“Vela al vento”

Pubblicato il 21 Gennaio 2019 in , da redazione grey-panthers

“VELA AL VENTO” di Anna Bigatti, Camilla Forti, Silvia Ronzani

Mi guardo allo specchio e non mi riconosco: un viso rugoso che sole, vento e mare hanno inciso. Per non parlare dei capelli: sono diventati così stopposi che ho solo la possibilità di fare la treccia. E’ difficile con al fianco un uomo più giovane, anche se lui è convinto che le rughe enfatizzino la mia bellezza e diano risalto alla mia personalità e dopo vent’anni mi ama ancora come il primo giorno.

E la luce! Non riesco più a stare al sole. Anche con i miei enormi occhiali e il mio cappellaccio a  larghe tese, sto male.

Ma la priorità sono le foto: avrò almeno una cinquantina di rullini, fatti negli ultimi sei mesi nel sud-est asiatico, e devo assemblarle al testo di Pietro.Il National Geographic mi ha sollecitato più volte, oltre ad averci versato un congruo anticipo: devo assolutamente spedire tutto, anche perché ormai siamo al verde e la cosa è diventata urgente.

Strana la vita: il mio hobby preferito, che il Notaio ridicoleggiava, anche se poi con la sua consueta generosità mi aveva regalato tutto l’occorrente per un fotografo professionista – Nikon, con relativi obiettivi, flash, filtri, cavalletto e relativa custodia –  era diventato un introito importante, che mi permetteva di lavorare gomito a gomito con Pietro, facendomi sentire, per la prima volta,  preziosa e insostituibile.

Ma il mio Peter Pan non si preoccupa, il mio bel pirata vive in un altro mondo e io, che mai nella vita mi ero occupata di soldi, adesso devo non solo far quadrare il bilancio, ma anche occuparmi della contabilità.

Inoltre, i clienti che desiderano solcare oceani e gettare l’ancora in luoghi esotici sono diminuiti e  gli incassi di conseguenza.Sotheby’s ormai ha venduto tutti i miei preziosi gioielli, mi rimane la fede di diamanti, che  Andrea mi aveva regalato al battesimo di Giacomo. Ormai mi è chiaro, non la venderò mai:  il suo valore sentimentale è troppo alto.

Altro problema importante, Pietro ha insistito per  questo albergo a cinque stelle: dodicesimo piano, suite con terrazza vista mare. So perché: vuole regalarmi il lusso che avevo in passato. Peccato non abbia ancora capito che non ne sento affatto il bisogno. Quello che mi dona è ogni giorno una scoperta, un nutrimento per la mia mente, per la mia anima . . . e per il mio corpo.

Allora è deciso: prima tappa le foto e poi il parrucchiere, ma quanto mi pesa uscire e camminare!

“Costanza!!! … Costanza …. sto malissimoo…”

E’ entrato in camera, bianco cadaverico, nonostante l’ abbronzatura:

“Chiama l’ambulanza! Credo di avere un infarto… “. E sviene.

Finalmente ho terminato: sono diciotto  ore che sono in piedi,  senza un attimo di tregua. Devo nell’ordine: pisciare, bere, mangiare, farmi una doccia e dormire… E mentre cerco la moto e indosso il casco, dal pronto soccorso esce di corsa Marta.

“Giacomo! C’è un’emergenza! Hanno appena portato un uomo con infarto in atto!”

Mi giro con tutta la stanchezza che irrigidisce il mio corpo e gli occhi arrossati per la mancanza di sonno.

“Adesso basta, per oggi ho finito”.

Ma Marta mi raggiunge e alzando la visiera:

“Giacomo non puoi andare. Mi manda il primario, che sta entrando in sala operatoria per un trapianto, rammenti? Questo è il suo amico Pietro Marinoni, te lo affida”.

Sai quanto me ne frega. Per me può anche schiattare, ma lei è tenace e, mio malgrado, eccomi nel reparto rianimazione, con tutti i paramenti del caso.C’è un grande caos e paura: sono in molti intorno al paziente e avere per le mani il raccomandato del primario non aiuta.Eccolo il gran pezzo di merda che ha spezzato il cuore a mio padre e mi ha reso quell’animale dal cuore di pietra che sono diventato. Pietro… non sai da quanto aspettavo questo momento. Adesso finalmente ti vedrò morire.

Guardo negli occhi, a uno a uno, i miei colleghi che rispettosamente si sono fermati e aspettano mie istruzioni, che tardano ad  arrivare e il cuore ha smesso di battere…

Le porte si spalancano e irrompe Giovanni,  il mio più caro amico dagli anni dell’università, sa tutto di me e, istruito da Marta, come sua abitudine mi para il culo, afferra il defibrillatore e:

Libero! Pum, prima scarica senza alcun risultato.

Libero! Pum, seconda scarica,

“Vuoi vedere che si avvera il mio sogno?”

Libero!!! Pum, e il bastardo ricomincia a respirare.

“Ottimo ragazzi!!”

È  Giovanni, che mi guarda soddisfatto e, strizzandomi l’occhio:

“Giacomo, c’è la moglie che attende fuori, vai tu a tranquillizzarla”.

No, non posso. Anche se sono passati vent’anni, non me la sento di incontrare mia madre.Ma non posso rifiutare e… la vedo. Ah Costanza, sei ancora bella, proprio come ti rammento. Quando alla sera, prima di uscire con papà, lasciandomi con la tata di turno, passavi a darmi il bacio della buona notte: truccata, elegante, ingioiellata e il profumo…oh il profumo, è ancora nelle mie narici.Ho voglia di vomitare  e di girare sui tacchi, ma lei ha incrociato i miei occhi e, mentre mi avvicino,  vedo le sue lacrime che incominciano a colare, copiose.

Sono quasi quattro ore che vado avanti e indietro: vedo passare dottori e infermieri, tutti di corsa, tutti molto impegnati e nessuno che mi dica qualcosa. Ah, finalmente il primario, grande amico di Pietro, arriva, mi abbraccia e mi illustra la situazione.Sapendo che è un cardiochirurgo di fama internazionale, non capisco e glielo chiedo, come mai non sia lui a occuparsi di Pietro.

“Semplice mia cara, è nelle mani del mio alunno migliore, che sarà anche il mio sostituto a venire, il dottor Giacomo Siniscalchi. Eccolo che arriva, adesso ti posso lasciare”. Mi bacia e se ne va.

Mi giro e incrocio gli occhi del mio bambino: lo riconosco…aveva solo dodici anni quando l’ho abbandonato! E  il rimorso, soffocato in tutti questi anni, mi artiglia lo stomaco e non mi lascia più.E lacrime, tante,  adesso rotolano finalmente sul mio viso.

Era un tardo pomeriggio di inizio primavera. Il tempo era così bello e invitante che Costanza  aveva deciso di uscire prima dallo studio: cosa piuttosto inusuale per lei. Ma dopo quella orribile riunione di équipe del primo pomeriggio aveva bisogno di riprendersi, di recuperare il suo umore di solito allegro. Era sgusciata fuori dallo studio in centro a Genova e si era incamminata lentamente tra i carrugi. Cielo sereno luce luminosa tersa brezza sapore di mare, gabbiani in volo in cielo, vento che si allarga nei viali più ampi.

È troppo presto per andare subito verso casa, suo marito sarà  ancora per un po’  nel suo studio, suo figlio dopo la scuola andrà a casa di un compagno a studiare e poi resterà a cena e forse anche a dormire da lui.

Passa davanti alla libreria Feltrinelli, aperta da poco a Genova. È  in corso un dibattito, viene presentato alla presenza dell’autore un libro sul suo recente viaggio all’isola di Sant’Elena. Strano, pensa  lei, la sala è strapiena, la gente è davvero particolare, a certi dibattiti su cucina e ricette compaiono solo poche casalinghe deluse e per un libro di viaggio di uno scrittore semisconosciuto su un’isola ignota, anzi forse solo nota per essere stata ospite degli ultimi giorni di Napoleone, si ammassano in gran numero giovani vecchi donne uomini. Bene, ecco l’occasione che cercavo.

Anche lui rispondendo alla prima domanda corre  con lo sguardo lungo  la sala strapiena e i loro occhi si incontrano si sfiorano si cercano si ritrovano.

Molte domande ancora cui segue il rito del firma copie. Infine la gente comincia a uscire, lei si aggira con aria assorta tra gli scaffali, lui si infila sciarpa e cappotto, la cerca, la vede, le si avvicina. Escono insieme.

Ormai è sera avanzata, ancora soffia quel vento odoroso. Si presentano.

“Costanza, architetta urbanista, contralto”.

“Pietro, viaggiatore e scrittore, baritono, cittadino del mondo”.

Camminano lentamente affiancati, le mani si stringono, gli occhi si incontrano, le gambe ritmicamente si sfiorano e si allontanano, la musica del cammino insieme. Costanza vorrebbe che non finisse mai, ma sa che suo marito l’attende. Un ultimo sguardo, un sussurro:

“Vediamoci domani a Boccadasse”. E scompare nel dedalo dei carrugi.

È una luminosa giornata di sole. Il cielo è limpido, piccoli cirri si inseguono in lontananza.Odore di salmastro. La baia è quasi deserta. Due pescatori seduti su sgabelli di legno stanno riparando le loro reti.

Pietro è già lì che l’aspetta appoggiato alla chiglia di una vecchia barca azzurra. La vede arrivare. Alta, flessuosa, capelli biondi scompigliati da una lieve brezza, si guarda intorno, poi si dirige verso di lui quasi correndo. Il suo corpo forte e muscoloso l’accoglie e l’abbraccia, le mani si stringono, le bocche si cercano e si incontrano. Come ritrovare qualcosa che ti è sempre appartenuto. Poi si staccano e si fissano negli occhi in una mutua promessa: mai o per sempre. Prendono a camminare lentamente sulla spiaggia, si sussurrano parole d’amore. Trovano un anfratto protetto dal vento. Gli abbracci si fanno più stretti, le carezze più intime,  le bocche più vicine, i respiri più affannosi. I loro corpi si uniscono e si fondono. Un oceano nel quale si immergono insieme e dal quale riemergono solo molto tempo dopo. Si guardano, nessun pentimento, solo allegria mista a stupore. Sanno che da quel momento si appartengono…per sempre.

Non è facile trovare un posto all’ombra su una barca. Il sole si infiltra in modo invadente anche nei punti più riparati. Sono stanca di questo caldo continuo e senza tregua, ma mi consola che ora, dopo diversi anni, torneremo a Genova, dove è già autunno, e potrò godere finalmente del fresco e dell’alternanza delle stagioni. Il mio fisico ne ha un reale bisogno.

Genova: la mia città natale, la città in cui ho studiato, lavorato, mi sono sposata, ho avuto mio figlio Giacomo. Andrea, dopo la mia separazione, di cui non ha capito – e non ha voluto comprendere – i motivi, sentendosi tradito e abbandonato, non mi ha più permesso di vedere Giacomo, anche nei miei rari ritorni in Italia. Come sarà ora?  Pensiero costante e indimenticabile, che fa da sfondo alla mia vita.

Saluto l’Indocina, in cui siamo stati anche quest’anno per portare un gruppo di turisti che abbiamo poi lasciato a un ritorno autonomo in aereo. E così possiamo restare soli a goderci questo percorso verso un porto sicuro, dove lasceremo la barca fino al nostro prossimo viaggio in Malesia e Filippine.

Addio – o meglio arrivederci – a una terra che amiamo. Ho iniziato ad amarla fin dal momento in cui lessi il libro di Pietro, acquistato durante il nostro primo incontro. Lui allora presentava il suo ultimo scritto sull’isola di S.Elena, ma io mi sentii attratta da un altro suo libro esposto sugli scaffali, che narrava dei suoi viaggi in Indocina, mitica terra di sogni, in cui fino ad allora  non ero mai stata. Ricordo che lo lessi tutto di un fiato e sentii che chi aveva scritto quel libro apparteneva al mio mondo, per la comunanza del nostro sentire. Sentii anche che la sua vita era la mia vita, la vita che avevo sempre desiderato. Pietro sapeva trasmettere le sue emozioni e con esse l’intima anima della vecchia Indocina, luoghi che sanno di antiche leggende, paesi oltre il tempo, costumi e tradizioni che raccontano una profonda spiritualità.

Mi innamorai subito di questi luoghi e con essi di Pietro.

Durante gli anni di intensa e profonda passione del nostro amore, in cui abbiamo girato il mondo ormai diverse volte, la curiosità, l’attenzione e il fascino del viaggiare non ci ha mai abbandonato. Viaggiare per noi ha un valore che ci riempie di conoscenze e di significato. Purtroppo, per poter mantenerci e guadagnare un po’, siamo stati costretti spesso a viaggi con turisti noiosi, disinteressati, talvolta chiassosi o addirittura irrispettosi.

Ma in momenti come questi, in cui Pietro e io siamo vicini, in silenzio e ci facciamo pervadere dagli odori, suoni e colori, che ci circondano, ritroviamo il senso di questa vita particolare che abbiamo scelto.

Osservo le figure femminili aggraziate che si muovono lungo le sponde del fiume, affaccendate in continui e incessanti lavori agricoli o domestici, e mi chiedo ancora una volta come possano essere sempre così sorridenti. Ho imparato ad apprezzare queste popolazioni genuine e ospitali che si integrano con il paesaggio meraviglioso dalle sconfinate distese verdi delle risaie, le valli incantate e lo scorrere lento dei fiumi.

E queste sensazioni si uniscono a tante altre, che in questi anni ho vissuto in altri viaggi. Mauritius, un’isola ricca di natura e spiagge incontaminate, resta sempre nel mio cuore. E poi la storica Cuba con le sue fantastiche spiagge e il mare caraibico: il suono della musica e il calore della gente.

I nostri primi viaggi erano limitati al Mediterraneo, poi il Portogallo e le Azzorre, che mi affascinavano con la sensazione unica di sentire, tutto intorno, la presenza e la potenza dell’Oceano. Navigavamo magari per giorni ed ecco, all’improvviso, in lontananza, s’innalzava maestoso lo spruzzo delle balene nell’azzurro intenso del mare. La nostra solitudine si popolava delle creature del mare e del cielo che accompagnavano il fruscio della barca.

Questa è la mia vita. Viaggiare sono gli occhi che mi si riempiono di forme e di colori, il cuore che si riempie di emozioni, la mente che si arricchisce di esperienze. Ed è questo che cerco di trasmettere attraverso le foto che continuo a scattare, quasi a fermare questi momenti e tenerli sempre con me. Forse per questo sono apprezzate anche dagli altri.

Ma adesso è finito il tempo dei ricordi, vent’anni  rivissuti in un attimo dentro di me.

Sono nel corridoio dell’ospedale, impreparata di fronte all’incontro più atteso. Impreparata non è forse la parola adatta a descrivere come mi sento. Divisa in due. Da una parte disperata per Pietro, dall’altra ansiosa di rivedere mio figlio. Non è più il piccolo Giacomo che ho lasciato vent’anni fa, al quale non avevo neanche osato comunicare la mia decisione. Di partire, di andarmene, di lasciarlo solo nell’età in cui aveva più bisogno di me per seguire un Amore che mi aveva travolto. Non ci sono parole per spiegare, per chiedere scusa, per implorare… Allargo le braccia in un gesto che vuole dire tutto questo. Il gesto di una madre che non ha mai smesso di amarlo. Mi ritrovo a correre verso di lui.

“Giacomo, Giacomo”! balbetto, mentre i singhiozzi scuotono il mio petto.

Quello a cui mi avvicino è un uomo adulto, bello, sicuro di sé, con lo sguardo di ghiaccio, la bocca atteggiata a un ghigno sarcastico e una mano tesa in avanti, come a volermi impedire di avvicinarmi.

“Non qui, non ora, odio le tragedie”.

Si rivolge a me con tono impersonale e controllato.

“Tuo marito ha avuto un brutto infarto. Forse siamo intervenuti prima che fosse troppo tardi, ma la prognosi è ancora riservata. Per il momento è in rianimazione e non può ricevere visite neanche dai parenti più stretti”.

Non un sorriso. Non uno sguardo di intesa, come a dire ci vediamo più tardi. Niente altro e scompare dietro quella porta a vetri dalla quale era emerso. Ora sono qui lacerata da due dolori. I singhiozzi squassanti si calmano a poco a poco e lasciano il posto a una pena più controllata. Non ho voglia di tornarmene in albergo, mi siedo su una panca di ferro bianco nella  sala d’aspetto della rianimazione per stare vicina a Pietro, ma ripenso a Giacomo. I primi passi, i primi disegni, le prime nuotate, le vacanze in montagna, le partite di tennis, eravamo sempre io e lui. Andrea era troppo occupato dal suo lavoro di notaio.

“Lo faccio per voi, per permettervi una vita agiata e senza preoccupazioni. Io vi penso sempre, anche se non sono con voi fisicamente”, rispondeva invariabilmente quando insistevo perché si unisse a noi.

Poi tutto questo era finito. Il mio amore improvviso e imprevisto per Pietro aveva travolto tutto e aveva trasformato una mamma e moglie serena in un’amante innamorata e avevo trascorso gli ultimi vent’anni trasportata dal vento della passione e del mare.

“Signora, non le dispiace se mi siedo accanto a lei? Sono l’anestesista, ero in sala operatoria con il dottor Siniscalchi. So chi è lei, capisco il suo dolore. So che è duro passare la notte sola su una panchina d’ospedale”.

“La ringrazio, sono le prime parole di comprensione dopo molte ore di angoscia. Ma  lei lavora con il dottor Siniscalchi? Allora lo conoscerà bene. Mi dica qualcosa di lui. Dopo vent’anni di lontananza devo imparare a conoscerlo di nuovo, le rispondo meravigliata, vedendo seduta accanto a me una giovane donna, occhi castani screziati, sguardo dolce, capelli raccolti, camice bianco.Così a poco a poco faccio la conoscenza di Marta. Lei non solo lavora gomito a gomito in sala operatoria con Giacomo, ma è stata per alcuni anni la sua ragazza. Avevano un bel rapporto, fatto di condivisione del lavoro e del tempo libero. Tutto era finito quando lei gli aveva chiesto di andare a vivere insieme. Lui aveva chiuso, senza dare molte spiegazioni. Marta aveva saputo che lui aveva troncato così anche altre volte. Tutte le volte che un rapporto stava diventando troppo vincolante. Lei si era illusa che il loro rapporto fosse speciale, ma evidentemente non era così”.

“Capisco… ” È colpa mia, sussurro, dopo avere ascoltato intenta le parole di Marta, con la bocca serrata, le mani strette a pugno, il corpo contratto.

Dalla finestra si intravedono le prime luci dell’alba. Fa freddo su questa panca di ferro dove sono seduta da molte ore con un abito ancora estivo. Cerco di riscuotermi da questo dormiveglia agitato e angoscioso. Mi sveglia il tocco delicato della mano di Marta che mi porge un bicchierino di caffè. Il calore della bevanda scende benefico nel mio corpo contratto e infreddolito. La ringrazio mentalmente di questo dono insperato, anche se, bloccata da una notte di affanni e tormenti, non riesco quasi a parlare. Dovrei farmi coraggio, reagire allo tsunami che mi si è abbattuto addosso nelle ultime ore. Ma non ne ho le forze. Non so dove trovarle. Come una barca in balia della tempesta senza un timoniere a guidarla, una vela sbattuta dal vento.

Nel silenzio della sala ancora deserta sento il rumore di una porta che si apre, di passi che si avvicinano e una voce maschile calda e decisa:

“Signora, se vuole può vedere per qualche minuto suo marito”.

Lo guardo interrogativa, incapace di reagire. Non capisco se questo invito porti con sé cattive o buone notizie.

“Sono il dottor Giovanni Doriani. Si notano i primi segni di ripresa. Il dottor Siniscalchi ha fatto un buon lavoro. La situazione è ancora grave, ma possiamo sperare. Forse suo marito potrebbe farcela”.

Potrebbe, potrebbe… ripeto sottovoce a me stessa, mentre indosso il camice verde e le soprascarpe, per entrare nel reparto di terapia intensiva.