Situazione tamponi, secondo Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Pubblicato il 25 Maggio 2020 in , da Vitalba Paesano
È chiaro a tutti da tempo: «Per contenere il Covid-19 bisogna testare, tracciare e trattare». Adesso che usciamo di casa, è cruciale isolare subito i nuovi focolai, e quindi torniamo sempre là: al tampone. Funziona così: un bastoncino infilato nel naso, un altro nella faringe, messi in una provetta, e inviati al laboratorio di microbiologia per l’analisi. Da metà marzo a metà aprile questi kit scarseggiavano, ora non più. Eppure, nonostante gli oltre tre milioni di analisi molecolari effettuate, abbiamo capito che — tranne casi eccezionali come il Veneto — nelle Regioni dove il virus è più diffuso il loro numero non è sufficiente a completare un buon tracciamento. Ci sono ex contagiati, che stanno bene, ma attendono da quasi un mese di poter fare il tampone definitivo che consenta loro di tornare a lavorare. Dove sta il problema?

La mancanza di reagenti

Per capire perché il numero dei tamponi non decolla come dovrebbe, bisogna andare a vedere come funziona il processo di analisi, anche per evitare che il problema si riproponga in autunno, quando è possibile una nuova ondata dell’epidemia. Un laboratorio di microbiologia per far marciare bene questo carico di lavoro ha bisogno di personale e un modello organizzativo che funzioni 24 ore al giorno. Ma non basta, perché il meccanismo si inceppa sulla macchina che processa i tamponi.

Cos’è il sistema chiuso

Quelle più diffuse al Nord sono a sistema chiuso: carichi il bastoncino, ed esce l’esito. Sono macchine completamente automatizzate e richiedono una bassissima manualità. Lo svantaggio è che si può utilizzare soltanto il reagente specifico per ogni tipo di analisi (il kit coronavirus è diverso dal kit morbillo) e deve essere della stessa marca della macchina. Le principali sono Hologic, Roche, Elitech, Diasorin, Abbott, Arrow. Per quel che riguarda la produttività, possono processare fino a 800/1.000 tamponi al giorno, se lavorano h 24. Dunque per farne tanti bisogna averne molte; alcune oggi sono diventate difficili da reperire sul mercato, come pure i kit specifici per il Covid-19. Il tema è sempre lo stesso: la Cina è il più grande produttore al mondo di tamponi, reagenti e componenti per le macchine. Tutto il mondo è stato travolto dallo stesso problema e così alla fine nei laboratori ci sono macchine ferme perché hanno bisogno di manutenzione o sottoutilizzate per mancanza di reagenti. Di solito le strutture le noleggiano: circa 20 mila euro l’anno, ma il costo più significativo è proprio il reagente, che in questi mesi è stato abbassato a 15-20 euro per ogni tampone. Con questo sistema chiuso oggi l’ospedale Niguarda di Milano, che processa il numero più alto di tamponi per la Lombardia, fa 1.500 analisi al giorno con 6 macchine. Ma ne arriveranno di nuove e l’obiettivo è arrivare a cinquemila entro giugno.

Come funziona il sistema aperto

L’alternativa sono le macchine a sistema aperto, che sono composte da più pezzi: uno che estrae il contenuto del tampone (estrattore, costo medio 99 mila euro), un altro che lo mette a contatto con il reagente (pipettatrice, da 50 mila euro in su) e un amplificatore per vedere se c’è il virus (99 mila euro). Ha il grande vantaggio di poter usare un reagente generico, che è meno difficile da trovare e può essere adattato in casa per lo scopo che serve. Richiede un maggiore intervento umano, ma non è vincolato a un unico produttore e si arriva a processare fino a 1.800 tamponi al giorno. Le marche più diffuse sono: Hamilton, Roche e Beckman.

Il modello in Italia per questo sistema di analisi è l’ospedale di Padova dove inizialmente il laboratorio di microbiologia, con sei macchine che ogni tanto andavano in tilt, aveva una capacità di analisi di 1.200-1.400 tamponi al giorno. Il 23 marzo, però, ne hanno ordinate altre 4 con un investimento di 700 mila euro. Lo strumento della svolta è una pipettatrice di marca Beckman da 304 mila euro che serve per mettere a contatto il virus con il reagente, e a pieno regime può processare oltre 20 mila tamponi al giorno. Condizione possibile con il personale adeguato, estrattori e amplificatori. Oggi il laboratorio fa intorno alle 5.000 analisi al giorno e l’obiettivo è arrivare a 10 mila. Perché questo sistema non viene adottato in modo più sistematico, per esempio, dalla Lombardia che è la Regione più colpita dal virus e la più attaccata politicamente per il numero limitato di tamponi? La risposta viene affidata a Carlo Federico Perno alla guida del laboratorio di Niguarda: «La Regione considera essenziale mantenere alta la qualità dei test, visto l’elevato numero di casi. Pertanto, in attesa di una validazione dell’Istituto Superiore di Sanità dei sistemi di estrazione tramite “shock termico”, la Regione preferisce al momento continuare ad utilizzare strumenti che diano un numero di falsi negativi più basso possibile. Se e quando tali metodi saranno formalmente validati, saremo i primi ad utilizzarli». Per il virologo del Veneto Andrea Crisanti, la Lombardia risponde parlando d’altro, e per l’Istituto Superiore di Sanità non si è mai posto il problema di sistema aperto (come quello utilizzato dal Veneto e da altri laboratori ospedalieri universitari italiani) o sistema chiuso.

Il numero insufficiente di tamponi

All’apice della diffusione del virus — e prendendo in considerazione la data di esordio dell’epidemia — su 23 Paesi, solo 4 (fra cui Francia e Regno Unito) hanno fatto meno tamponi dell’Italia. Dal 22 aprile al 18 maggio la media italiana è di 98 ogni 100 mila abitanti. Il Veneto 185, la Lombardia 112, l’Emilia-Romagna 107. Questi numeri però comprendono anche i tamponi di controllo al termine della malattia, mentre se consideriamo quelli diagnostici per scoprire nuovi casi, sempre riferiti allo stesso periodo, vediamo che la media in Lombardia per esempio è di 63 al giorno, contro gli 82 del Veneto.

Gli acquisti da programmare

Solo il 12 maggio, a tre mesi dallo scoppio dell’epidemia, nel punto stampa della Protezione civile, il commissario Domenico Arcuri scopre che servono i reagenti e lancia la procedura per le offerte pubbliche: «Abbiamo fatto una richiesta di offerta perché da soli i tamponi non bastano. I reagenti sono un bene scarso nel mondo, in Italia ci sono pochi produttori e spesso non sono italiani». Alla domanda «quali tipi di reagenti comprerete»? Arcuri risponde «quelli compatibili con i 211 laboratori. E saranno le Regioni a indicarmi di cosa hanno bisogno». L’offerta si è conclusa il 18 maggio, siamo al 25 e ancora ci stanno pensando.

Altri ritardi non sono tollerabili, e sarebbe opportuna un’unica strategia per essere in grado di affrontare l’autunno, pianificando ora le macchine che servono, ed ordinarle subito per riuscire ad averle fra tre mesi. Chi vuol continuare con il sistema chiuso deve stabilire ed ordinare adesso anche la quantità di reagenti specifici necessari. Sperando di trovarli. Altrimenti si ricomincia da capo.

Fonte “Corriere della Sera”, 25 maggio 2020,

“Pochi tamponi in Italia Ecco qual è l’ostacolo”
di Milena Gabanelli e Simona Ravizza