La casa che ho costruito, di Pio Iglesias

Pubblicato il 31 Gennaio 2010 in , da Vitalba Paesano

La casa che ho costruito, in un momento di sfrenato ottimismo, sta di fronte all’oceano, e dalla sua terrazza, fra la brezza marina e il vocio dei vicini, mi consolo delle inopportunità di questo vivere zingaro. La casa sorge in un quartiere nero, diseredati e marginali i suoi abitanti, poveri; da vendere hanno solo la loro allegria.

Ho costruito qui, lontano dalla civiltà di questa capitale stuprata dal progresso, per avere un angolo dove accucciarmi terminato il dovere della cravatta, del sorriso formale e del sissignore. La casa è modesta, 80 metri di spazio ma, circondata dalle baracche dei neri, sembra un castello. Ho costruito con cemento vero e non con terra seccata al sole. Il terrazzo poi, è rinforzato da maglie di ferro che assicurano la stabilità statica della casa e delle mie paure, niente eternit o fogli ondulati di alluminio recuperati dalle discariche come fanno i più fortunati fra i miei vicini.

La gente del quartiere passa, si ferma e commenta senza fretta, suggerendo, apprezzando e commentando i particolari costruttivi e i fiori e le piante del giardinetto che sono riuscito a comprimere fra il portone e la fossa settica. La maggior parte di loro sono ubriachi già dal mattino, le donne più degli uomini e dal barbiere/calzolaio vicino si alza sempre un buon profumo di liamba.

Io di solito, mi fermo volentieri a rispondere, chiarire, e a progettare con loro possibili futuri migliori. Il mio vicino più prossimo, tanto prossimo che la sua baracca si appoggia illegalmente al muro del mio salotto, coprendomi una finestra, si chiama Cambota ed è un marginale in rapido declino. La sua baracca è una delle più povere, fatta di teli laceri e bastoni recuperati nella discarica che ci circonda, il suo pavimento è spiaggia. Gli ho dato del materiale per coprire il tetto, a me non serviva, ma mi sono guadagnato il suo rispetto e gratitudine. Cambota è un esempio di ottimismo davvero sfrenato. In confronto, le mie pazzie sono ponderate e sagge decisioni. Cambota non ha un lavoro, una professione, una famiglia, troppo povero anche per trovare qualcuno che gli apra le cosce. E’ malato, credo cirrosi, magro e alto, il suo stare eretto, nei giorni buoni, è una sfida alla legge di gravità. Vive di lavoretti saltuari, umili e pagati con gli avanzi del cibo del ristorantino che ci delizia a vento sfavorevole, con il suo odore di funghi misto. Cambota si offre sempre di partecipare a qualsiasi attività si svolga nel suo raggio di azione: tirar le reti da pesca, mescolare il cemento, trasportare acqua, raddrizzare barre di ferro, raccogliere legno dalla discarica. Ma nessuno, di solito, gli dà lavoro, non essendo veramente in grado di farne nessuno, preso dalla sua debolezza di persona affamata e malata.

 Cambota vive in un mondo suo, incurante della realtà in cui sopravvive. In uno dei suoi possibili futuri, si vede proprietario di una vettura che userà come taxi. Ha trovato, nella miniera della discarica, la carcassa di una jeep. La carcassa è veramente in cattive condizioni avendo avuto l’asportabile asportato. Ma lui, rafforzato dalla certezza del suo sogno, l’ha trasporta per più di 100 metri fin davanti alla sua baracca. Ha fatto tutto da solo, i Cambota del mondo non si aspettano favori da nessuno, un lusso cui da tempo hanno rinunciato. Cosi, con pali, scavi, spinte, ha spostato la carcassa, metro per metro, giorno per giorno, fino allo spiazzo davanti alla sua baracca. Ci ha messo quasi un mese, più o meno tre metri al giorno, un lavoro massacrante che ha diluito nel tempo fra le risa dei ragazzini. Adesso la carcassa, arrugginita e orba di vetri e portiere, sta proprio davanti all’uscita della sua baracca.

Ha trovato un telo di plastica nero con cui l’ha ricoperta e tutti i giorni la lava con acqua di mare e la ricopre. Il telo, con l’andare dei mesi, si è lacerato, e adesso sembra più un insieme di nastri che svolazzano al vento come preghiere tibetane.

Al tramonto a volte spunta, malfermo e affamato, ubriaco di malattia e di fame e dell’alcol raschiato dai bicchieri dei ristorantini, e ci parliamo. O meglio lui mi parla e io distratto ascolto.

Ha un futuro meraviglioso: presto troverà un motore da mettere alla carcassa e potrà iniziare a far soldi facendo il taxista. Mi descrive il colore con cui salverà la carcassa dalla salsedine, e dove probabilmente troverà il motore. Parlando scopre sempre la carcassa perché io possa, vedendo, immaginarmi meglio come sarà il suo taxi. Ha una risata leggera, breve, gli occhi febbricitanti, la mano illustra con gesti solenni. Io concedo il tempo di un tramonto, l’affievolirsi della luce lo richiama alla sua baracca senza neanche una candela. Il tramonto assale anche me e come lui, anch’io mi ritiro nella mia casa. Ognuno accompagnato dai suoi sogni e davvero non so, chi alla fine, dorme il sonno più leggero.

Contributo di Pio Iglesias ©