Racconto di Natale 2012

Il racconto di Natale che abbiamo scelto per voi si riferisce a fatti realmente accaduti, anche se non esattamente il giorno di Natale, ma durante quello che è stato il lungo Natale degli Alpini italiani in Russia. I fatti si svolgono il 26 Gennaio 1943 nel villaggio di Nikolajewka (vedi nota storica alla fine del brano). Il brano è tratto dal libro “il Sergente nella Neve” di Mario Rigoni Stern, Einaudi, 1953.

(…) La nostra artiglieria non spara più da un pezzo. Avevano pochi colpi, li avranno sparati tutti. Ma perché non scende il grosso della colonna? Che cosa aspettano? Da soli non possiamo andare avanti e siamo già arrivati circa a metà del paese. Potrebbero scendere quasi indisturbati ora che abbiamo fatto ripiegare i russi e li stiamo tenendo a bada. Invece c’è uno strano silenzio. Non sappiamo più niente nemmeno degli altri plotoni venuti all’attacco con noi. Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in tutto una ventina. Che facciamo qua da soli? Non abbiamo quasi più munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno munizioni! Ma sento anche che ho fame. Il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta di un’isba. Entro.

Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando intorno alla tavola. Prendono il cibo con un cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mniè khochestia iestj – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla, e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra è venuta con me per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi da il favo e io esco.

Così è successo questo fatto.

Ora lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta deve esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo alcun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me ed i soldati russi, e le donne ed i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’una per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini.

Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà continuare a succedere Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini, e diventare un costume, un modo di vivere (…)

Nota storica

Seconda Guerra Mondiale. Dall’autunno 1942 il Corpo d’Armata Alpino, costituito dalle Divisioni alpine Cuneense, Tridentina e Julia, è schierato sul fronte del fiume Don, affiancato da altre Divisioni di fanteria italiane e da reparti tedeschi, rumeni e ungheresi.

Il 15 dicembre, con un potenziale d’urto sei volte superiore a quello delle divisioni italiane, i Russi attaccano dilagando nelle retrovie ed accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca schierate più ad Est, che devono iniziare una terribile ritirata su un terreno ormai completamente in mano al nemico, e che avrebbe portato alla perdita di circa 55.000 uomini tra caduti e prigionieri. Mentre le Divisioni di Fanteria si ritirano, il Corpo d’Armata Alpino riceve l’ordine di rimanere sulle posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta circondato. Il 13 gennaio i Russi partono per la terza offensiva e, senza spezzare il fronte tenuto dagli alpini, infrangono contemporaneamente quello degli Ungheresi a Nord e quello dei Tedeschi a Sud, circondando il Corpo d’Armata Alpino in una ampia sacca. Rimane un’unica alternativa: la sera del 17 gennaio 1943, su ordine del generale Gabriele Nasci, inizia il ripiegamento dell’intero Corpo d’Armata Alpino. La Divisione Tridentina è l’unica ancora efficiente, quasi intatta in uomini, armi e materiali.

La marcia del Corpo d’Armata Alpino verso la salvezza, passata alla storia come la Ritirata di Russia, è un evento drammatico, doloroso ed allucinante, costellato da innumerevoli episodi di valore e di grande solidarietà, nel corso del quale i militari italiani si battono disperatamente e senza sosta per 15 interminabili giorni e per 200 chilometri. Al termine del ripiegamento effettuato a piedi, con pochi muli e slitte, sempre sotto attacco da parte dei reparti nemici e dai partigiani sovietici, il mattino del 26 gennaio 1943 gli alpini della Tridentina, alla testa di una colonna di 40.000 uomini quasi tutti disarmati e in parte congelati, giungono davanti al villaggio di Nikolajewka, tenuto da una divisione russa costituita da truppe fresche e ben equipaggiate. I Russi sono trincerati fra le case del paese che sorge su una modesta collinetta, protetti dal terrapieno della ferrovia che corre attorno all’abitato. Verso le 9.30 del mattino viene ordinato l’attacco. Si lanciano all’assalto gli alpini superstiti del Verona, del Val Chiese, del Vestone e del II Battaglione misto genio della Tridentina, appoggiati dal gruppo artiglieria Bergamo e da tre semoventi tedeschi. La ferrovia viene raggiunta dopo sanguinosi scontri. Gli alpini riescono a raggiungere le prime isbe dell’abitato. Nonostante le sanguinose perdite continuano a combattere di casa in casa.

La reazione russa è violentissima: gli alpini sono costretti ad arretrare. Verso mezzogiorno giungono in rinforzo i resti dei battaglioni Edolo, Morbegno e Tirano, i gruppi di artiglieria Vicenza e Val Camonica, una parte della Julia e del Battaglione L’Aquila. Si avvicina l’ora del tramonto e diviene evidente che una permanenza all’addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi sotto lo zero, avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte. Quando ormai stanno calando le prime ombre della sera e sembra che tutto sia perduto, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, sale su un semovente tedesco e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di “Tridentina avanti!” trascina i suoi alpini all’assalto.

Il grido scuote la massa enorme degli sbandati che, come una valanga, assieme ai combattenti ancora validi, si lanciano urlando verso il sottopassaggio e la scarpata della ferrovia, la superarono e travolgono la linea di resistenza sovietica. Gli alpini combattono a colpi di fucile e bombe a mano, annientando i difensori annidati nelle case, e costringendo i superstiti a lasciare le posizioni, abbandonando sul terreno i caduti, le armi ed i materiali. L’accerchiamento russo è spezzato, ma il prezzo pagato dagli alpini è enorme: dei circa 48 mila uomini delle tre divisioni alpine ne rientreranno in Italia soltanto poco più di 11.000

 

E ora, cari amici, quale racconto di Natale ci proponete? Qui di seguito potete commentare e inserire oppure inviatecelo a grey-panthers@grey-panthers.it e lo pubblicheremo volentieri. vp

redazione grey-panthers:
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