Acqua: scenario pre e post referendum

Pubblicato il 10 Giugno 2011 in , da Vitalba Paesano

Tempo di referendum. Abbiamo già deciso se e come votare? In questo articolo  proviamo ad approfondire la materia dell’acqua, che riguarda due dei quattro quesiti referendari. Liberalizzare vuol dire privatizzare? L’acqua diventerà un bene non accessibile a tutti? Cercheremo di dare una risposta a queste e altre domande, per decidere in modo consapevole.

Partiamo dalla normativa vigente per capire come, attualmente, avviene la gestione della nostra rete idrica. La legge 5 gennaio 1994, n. 36, recante “Disposizioni in materia di risorse idriche” (legge Galli), è stata la prima a cercare di dettare  una disciplina organica dell’intero settore, proponendo di innovare il sistema attraverso l’affidamento del servizio a società a capitale interamente pubblico (in house providing); a società mista pubblico-privato, nella quale il socio privato sia stato scelto con gara; a società di capitali attraverso l’espletamento di una gara. La legge aveva previsto anche l’istituzione a livello nazionale di un comitato di vigilanza sull’uso delle risorse idriche, che avrebbe avuto il compito di fissare i criteri del sistema tariffario e di verificare la qualità del servizio. Il decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 (cosiddetto Codice dell’Ambiente, del quale si richiede l’abrogazione di un comma nel secondo quesito referendario) ha, in seguito, sostanzialmente riprodotto i principi generali della legge Galli.

Di recente, l’art. 23-bis del D.L. n. 11/2008 successivamente modificato nel 2009 (Decreto Ronchi) ha distinto tre modalità di gestione: 1) affidata ad un soggetto totalmente privato, scelto con gara, secondo i principi comunitari; 2) affidata ad una società mista, pubblico-privata. Anche qui il socio privato, cui deve essere attribuita una partecipazione non inferiore al 40%, deve essere scelto tenendo conto degli specifici compiti operativi che sarà chiamato a svolgere; 3) affidata in house, cioè ad una società completamente partecipata dall’ente locale. Infine, con riguardo alla gestione del servizio idrico integrato, il Regolamento attuativo del decreto Ronchi ribadisce espressamente il principio secondo il quale restano ferme l’autonomia gestionale del soggetto gestore, la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, nonché la spettanza esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo delle risorse stesse (art. 4, comma 2).

Veniamo dunque ai due quesiti referendari (dei quali abbiamo parlato qui), iniziando col dire che il Decreto Ronchi non riguarda solo l’affidamento della gestione dell’acqua, in quanto è relativo a tutti i servizi pubblici locali e quindi anche al ciclo dei rifiuti e al trasporto pubblico locale. Limitatamente alla questione dell’acqua,  l’articolo 15 ribadisce la “piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche”. Cosa significa? Che l’acqua è un bene pubblico non alienabile. Quando l’ente pubblico affida la gestione del servizio idrico a un soggetto pubblico o privato, non vende l’acqua ma ne affida la  gestione attraverso il mantenimento delle reti e degli impianti. Si consente quindi che la gestione dei servizi sia gestita in un quadro di libero mercato (quindi anche con un nuovo rapporto economico con il consumatore, quanto a tariffe).

Il vero punto di innovazione è la trasparenza nella individuazione del gestore, come recita il testo della legge, “mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità”.

Cosa, in sostanza, cambierebbe se il referendum non raggiungesse il quorum o  vincesse il “no”? Che i Comuni saranno autorizzati ad affidare, a partire dal gennaio 2012, la gestione delle proprie reti idriche a privati, per un investimento complessivo pari a circa 64 miliardi di euro. Capitale necessario ad ammodernare una rete vecchia e assai “sprecona”: su 100 litri di acqua erogati, 47 vengono, in media, persi per strada. Le aziende pubbliche virtuose non perderanno in ogni caso l’affidamento, ma dovranno rispettare alcuni parametri sui quali giudicherà l’Antitrust: chiudere il bilancio in attivo; applicare una tariffa inferiore alla media del settore; reinvestire nel servizio almeno l’80% degli utili; raggiungere costi operativi medi annui con un’incidenza sulla tariffa che si mantenga al di sotto della media del settore.

Aumenteranno le nostre bollette? I promotori del “sì” rispondono positivamente: dei 25 Ato (Ambiti territoriali ottimali) con le tariffe più alte, 21 sono attualmente affidati alla gestione privata (4) o a società miste pubblico-privato (con quota pubblica superiore al 50%).  Le società private potranno investire nell’ammodernamento della rete, ma recupereranno questo denaro dalle tasche dei cittadini ( in molte zone, il disservizio “costa” già parecchio ai cittadini che sarebbero chiamati a pagare un’altra volta un surplus per avere una gestione più efficiente)

I promotori del “no” affermano che mantenere l’attuale inefficienza della rete idrica comporterà ugualmente un aumento dei costi (dal 2000 al 2006, quindi prima della nascita del decreto Ronchi, le tariffe sono cresciute del 47%). Questi ultimi, scaricati sulla fiscalità generale, non avranno la forma di tariffe più alte, ma saranno comunque a nostro carico: non nella bolletta ma nelle tasse.  L’incasso delle bollette non coprirebbe tutti i costi del servizio, ed esso, chiudendo in perdita, aumenterà il disservizio. Infine, poiché la proprietà della rete resta comunque pubblica, non sarebbe il privato bensì l’ente pubblico a fissare le tariffe o a decidere del possibile aumento delle stesse.

Il secondo quesito è relativo all’eliminazione o meno di una componente della tariffa e cioè la remunerazione del capitale investito. Chi sostiene l’abrogazione di questo comma dell’articolo 154 (legge 3 aprile 2006, n. 152) sostiene che non è possibile accettare che il privato, a scapito del cittadino, trattenga l’utile d’impresa fino a un massimo del 7%. Tuttavia eliminando la remunerazione del capitale, nessun imprenditore privato rischierebbe l’investimento.

Ma privato è meglio che pubblico? Questo non si può dire con certezza, come sembrano invece affermare i promotori del “no”. Nella gestione pubblica, dichiarano, si annidano sprechi e clientelismi.

Non resta che documentarsi su come l’acqua sia attualmente gestita nel proprio territorio per riuscire meglio a ipotizzare ogni possibile evoluzione, in entrambe le ipotesi di voto.