rimasto incantato come un bambino – anche Brecht aveva conservato la sua anima da fanciullo – davanti alla grande montagna, avvolta nella carta azzurra con le stelline e il Duomo di Milano in oro.  Si discusse insieme con la figlia sul da farsi e si decise di lasciarlo così, senza aprirlo”.

In un’altra occasione, con la sua voce dai toni morbidi e bassi, la dizione ben scandita, Strehler  concludeva: “il teatro non è altro che la metafora della vita. Senza la vita non si può fare teatro”. “Quindi si deve diffidare di coloro che credono di esaurire tutta la loro esperienza umana soltanto nel teatro. Adoro il teatro, lo amo, ma non ci passo tutta la mia vita. Se così fosse, il teatro conterebbe molto poco, o assolutamente niente per me”. Gli orari del teatro, la vita del teatro vissuta nella totalità come faccio io quando lavoro, non lascia quasi margini alla vita”. “Però io ho sempre avuto la saggezza e la volontà di mettere delle pause per disintossicarmi dal teatro, smettere di andare a letto alle tre, tornare a essere un uomo con una vita normale, ricaricarmi. “ E Strehler allora, dopo le fatiche per il Faust, si è imposto un break ed è partito per un tranquillo luogo di cure talassoterapiche. Un segno di saggezza e di umanità anche questo .

Il grande finale della rassegna che lo celebra sarà il 24 dicembre con la proiezione sulla facciata di Palazzo Reale delle immagini di Giorgio Strehler che recita le “Memoires” di Carlo Goldoni.   

“Goldoni è stato una specie di fratello maggiore col quale ho parlato tante sere… Mi ha sempre aiutato a cercare il mondo, l’uomo e a guardarlo con curiosità, amore e ironia in tutto il suo affanno. Mi ha insegnato un amore implacabile per il teatro.”

E’ un commento di Strehler, che molti ricordano.