Il regista di “Buongiorno notte” e “Rapito” ripercorre in una miniserie per tv e cinema la vicenda dell’autore di programmi popolarissimi, vittima del più grande errore giudiziario degli ultimi 50 anni
“Dunque dove eravamo rimasti?”, con questa frase il 20 febbraio 1987 il giornalista e conduttore televisivo Enzo Tortora ritornava sugli schermi dopo 271 giorni di carcere, 12 mesi di arresti domiciliari, 1 anno da Eurodeputato con i Radicali, una condanna in primo grado a 10 anni di reclusione e 50 milioni di multa per traffico di stupefacenti e affiliazione alla nuova camorra organizzata: una gogna mediatica che fino ad allora l’Italia non aveva mai conosciuto. La sta per rievocare il regista piacentino Marco Bellocchio, che ha girato il primo ciak a Roma nella zona di Via Acireale. Successivamente le riprese avranno luogo anche in Sardegna, Campania e Lombardia.
Il cast della serie tv in onda su Sky e che approderà poi sul grande schermo, annovera attori cari a Bellocchio come Fabrizio Gifuni, nel ruolo di Enzo Tortora, già protagonista di altri 3 lungometraggi: “Esterno notte” che gli è valso il David di Donatello come miglior attore protagonista, e “Rapito” (tratto dal libro “Il caso Mortara” di Daniele Scalise sulla vicenda del bambino ebreo rapito a Bologna nel 1858 per volere del Sant’uffizio). Poi Lino Musella, Romana Maggiora Vergano, Barbora Bobulova, Alessandro Preziosi e Fausto Russo Alesi.
Che sguardo sarà quello di un autore tra i più eretici e anticonformisti del cinema italiano sul caso di malagiustizia più famoso del nostro Paese? “Non ne farò un santino, scaverò dentro di lui in una serie perché un film non può contenerlo. – ha dichiarato il regista in una intervista. Una lunga carriera costellata da riconoscimenti ma anche critiche alla ricerca del lato oscuro della coscienza collettiva italiana, dalla analisi dei fanatismi politici, alle ipocrisie cattoliche e religiose”.
La vicenda Tortora
“Il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese” secondo quello che scrisse Giorgio Bocca, rimane una ferita aperta. Tutto inizia all’Hotel Plaza di Roma: è il 17 giugno 1983, sono le 4 del mattino, Tortora viene prelevato in manette e portato alla caserma dei carabinieri e poi tradotto a Regina Caeli senza avergli risparmiato una passerella infame con le manette. Lo accusavano dei pentiti di mafia (Giovanni Pandico, tirapiedi del boss Cutolo), Pasquale Barra detto “o ‘nimale”, Gianni Melluso, per tutti “il bello”), viene trovata nell’agendina del camorrista Giuseppe Puca un cognome: Tortona con la n illeggibile. Per i procuratori Lucio Di Pietro, Felice Di Persia, e Diego Marmo l’inchiesta è enorme, ma il nome che gli vale avanzamenti di carriera e promozioni è quella dell’autore di trasmissioni antesignane, come “La domenica sportiva”, “Portobello” – con 26 milioni di telespettatori – ma anche di programmi meno noti come “L’altra Campana” del 1981 (inventa il televoto attraverso l’accensione e lo spegnimento delle tv), “Giallo” dove usa il metodo del DNA ancora sconosciuto in Italia facendo riaprire un caso.
855 ordini di cattura (per avere un paragone il coevo Maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra ne coinvolge 475), rinviati poi a giudizio 640, di cui 120 assolti in primo grado e 114 assoluzioni su 191. Nel 1985 Tortora si dimette dal Parlamento europeo (dove era stato eletto un anno prima con oltre quattrocentomila preferenze) e attende la sentenza di assoluzione piena che arriva il 15 settembre 1986, ma le prime avvisaglie del cancro ai polmoni non tardano ad arrivare e il 18 maggio 1988 muore a Milano. Nel 2016 il giornalista Vittorio Pezzuto ne fa un libro, che Ricky Tognazzi trasforma in fiction, visibile su RaiPlay e lo scorso anno la figlia minore Gaia, che il giorno dell’arresto dava l’esame di maturità, riaprono un caso che sembra non riguardarci più.
Insieme alle sue ceneri nell’urna al Cimitero monumentale, proprio sopra la scritta “Che non sia un’illusione” (la frase finale con cui Leonardo Sciascia concludeva il coccodrillo sulle pagine del Corriere della Sera) ha voluto fosse inserita la “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, un monito per coloro che ancora oggi non gli hanno mai chiesto veramente scusa acuendo un dolore che ha lasciato una famiglia devastata. La miniserie di Bellocchio si spera contribuisca a lenire il dolore.
Fonte delle immagini: RaiPlay
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