La condizione della vecchiaia? E’ più sociale che fisica

Pubblicato il 20 Settembre 2019 in da redazione grey-panthers

“Dottoressa, le posso chiedere una cosa?” Quel vecchio uomo piegato dagli anni e dalla cattiva salute guardò negli occhi Roberta Molinar. “La ascolto” – rispose lei. “Provi a pensare: quanto patirebbe lei a lasciare dopo una vita la sua casa, tutte le sue cose? E adesso immagini: io lo sto facendo dopo molti più anni di quelli che lei ha vissuto nei suoi spazi…”. La dottoressa Molinar è una psicologa che a Torino gestisce dal 2015 il progetto Essere anziani a Mirafiori Sud, azioni quotidiane di sostegno a favore della popolazione over di quel quartiere. L’uomo che le fece quella domanda, racconta, “viveva una situazione non più sostenibile a domicilio e quindi è stato necessario passare a quella che noi chiamiamo istituzionalizzazione, cioè una casa di riposo. Sono scelte dolorose per tutta la famiglia, certo. Ma per l’uomo o la donna di turno, se sono coscienti di quel che vivono, sono drammi che spesso segnano una fase di declino importante. Quella volta gli risposi che sì, farei tantissima fatica anch’io a staccarmi dal mio mondo”.

Possiamo chiamarla esclusione, isolamento, solitudine. Uno stato a volte di fatto, a volte soltanto vissuto come tale, diventato una delle più grandi, se non la più grande difficoltà delle persone anziane. Che poi: da anni si discute della definizione di ‘anziano’ e ogni volta l’asticella dell’età si alza.

L’aspettativa di vita aumenta

L’ultima certificazione è della Società di gerontologia e geriatria: si è ufficialmente anziani non prima dei 75 anni. Anche perché nel giro di pochi decenni abbiamo guadagnato un bel po’ di terreno sul piano delle aspettative di vita. Negli anni Novanta ci si aspettava di arrivare mediamente a 63 anni, adesso l’attesa è di 83 “ma di questi venti in più solo la metà sono anni di vita sani, senza limitazioni funzionali” per riassumerla con il geriatra Carlo Vergani, uno dei più grandi studiosi dei processi biologici dell’invecchiamento. Tanto per dare un’idea: i dati Istat ci dicono che nel 2045 gli over 65 saranno più di 20 milioni (oltre il 30% della popolazione) e gli under 25 meno di 14 milioni. Già oggi le cose stanno così: per ogni 100 ragazzi sotto i 15 anni ci sono 168 uomini e donne oltre i 65. E ancora: il 7% della popolazione (più di 4 milioni) oggi ha oltre 80 anni e, a giudicare dalla pensione che intasca, non è raro che sia costretto a rinunciare a cure e visite mediche. È sempre dell’Istat il dato sulle pensioni medie mensili: al Nord si arriva a 1.018 euro, nell’Italia centrale la cifra scende a 908 mentre al Sud si ferma a 709. Tutto questo indica un elenco infinito di interventi possibili di tipo economico, previdenziale, sociale, ma più di tutto indica l’urgenza di modificare l’assistenza sanitaria. Partendo da un numero: l’80% degli anziani oltre i 75 anni ha a che fare con almeno una patologia cronica legata al decadimento fisico.

 

Il concetto del prendersi cura

“Il nostro sistema sanitario è attento alla malattia acuta, all’ospedalizzazione. E invece — è convinto il dottor Vergani — dobbiamo passare dalla logica della prestazione a quella del prendersi cura di un anziano. Ci vuole assistenza continuativa, serve una visione generale delle sue condizioni, e qui giocano un ruolo fondamentale i medici di famiglia. Però è evidente che la nostra assistenza sanitaria non è ancora organizzata per tutto questo”. Fa fatica, in sostanza, a recepire e adeguarsi a un cambiamento così veloce dell’aspettativa di vita e ai numeri che ne conseguono in termini di vecchiaia della popolazione. Da geriatra e dopo decenni passati a occuparsi di persone molto in là con l’età, Carlo Vergani dice che quando ha davanti un anziano vede spesso “una persona che vuole parlare, che ha bisogno della rete sociale e ha paura della solitudine”. Cita Arrigo Levi: “La condizione della vecchiaia è più sociale che fisica”.

I rischi della solitudine

Essere vecchi e soli, sentirsi abbandonati dal mondo è una delle condizioni che geriatri, psicologi e studiosi della condizione umana ritengono la più insidiosa di tutte per la salute di chi vive l’età della vecchiaia. “Dove non ci sono problemi economici o di salute grave, non essere inseriti in una rete sociale, non interagire e vivere isolati peggiora notevolmente la vita quotidiana, crea sconforto, dolore e certo non aiuta nel prendersi cura di sé” valuta la dottoressa Molinar. Claudio Mencacci, psichiatra e direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano, rende più chiara la necessità delle ‘condizioni relazionali’ (di tutti, anziani e non) con una metafora: “Ciascuno di noi ha bisogno di sapere che il sassolino lanciato nell’acqua crei dei cerchi e che questi cerchi si diffondano. Se però il sassolino lanciato non crea nessun cerchio…”. È la negazione degli stimoli e del coinvolgimento sociale e ne soffrono gran parte di quel 30% di anziani che vivono da soli, fermo restando che il solo fatto di avere una vita da single non equivale a sentirsi o essere soli. Sempre Mencacci: “La solitudine la vedo nell’amplificazione del dolore psicofisico e delle limitazioni della vita quotidiana che con una buona rete di relazioni sarebbero molto più contenuti”. Descrive tutto questo in un suo paziente: “84 anni e una grande sofferenza: aver perduto progressivamente quei contatti, quelle amicizie e quel mondo che piano piano si sta spegnendo e che trascina giù anche lui”.

Detto ciò la domanda è: esiste il lato positivo della medaglia? È sicuro di sì il genetista e scrittore Edoardo Boncinelli che sta per pubblicare (per Solferino) “L’età conquistata”, libro sull’allungamento della vita “che è reale, anche se non tutti lo sanno e si continua a dire che non siamo mai stati così male. Non è vero. Il sogno dell’uomo è sempre stato quello di vivere il più a lungo possibile al meglio possibile, e su questo io sono ottimista. Nel libro quello che dico — e ho coinvolto anche mio fratello che è un sessuologo — è che c’è un’età particolarmente conquistata che va dai 50 ai 75 ed è quella che è cambiata di più, in cui la gente sta mediamente bene”.

 

La longevità in salute

A proposito del pensiero positivo: esiste la cura Berrino, chiamiamola così. Metodo di vita e di salute sul quale insiste Franco Berrino, epidemiologo nonché presidente dell’Associazione La Grande Via che, dice, “si occupa di aiutare le persone a ritrovare la strada per una longevità in salute”. Il suo pensiero parte dal fatto che “il 90% di chi ha più di 65 anni prende quotidianamente farmaci per sopravvivere. Invece — dice — vorrei vedere anziani che non ne prendono. È possibile cambiare le cose in poche settimane, con un sano stile di vita si può morire senza malattie. Noi siamo responsabili della nostra salute: se ti ammali di una malattia invalidante, se finisci su una sedia a rotelle, rovini la vita alla tua famiglia. È ora di riflettere sulle nostre responsabilità”. Un appello per gli individui, il suo. Ma di sicuro qualche riflessione servirà anche a livello socio-politico, se non altro partendo dal fatto che, dopo il Giappone, l’Italia è il Paese più vecchio del mondo. Senile, preferisce dire Duccio Demetrio, filosofo e fondatore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (dalle parti di Arezzo). Che nell’adultità, come la definisce, nota una differenza fra uomini e donne. “Le donne adulte sentono di più il bisogno di riscatto, come se avessero la necessità di recuperare gli anni perduti nella vita familiare e domestica”, dice. Le differenze di genere arrivano fino in fondo alla vita. Una sola sensazione è per tutti uguale: c’è un punto fino al quale si sente il tempo che passa, poi lo si sente finire.

 

Fonte: Giusi FasanoCorriere della Sera, venerdì 20 settembre 2019