“Il pilota”, un racconto di Frederick Forsyth

Pubblicato il 18 Dicembre 2014 in , da redazione grey-panthers

Un amico, Antonio B., ci “regala” questo racconto. Lo pubblichiamo volentieri, invitando tutti a una lettura che certamente merita, anche se richiederà attenzione e tempo. Sempre meglio che stare in coda ai grandi magazzini in vista del Natale.

“Per un momento breve, in attesa che la torre di controllo mi desse via libera autorizzandomi a decollare, guardai attraverso il tettuccio di perspex dell’abitacolo la campagna tedesca intorno a me. Si stendeva, bianca e gelata, sotto la fredda luna di dicembre.

Avevo alle spalle la recinzione della base della Royal Air Force e oltre la recinzione, come mi era stato possibile vedere mentre voltavo il piccolo caccia verso la pista di decollo, il lenzuolo di neve dal quale erano ricoperti i piatti campi coltivati giungeva sino al filare di pini, lontani oltre tre chilometri nella notte, eppure così nitidi da consentirmi quasi di scorgere le forme degli alberi.

Davanti a me, mentre aspettavo che la voce del controllore mi giungesse attraverso la cuffia, si stendeva la pista, un liscio, nero nastro di asfalto fiancheggiato da una duplice fila di vividi riflettori che illuminavano il varco aperto in precedenza dagli spazzaneve. Dietro i riflettori i cumuli della neve del mattino erano induriti dal gelo là dove le lame degli spazzaneve li avevano sospinti. Lontano, alla mia destra, la torre dell’aeroporto si levava come una candela accesa tra gli hangar ove gli avieri, imbacuccati, stavano chiudendo la base per quella notte.

All’interno della torre di controllo, lo sapevo, regnavano il tepore e l’allegria, e il personale aspettava soltanto ch’io partissi per andarsene a sua volta, balzare sulle automobili in attesa e tornare alle festicciole in corso nella mensa. Pochi minuti dopo il mio decollo, i riflettori si sarebbero spenti, e lì non sarebbero rimasti che gli hangar pigiati gli uni contro gli altri, quasi si raggomitolassero per difendersi dalla notte gelida, i caccia coperti dai teli protettivi, le assonnate autobotti del carburante, e, più in alto d’ogni cosa, la singola e ammiccante luce

di segnalazione della base, di un rosso vivido sullo sfondo dell’aeroporto nero e bianco, mentre comunicava in Morse, lampeggiando, il nome della base – CELLE – al cielo noncurante. Questa notte non vi sarebbero stati aviatori vagabondi intenti a scrutare in basso e a controllare la posizione; quella era la notte della vigilia di Natale, nell’anno di grazia 1957, e io, giovane pilota, volevo tornarmene a casa nella mia vecchia Inghilterra per trascorrervi la licenza natalizia. Avevo fretta e l’orologio segnava le dieci e un quarto al fioco bagliore azzurrognolo del cruscotto ove le file di lancette vibravano e danzavano. Faceva caldo e si stava comodi nell’abitacolo, con il riscaldamento regolato al massimo per impedire al tettuccio di perspex di coprirsi di ghiaccio. Sembrava di essere in un bozzolo, piccolo, tiepido, sicuro, che mi proteggeva dal freddo tagliente all’esterno, dalla notte gelida capace di uccidere un uomo in un minuto se questi si trovava allo scoperto, alla velocità di oltre mille chilometri all’ora.

« Charlie Delta… » La voce del controllore mi strappò alle fantasticherie, risuonando nella cuffia come se lui si fosse trovato con me nel minuscolo abitacolo e mi urlasse all’orecchio. Ha già vuotato una o due caraffe, pensai. Assolutamente vietato, ma che diavolo? È Natale.

« Charlie Delta… Controllo » risposi.

« Charlie Delta, autorizzato al decollo » disse la voce.

Ritenni superfluo rispondere. Mi limitai a portare avanti adagio con la mano sinistra la leva del reattore, tenendo saldamente il Vampire sulla linea centrale con la destra. Alle mie spalle il gemito basso del reattore Goblin si intensificò e si intensificò, tramutandosi in grido e poi in urlo. Il caccia dal muso rincagnato cominciò a rullare, i riflettori a ciascun lato della pista sfilarono in successione sempre più rapida, finché non saettarono come una fascia luminosa ininterrotta e offuscata. Il caccia si alleggerì, il muso si sollevò liberando la ruota anteriore dal contatto con la pista, e il rombo svanì all’istante. Alcuni secondi dopo, le ruote principali si staccarono dal suolo e anche il loro sommesso tambureggiare cessò. Tenni basso il Vampire, lasciando che la velocità aumentasse finché un’occhiata all’indicatore non mi disse che avevamo superato i centoventi nodi e ci stavamo avvicinando ai centocinquanta. Mentre l’ultimo tratto della pista saettava sotto di me, costrinsi il Vampire a una dolce virata ascendente a sinistra, e nel frattempo tirai la leva per sollevare il carrello. Sotto e dietro di me udii il tonfo sordo delle ruote principali che entravano nei loro alloggiamenti, e sentii il balzo in avanti del reattore al cessare della resistenza aerodinamica del carrello. Davanti a me le tre spie rosse che rappresentavano le tre ruote si spensero.

Mantenni il caccia nella virata ascendente, e premetti il pulsante della radio con il pollice sinistro.

« Charlie Delta, decollato, carrello sollevato e chiuso » dissi entro la maschera dell’ossigeno.

« Charlie Delta, roger, passare sul Canale D »disse il controllore, poi, prima che avessi potuto commutare il canale, soggiunse: « Buon Natale ».

Severamente vietato dalle regole, s’intende. Ero molto giovane, allora, e molto coscienzioso. Ma risposi: « Grazie, Torre, e altrettanto a te». Poi commutai il canale per sintonizzarmi sulla frequenza del controllo aereo della RAF della Germania Nord. Alla mia coscia destra era assicurata mediante una cinghia la carta, con la rotta che dovevo seguire segnata in inchiostro blu, ma non ne avevo bisogno. Conoscevo a mente tutti i particolari studiati in precedenza con l’ufficiale di rotta. Vira sopra l’aeroporto fino a rotta 263 gradi, continua a salire fino a novemila metri. Una volta raggiunta la quota, mantieni la rotta e vola alla velocità costante di 485 nodi. Inserisciti sul Canale D per avvertirli che ti trovi nella zona controllata da loro, poi continua sempre diritto sulla costa olandese a sud di Beveland e sopra il Mare del Nord. Dopo 44 minuti di volo passa sul Canale F e chiama il controllo Lakenheath perché ti diano la direzione di avvicinamento. Quattordici minuti dopo sarai sopra Lakenheath. Allora segui le istruzioni e ti porteranno giù con una discesa radiocontrollata. Nessuna difficoltà, procedura normale. Sessantasei minuti di volo, inclusi la discesa e l’atterraggio, e il mio Vampire disponeva di carburante sufficiente per un volo di oltre ottanta minuti. Dopo la virata sopra l’aeroporto a quota millecinquecento, raddrizzai il caccia e vidi l’ago della bussola elettrica stabilizzarsi lietamente su una rotta di 265 gradi. Il muso puntava verso la nera e gelida volta del cielo notturno, punteggiata di stelle così vivide da far baluginare nelle indi la loro luce incandescente. In basso la topografia in bianco e nero della Germania settentrionale andava rimpicciolendo, le scure masse delle foreste di pini si fondevano con le distese bianche dei campi. Qua e là un villaggio o una piccola cittadina sfavillavano di luci. Laggiù, lungo vie festosamente illuminate, si aggiravano i cantori di carole, bussavano alle porte decorate con agrifoglio per intonare Stille Nacht e raccogliere pfennig destinati a scopi benefici. Le massaie della Vestfalia prepravano prosciutti e oche. Oltre seicento chilometri più avanti, le cose non erano diverse; le parole erano nella mia lingua, ma i motivi spesso identici, e, al posto dell’oca, le massaie avrebbero cucinato il tacchino. Ma, lo si chiamasse Weihnachten o Natale, era la stessa cosa in tutto il mondo cristiano, ed era molto bello tornare a casa. Sapevo che da Lakenheath avrei potuto trovare un passaggio fino a Londra sull’ultimo pullman in partenza subito dopo mezzanotte; da Londra, confidavo di poter raggiungere con l’autostop la casa dei miei genitori nel Kent. All’ora di colazione avrei festeggiato il Natale in famiglia. L’altimetro indicava novemila metri. Abbassai il muso dell’aereo, diminuii la spinta affinché la velocità si mantenesse a 485 nodi e tenni il caccia sulla rotta costante di 263 gradi. Sotto di me, nell’oscurità, il confine olandese stava allontanandosi, e io mi trovavo in volo da ventuno minuti. Nessun problema.

Il problema cominciò dopo dieci minuti di volo sopra il Mare del Nord, e cominciò così impercettibilmente che soltanto in capo a parecchi minuti mi accorsi della sua esistenza. Per qualche tempo non mi ero reso conto del fatto che il ronzio sommesso nella cuffia era cessato, per essere Sostituito dallo strano nulla del silenzio assoluto. A quanto pareva, non avevo saputo concentrarmi, mentre tutti i miei pensieri andavano alla casa e alla famiglia in attesa. Mi accorsi di qualcosa quando abbassai gli occhi per controllare la rotta sulla bussola. L’ago, invece di essere stabilmente fisso su 265 gradi, deviava pigramente intorno al quadrante, passando per l’est, l’ovest, il sud e il nord con assoluta imparzialità. Imprecai irosamente, un’ira assai poco in armonia con quel periodo dell’anno, contro la bussola e contro il collaudatore degli strumenti, che avrebbe dovuto accertarne il funzionamento perfetto al cento per cento. Un guasto alla bussola di notte, anche in una vivida notte di luna come quella che splendeva oltre il tettuccio di perspex, non era uno spasso. Ma non si trattava neppure di un inconveniente molto grave; avrei potuto chiamare Lakenheath di lì a pochi minuti, e mi avrebbero dato un GCA, le istruzioni secondo per secondo che un aeroporto bene equipaggiato è in grado di fornire al pilota, consentendogli di atterrare anche con il peggiore dei maltempi, seguendone la rotta su schermi radar ultraprecisi, osservandolo scendere fino alla pista e individuandone la posizione nel cielo metro per metro e secondo per secondo. Guardai l’orologio; ero in volo da trentaquattro minuti. Avrei potuto tentare di mettermi in contatto con Lakenheath sin da ora, dall’estremo limite di portata della radio.

Prima di tentare il contatto con Lakenheath, la procedura corretta sarebbe stata quella di informare il Canale D, sul quale ero sintonizzato, della mia piccola difficoltà, affinché potessero avvertire Lakenheath che stavo volando senza bussola. Premetti il pulsante “trasmissione” e chiamai.

« Celle Charlie Delta, Celle Charlie Delta, chiama controllo Beveland Nord… »

Smisi. Era inutile continuare. In luogo dell’animato crepitio dei rumori di fondo e del suono metallico della mia voce che riecheggiava all’orecchio, udivo soltanto un mormorio soffocato nella maschera dell’ossigeno. La mia voce che parlava.., e non arrivava ‘in nessun posto. Ritentai. Risultato identico. Molto più indietro, oltre le solitudini del nero e pastoso Mare del Nord, nel caldo, allegro edificio di cemento del controllo Beveland Nord, uomini sedevano dinanzi al quadro di comando, appoggiandosi alle spalliere delle poltroncine, chiacchierando e sorseggiando caffè e cioccolata fumanti. E non potevano udirmi. La radio non funzionava. Reprimendo la crescente sensazione di panico, che può uccidere un pilota più in fretta di ogni altra cosa, deglutii e contai adagio fino a dieci. Poi commutai la radio sui Canale F e tentai di chiamare Lakenheath, situata dinanzi a me nelle campagne del Suffolk, nella foresta di pini a sud di Thetford, e mirabilmente equipaggiata con il sistema GCA per consentire l’atterraggio degli aerei smarriti. Sul Canale F la radio risultò silenziosa come prima.

Le mie stesse parole, nella maschera dell’ossigeno, erano soffocate dalla gomma circostante. Non ci fu altra risposta che il sibilo costante del motore a reazione, dietro di me. È un luogo molto solitario, il cielo, e lo è ancora di più in una notte d’inverno. E un caccia a reazione monoposto è una dimora solitaria, una minuscola scatola d’acciaio sostenuta in aria da ali tozze, scaraventata attraverso il gelido vuoto da un tubo fiammeggiante che espelle ogni secondo la potenza di seimila cavalli. Ma la solitudine viene annullata, cancellata, dalla consapevolezza che, premendo un pulsante, il pilota può parlare con altri esseri umani che si occupano di lui, uomini e donne sparsi in una rete di stazioni in tutto il mondo; basta toccare quel pulsante, il pulsante “trasmissione”, e decine e decine di uomini nelle torri di controllo sintonizzate sul suo canale possono udirlo chiedere soccorso. Quando il pilota trasmette, su ognuno di quegli schermi un pennello luminoso scatta dal centro al margine esterno, contrassegnato con numeri da uno a trecentosessanta: i gradi di una bussola. Nel punto in cui il pennello luminoso tocca il bordo esterno, là si trova l’aereo in rapporto alla torre di controllo che lo ascolta. Le torri di controllo sono collegate tra loro: mediante due riferimenti possono individuare dove si trova l’aereo con un’approssimazione di poche centinaia di metri. Il pilota non è più smarrito. In molti cominciano ad adoperarsi per consentirgli l’atterraggio.

Gli operatori distinguono il puntino che il suo apparecchio produce sui loro schermi da tutti gli altri puntini: lo chiamano e gli danno istruzioni. “Inizia ora la discesa, Charlie Delta. Adesso ti seguiamo…” Voci cordiali, esperte, voci che dominano uno schieramento di strumenti elettronici capaci di penetrare il cielo invernale, il ghiaccio e la pioggia, di innalzarsi oltre la neve e le nubi per togliere il pilota smarrito dallo spazio infinitamente grande e micidiale nel quale si trova e portarlo giù fino alla pista illuminata dai riflettori, la pista che significa la casa e la vita.

Quando il pilota trasmette. Ma, per far questo, deve avere una radio. Prima ancora di provare il Canale J, il canale internazionale di emergenza, e di ottenere lo stesso risultato negativo, sapevo che la mia trasmittente a dieci canali era morta come un dinosauro. La RAF aveva impiegato due anni per addestrarmi a volare sui suoi caccia, e per la maggior parte del tempo ero stato addestrato precisamente in vista di situazioni di emergenza. L’importante, dicevano sempre alla scuola di pilotaggio, non è saper volare in condizioni ideali; l’importante è volare in una situazione di emergenza e restare vivi. Ora l’addestramento stava cominciando a rendersi utile. Mentre tentavo invano con i vari canali della radio, scrutavo il cruscotto dinanzi a me. Ogni strumento aveva un suo messaggio da comunicarmi. Non era una coincidenza il fatto che la bussola e la radio avessero smesso contemporaneamente di funzionare; sia l’una sia l’altra erano alimentate dai circuiti elettrici dell’aereo. Sotto i miei piedi, tra i chilometri di cavi vivacemente colorati che formavano i circuiti, doveva essere saltata una delle valvole principali. Rammentai a me stesso, stupidamente, di perdonare il collaudatore e di incolpare l’elettricista. Poi valutai la natura del disastro. La prima cosa da farsi in un caso del genere, ci diceva il sergente istruttore Norris, è ridurre la spinta, passando dalla velocità di crociera a una velocità economica, per poter rimanere in volo il più a lungo possibile.

« E’ inutile sprecare carburante prezioso, non è vero, signori? Potremmo averne bisogno in seguito. Quindi, portiamo indietro la leva del reattore passando da diecimila giri al minuto a settemiladuecento giri. In questo modo, voleremo un po’ più adagio, ma rimarremo in aria più a lungo, non è vero, signori? »Si esprimeva sempre come se dovessimo trovarci tutti contemporaneamente nella stessa situazione di emergenza. Portai indietro la leva del reattore e osservai il contagiri. Ma anche quello era uno strumento elettrico e, quando era saltata la valvola, avevano smesso tutti di funzionare. Mi basai sul suono del motore per stabilire quando il Goblin era arrivato a circa settemila duecento giri al minuto, e sentii l’apparecchio rallentare. Il muso si sollevò appena e io modificai l’assetto di volo per mantenere il caccia in orizzontale. Gli strumenti principali dinanzi agli occhi del pilota sono sei, compresa la bussola. Gli altri cinque sono l’indicatore di velocità, l’altimetro, l’indicatore di virata e di sbandamento (che gli dice se sta virando a sinistra o a destra), l’indicatore di scivolata d’ala (che gli dice se sta scivolando trasversalmente nel cielo) e l’indicatore di salita e discesa (che gli dice se sta scendendo o salendo, e con quale velocità). Gli ultimi tre strumenti funzionano elettricamente e, per conseguenza, si erano bloccati come la bussola. Restavo con i due strumenti azionati dalla pressione, l’indicatore di velocità e l’altimetro. In altri termini, sapevo con quale rapidità stavo volando e a quale quota mi trovavo.

È possibilissimo fare atterrare un aereo con questi due soli strumenti, valutando gli altri dati con quegli antichi mezzi per orientarsi che sono gli occhi umani. È possibile farlo con il bel tempo, alla luce del giorno e senza nuvole nel cielo. È possibile, appena possibile, anche se non consigliabile, tentare di pilotare un velocissimo aereo a reazione servendosi soltanto della vista, guardando in basso e individuando una curva della costa, là dove ha un andamento facilmente riconoscibile, notando un serbatoio dalla forma strana, il riflesso di un fiume che la carta assicurata alla coscia dice poter essere soltanto l’Ouse, o il Trent, o il Tamigi. Volando a una quota più bassa, è possibile distinguere il campanile della cattedrale di Lincoln dal campanile della cattedrale di Norwich, se si conosce a fondo la regione.

Di notte non è possibile. Le sole cose che si vedano di notte, anche in una notte vividamente illuminata dalla luna, sono le luci. Osservate dal cielo, hanno una disposizione tipica. Manchester ha un aspetto diverso da quello di Birmingham; Southampton può essere riconosciuta dalla forma massiccia del porto e dal Solent, profilato in nero (il mare appare nero) contro il tappeto di luci della città. Conoscevo benissimo Norwich, e, se fossi riuscito a individuare la curva protuberanza della linea costiera del Norfolk da Lowestoft, passando per Yarmouth e fino a Cromer, sarei riuscito a trovare Norwich, la sola vasta estensione di luci situata trentadue chilometri nell’entroterra rispetto a tutti i punti della costa. Otto chilometri a nord di Norwich si trovava, lo sapevo, l’aeroporto dei caccia di Merriam St. George, la cui luce di segnalazione rossa avrebbe fatto lampeggiare nella notte il segnale Morse di riconoscimento. Là, se soltanto avessero avuto il buon senso di accendere i riflettori della pista udendo il mio aereo a reazione urlare a bassa quota avanti e indietro sull’aeroporto, sarei potuto atterrare sano e salvo.

Cominciai a far scendere adagio il Vampire verso la costa che si avvicinava, mentre la mia mente andava calcolando febbrilmente di quanto fossi in ritardo rispetto al previsto a causa della riduzione di velocità. Secondo l’orologio, ero in volo da 43 minuti. La costa del Norfolk doveva trovarsi davanti a me, quasi dieci chilometri più in basso. Alzai gli occhi verso la luna piena, simile a un riflettore nel cielo splendente, e la ringraziai per la sua presenza. Mentre il caccia si abbassava verso Norfolk, la sensazione di solitudine mi stringeva sempre di più nella sua morsa. Tutto quanto era parso così bello quando prendevo quota dopo il decollo dall’aeroporto in Vestfalia, sembrava ora far parte dei miei peggiori nemici. Le stelle non erano più imponenti per la loro luminosità; pensai alla loro ostilità mentre scintillavano lassù nello spazio senza limiti e gelido, nelle immensità perdute e senza tempo. Il cielo notturno, con la sua stabile temperatura stratosferica, sempre uguale notte e giorno, una immutabile temperatura di cinquantasei gradi Fahrenheit sotto zero, si tramutò nei miei pensieri in una sconfinata prigione scricchiolante di freddo. Sotto di me si stendeva il pericolo peggiore di ogni altro, la brutalità tempestosa del Mare del Nord, in attesa di inghiottire me e il mio aereo e di seppellirci, per un’eternità senza fine, in una liquida cripta ove nulla si muoveva, né si sarebbe mosso mai più. E nessuno lo avrebbe mai saputo.

A cinquemila metri di quota, e mentre ancora scendevo, cominciai a rendermi conto che un nuovo – e per me l’ultimo – nemico era entrato in campo. Non esisteva alcun mare nero come l’inchiostro cinque chilometri più in basso, né si scorgeva alcuna collana di luci ammiccanti lungo il litorale. In lontananza, a destra e a sinistra, davanti a me e, senza alcun dubbio, alle mie spalle, la luminosità della luna veniva riflessa da un piatto e interminabile mare di bianco. Aveva forse uno spessore di appena trenta o sessanta metri, ma bastava. Bastava per impedirmi completamente la visuale, bastava per uccidermi. La nebbia dell’East Anglia si era formata.

Mentre io volavo in direzione ovest dalla Germania, una lieve brezza, non prevista dal servizio meteorologico, si era alzata, soffiando dal Mare del Nord verso Norfolk. Nel corso del giorno precedente, la piatta e aperta distesa dell’East Anglia era stata congelata dal vento e da temperature inferiori allo zero. In serata, il vento aveva sospinto una fascia d’aria lievemente più calda dal largo del Mare del Nord sulle pianure dell’East Anglia. Là, venendo a contatto con la terra gelida, i trilioni di minuscole particelle di umidità contenute nell’aria di mare si erano vaporizzate, formando quel tipo di nebbia che può cancellare cinque contee in trenta minuti. Sin dove si estendesse verso ovest, non ero in grado di stabilirlo; fino alle West Midlands, forse, sfiorando i versanti orientali dei Monti Pennini? Impossibile tentare di sorvolare la nebbia in direzione ovest; senza gli strumenti di navigazione o la radio, mi sarei perduto su quella regione sconosciuta, non familiare. Altrettanto fuori questione era il tentativo di tornare sull’Olanda, per atterrare in una delle basi dell’aviazione olandese lungo la costa: non disponevo di carburante a sufficienza. Dovendo contare soltanto sui miei occhi per orientarmi, l’alternativa era tra l’atterraggio a Merriam St. George e la mia morte tra i rottami del Vampire in una palude del Norfolk fasciata dalla nebbia. A tremilatrecento metri di quota uscii dalla planata, aumentando lievemente la potenza per mantenermi in aria e consumando in maggior misura il prezioso carburante. Sempre fedele al mio addestramento, ricordai di nuovo le istruzioni del sergente Norris.

«Quando ci troviamo totalmente smarriti sopra uno strato ininterrotto di nubi, signori, dobbiamo prendere in considerazione la necessità di lanciarci dall’apparecchio, non è vero?»

Ma certo, sergente. Purtroppo, il seggiolino catapultabile Martin Baker non può essere adattato ai Vampire monoposto, famigerato perché è quasi impossibile uscirne; i due soli candidati che siano riusciti ci hanno rimesso le gambe. Eppure, dovrà pur esserci un primo fortunato. Che altro, sergente?

«La nostra prima mossa, pertanto, consisterà nel dirigere l’aereo verso l’alto mare, lontano da ogni zona densamente popolata.» Vuoi dire lontano dai centri abitati, sergente. Quella gente là sotto paga affinché noi voliamo per difenderla, e non già perché le scaraventiamo sopra un mostro urlante di dieci tonnellate d’acciaio, la vigilia di Natale. Ci sono bambini, laggiù, scuole, ospedali, case. Bisogna dirigere l’aereo verso il mare. Le regole erano esposte con abilità. Non accennavano ai fatto che un pilota, dondolando nel cuore di una notte invernale in un punto imprecisato del Mare del Nord, la faccia ghiacciata frustata da un vento gelido, tenuto a galla da un giubbotto giallo, le labbra, le sopracciglia, le orecchie incrostate di ghiaccio, in una posizione sconosciuta agli uomini che sorseggiano ponce natalizi in calde stanze lontane cinquecento chilometri, quel pilota ha meno di una probabilità su cento di sopravvivere per più di un’ora. Nei film dell’addestramento ti mostravano immagini di uomini felici, i quali avevano annunciato per radio che si stavano lanciando, e venivano ripescati da elicotteri entro pochi minuti; sempre in una luminosa e calda giornata estiva.

«Un’ultima procedura, signori, alla quale si deve ricorrere nelle situazioni di estremo pericolo.»

Così va meglio, sergente Norris, è la situazione in cui mi trovo io adesso.

«Tutti gli aerei che si avvicinano alla costa inglese sono visibili sugli schermi radar del nostro sistema di preallarme. Se dunque non disponiamo più della radio, e non possiamo comunicare che ci troviamo in pericolo, tentiamo di attrarre l’attenzione del personale addetto ai radar ricorrendo a un comportamento bizzarro. Ci portiamo sul mare, e voliamo tracciando piccoli triangoli, virando a sinistra, di nuovo a sinistra e ancora a sinistra; ogni lato del triangolo dovrà avere una durata di due minuti di volo. In questo modo possiamo sperare di attrarre l’attenzione. Una volta che siamo stati individuati, il controllore del traffico aereo viene informato, ed egli dirotta un altro aereo incaricandolo di trovarci. Quest’altro aereo ha naturalmente la radio. Una volta avvistati dall’aereo di soccorso, ci accodiamo e il soccorritore ci porterà giù, attraverso le nubi e la nebbia, fino a un sicuro atterraggio. »

Sì, era il tentativo estremo per salvarsi la vita. E a questo punto, ricordai meglio i particolari. L’aereo di soccorso, incaricato di guidarti verso l’atterraggio sicuro, volando punta dell’ala contro punta dell’ala, veniva denominato “il pastore”. Guardai l’orologio; ero in volo da cinquantun minuti, mi restava carburante per altri trenta minuti. L’indicatore di livello segnava un terzo di serbatoio. Sapendo di trovarmi ancora a breve distanza dalla costa del Norfolk e volando a tremila metri nel chiaro di luna, feci compiere al Vampire una virata a sinistra e percorsi il primo lato del primo triangolo. Dopo due minuti, virai di nuovo a sinistra, sperando (senza la bussola) di essere in grado di valutare un angolo di centoventi gradi servendomi della luna come punto di riferimento. Sotto di me la nebbia si estendeva sin dove poteva giungere il mio sguardo; e dinanzi a me, nella direzione di Norfolk, era la stessa cosa.

Trascorsero dieci minuti, quasi due triangoli completi. Non avevo pregato, non avevo veramente pregato, per molti anni, ed era difficile riabituarsi. Dio, ti prego, toglimi da questo maledetto pasticcio… no, non devi rivolgerti a lui in questo modo… Padre Nostro, che sei nei Cieli.., aveva ascoltato la preghiera mille volte, l’avrebbe ascoltata altre mille volte quella notte. Che cosa gli si dice quando si invoca aiuto? Ti prego, Dio, fa che qualcuno si accorga di me quassù, ti prego, fa che qualcuno mi veda volare tracciando triangoli e mandi un pastore per guidarmi fino al sicuro atterraggio. Aiutami, per piacere, e io ti prometto… Che cosa avrei potuto promettergli, in nome del Cielo? Non aveva alcun bisogno di me, e io, che ora avevo bisogno del suo aiuto, non avevo pensato a lui per tanto tempo che, con ogni probabilità, Egli mi aveva dimenticato.

Dopo settantadue minuti di volo capii che non sarebbe venuto nessuno. L’ago della bussola continuava a oscillare senza meta su tutti i punti cardinali, gli altri strumenti elettrici non funzionavano, tutte le loro lancette indicavano lo zero. L’altimetro segnava duemila cento metri: mi ero abbassato di novecento metri durante le virate. Non importava. L’indicatore di livello del carburante segnava un ottavo di serbatoio, vale a dire altri dieci minuti di volo. Sentii la furia della disperazione dilagare in me. Cominciai a urlare nel microfono inerte. Stupidi bastardi, perché non guardate i vostri schermi radar? Possibile che nessuno mi veda quassù? Siete tutti così ubriachi, maledizione, da non poter svolgere come si deve il vostro lavoro? Oh, Dio, perché nessuno mi ascolta? La mia collera ora si era placata e io avevo cominciato a piagnucolare come un bambino, sentendomi tanto completamente indifeso in quella situazione. Cinque minuti dopo sapevo, ormai senza ombra di dubbio, che sarei morto quella notte. Strano a dirsi, non avevo nemmeno più paura. Ero soltanto infinitamente triste. Triste per tutte le cose che non avrei mai potuto fare, i luoghi che non avrei mai potuto vedere, le persone che non avrei salutato mai più. E’ orribile, è triste morire a vent’anni, senza aver vissuto la propria vita, e il peggio non è la morte in sé, ma il pensiero delle innumerevoli cose che non si sono mai fatte.

Fuori, attraverso il perspex, vidi che la luna stava tramontando e si librava sopra l’orizzonte di densa nebbia bianca; tra due minuti il cielo notturno si sarebbe tuffato nell’oscurità totale, poi, ancora pochi minuti e sarei stato costretto a lanciarmi dall’aereo moribondo prima che quello si gettasse in un’ultima picchiata nel Mare del Nord. Un’ora dopo sarei morto anch’io, dondolando sull’acqua, cadavere rigido e gelido tenuto a galla dal giubbotto di un giallo acceso. Inclinai l’ala sinistra del Vampire verso la luna per portare l’aereo lungo l’ultimo lato dell’ultimo triangolo. In basso, sotto l’estremità dell’ala, sullo sfondo luminoso del banco di nebbia, tra la luna e me, un’ombra nera attraversò il biancore. Per un momento pensai si trattasse della mia ombra, ma, con la luna da quel lato, l’ombra del Vampire doveva trovarsi dietro di me. Si trattava di un altro aereo, basso contro il banco di nebbia; mi seguiva nella virata, un chilometro e mezzo più in basso nel cielo, verso la nebbia. Poiché l’altro apparecchio si trovava sotto di me, continuai a virare, l’ala in basso, per mantenerlo in vista. Anche l’altro aereo continuò a virare, finché non percorremmo entrambi una circonferenza completa. Soltanto allora capii perché rimaneva lontano da me, perché non saliva fino alla mia quota e non prendeva posizione all’estremità dell’ala. Era meno veloce, non avrebbe potuto seguirmi se avesse tentato di volarmi accanto. Sforzandomi disperatamente di non pensare che si trattasse di un aereo qualsiasi, in volo sulla sua rotta e sul punto di scomparire per sempre nel banco di nebbia, tirai indietro il comando del reattore e presi a scivolare verso l’apparecchio. Continuava a virare e altrettanto feci io. A millecinquecento metri capii che ero ancora troppo veloce per quell’apparecchio. Non potevo ridurre ulteriormente la velocità, temevo che il Vampire andasse in perdita di portanza e precipitasse senza più ubbidire ai comandi. Per rallentare ancora, azionai gli aerofreni. Il Vampire fremette mentre gli aerofreni sporgevano nel flusso, rallentando la velocità a 280 nodi. E allora l’aereo salì verso di me, imbardando verso l’estremità della mia ala sinistra. Riuscii a distinguerne il nero profilo contro il bianco fioco del lenzuolo di nebbia sottostante, poi l’apparecchio mi fu accanto, a trenta metri di distanza dall’estremità dell’ala, e ci rimettemmo insieme in orizzontale, oscillando mentre tentavamo di mantenerci in formazione. La luna si trovava sulla destra e l’ombra del Vampire mascherava la sagoma del soccorritore, ma, ciò nonostante, riuscii a distinguere il baluginio di due eliche che frullavano nell’aria dinanzi all’apparecchio. Per questo non poteva volare alla mia velocità; io pilotavo un caccia a reazione, lui un aereo con motore a pistoni, della generazione precedente.

Mi rimase accanto per alcuni secondi, al lato opposto della luna rispetto a me, semi-invisibile, poi virò dolcemente a sinistra. Lo seguii, mantenendomi in formazione, poiché era ovviamente il pastore mandato a guidarmi, e aveva la bussola e la radio, mentre io ne ero privo. Virò di centottanta gradi, poi si raddrizzò, volando in orizzontale, lasciandosi la luna alle spalle. Giudicando dalla posizione della luna al tramonto capii che stavamo tornando indietro verso la costa del Norfolk e, per la prima volta, riuscii a vederlo bene. Constatai con grande stupore che si trattava di un De Havilland Mosquito, un caccia-bombardiere della seconda guerra mondiale. Ricordai allora che la squadriglia meteorologica a Gloucester si serviva di Mosquito – gli ultimi apparecchi di quel tipo che ancora volassero – per i rilevamenti ad alta quota che contribuivano alla preparazione delle previsioni del tempo. Li avevo veduti nelle celebrazioni della “battaglia d’Inghilterra”, quei piloti, sorvolare le folle con i loro Mosquito, strappando esclamazioni e causando nostalgici scuotimenti di testa nei più anziani, gli stessi con i quali accoglievano, il 15 settembre, gli Spitfire, gli Hurricane e i Lancaster.

Nell’abitacolo del Mosquito riuscii a distinguere, al chiarore della luna, il casco del pilota e i cerchi gemelli degli occhialoni, mentre quello si voltava a guardare dalla mia parte. Adagio alzò la mano destra finché io non fui in grado di scorgerla dietro il finestrino, le dita tese, il palmo in giù. Piegò di scatto le dita in basso, comunicandomi il messaggio: “Stiamo per scendere. Resta in formazione con me” Annuii e rapidamente alzai la mano sinistra in modo che potesse vederla; additai con l’indice il cruscotto, poi tornai ad alzare la mano con tutte e cinque le dita aperte. Infine mi passai la mano di taglio sulla gola.

Convenzionalmente, il segnale indica: mi rimane carburante soltanto per cinque minuti, poi il motore si ferma. Vidi la testa, racchiusa nella maschera dell’ossigeno e occhialuta, annuire in un cenno d’intesa, poi ci gettammo verso il lenzuolo di nebbia. La velocità dell’altro apparecchio aumentò e io feci rientrare gli aerofreni. Il Vampire smise di vibrare e planò precedendo il Mosquito. Tirai indietro la leva del reattore, udendo il motore rallentare fino a un basso sibilo, e il pastore mi seguì. Ci stavamo tuffando direttamente verso la zona di Norfolk fasciata dalla nebbia. Guardai l’altimetro: seicento metri, ed eravamo ancora in planata.

Il Mosquito uscì dalla planata a novanta metri di quota, con la nebbia ancora sotto di noi. Probabilmente il banco di nebbia si innalzava dal suolo appena una trentina di metri, ma era più che sufficiente per impedire a un aereo di atterrare senza il GCA. Potevo immaginare il fiume di istruzioni che, dall’edificio del radar, giungeva nella cuffia dell’uomo in volo accanto a me; eravamo separati da un venticinque metri di spazio, da due tettucci di perspex e da un flusso d’aria gelida in movimento tra noi a 280 nodi. Tenevo gli occhi fissi su di lui, rimanendo in formazione il più vicino possibile, timoroso di perderlo di vista anche soltanto per un attimo, attento a ogni suo segnale fatto a cenni. Contro la nebbia bianca, mentre la luna stava scomparendo, non potei non meravigliarmi della bellezza del suo aereo: il muso corto e l’abitacolo a bolla, la vescica di perspex proprio sul muso, le lunghe, affusolate protezioni dei motori sotto le ali, ognuna delle quali conteneva un Rolls Royce Merlin, un capolavoro della meccanica, ringhiante nella notte verso la base. Due minuti dopo, il pilota alzò accanto al finestrino la mano sinistra chiusa a pugno, poi l’aprì allargando tutte e cinque le dita contro il perspex. Abbassa il carrello per favore. Spostai la leva all’ingiù e udii il tonfo sordo mentre tutte e tre le ruote si abbassavano, azionate, grazie a Dio, dalla pressione idraulica e indipendenti dall’impianto elettrico guasto.

Il pilota del pastore puntò di nuovo in basso per un’altra discesa. Mentre manovrava nel chiaro di luna, scorsi il muso del Mosquito. Vi erano dipinte le lettere JK, grandi e nere. Probabilmente il segnale di chiamata Juliet Kilo. Poi ricominciammo a scendere, più dolcemente questa volta.

Si rimise in orizzontale subito sopra lo strato di nebbia, tanto in basso che bianchi filamenti simili a zucchero filato frustarono le fusoliere, quindi seguimmo una traiettoria circolare e costante. Riuscii a dare un’occhiata all’indicatore di livello; era sullo zero e oscillava debolmente. Per amor di Dio, affrettati, pensai. Poiché, se fossi rimasto in secco, non vi sarebbe più stato il tempo di salire alla quota minima di centocinquanta metri indispensabile per lanciarsi fuori. Un caccia a reazione con il motore spento all’altezza di trenta metri è una trappola che non lascia alcuna possibilità di sopravvivenza. Per due o tre minuti egli parve accontentarsi di continuare lungo la lenta rotta circolare, mentre il sudore mi bagnava la nuca e cominciava a scorrermi a rivoletti giù per la schiena, appiccicandomi alla pelle la tuta di nylon. AFFRETTATI, AMICO, AFFRETTATI.

All’improvviso si rimise su una rotta rettilinea, così fulmineamente che per poco non lo perdetti continuando la virata. Lo raggiunsi dopo un secondo e vidi la mano sinistra di lui farmi il segnale di “picchiata”. Poi si gettò verso il banco di nebbia; lo seguii e ci immergemmo nella nebbia in una discesa breve e dolce, ma una discesa comunque, e da appena trenta metri di quota verso il nulla.

Passare da un cielo sia pure fiocamente illuminato alle nubi o alla nebbia è come immergersi in un bagno di grigia ovatta. Improvvisamente, non esistono altro che grigi e turbinosi filamenti, un milione di filamenti che si protendono per intrappolarti e strangolarti e ognuno sfiora il tettuccio dell’abita-colo con una carezza fulminea per scomparire di nuovo nel nulla. La visibilità era ridotta quasi a zero, nessuna sagoma, nessuna dimensione, nessuna forma, nessuna sostanza. Soltanto, alla mia sinistra, alla estremità dell’ala, ormai a dodici metri appena di distanza, si intravedeva fiocamente il profilo del Mosquito in volo con assoluta sicurezza verso qualcosa che io non riuscivo a scorgere. Soltanto allora mi resi conto che il pilota stava volando senza le luci. Per un secondo rimasi esterrefatto, inorridito dalla constatazione; poi capii quanto era assennato. Le luci nella nebbia sono traditrici, allucinanti, ipnotiche. Puoi sentirtene attratto senza sapere se si trovino a dodici o a trenta metri da te. Si tende ad avvicinarsi; per due aerei nella nebbia, in volo l’uno accanto all’altro, può significare il disastro. L’uomo aveva ragione. Mantenendomi in formazione con lui, capii che stava rallentando, poiché anch’io diminuivo la spinta, mi abbassavo e rallentavo. In una frazione di secondo, diedi un’occhiata ai due strumenti che mi occorrevano: l’altimetro indicava zero, come l’indicatore di livello del carburante, ed entrambe le lancette erano immobili.

L’indicatore di velocità – avevo guardato anche quello – segnava 120 nodi… e la maledetta bara sarebbe precipitata come un sasso a 95 nodi.

Senza alcun preavviso, il pastore puntò l’indice verso di me, poi additò dinanzi a sé attraverso il perspex. Voleva dire: “Sei arrivato. Prosegui e atterra”. Guardai davanti a me attraverso il parabrezza ormai striato d’acqua. Niente. Ma poi, sì, qualcosa. Una chiazza offuscata a sinistra, un’altra a destra, poi due, una a ciascun lato. Con un’aureola di foschia, c’erano luci a entrambi i lati, luci a coppie, e saettavano via. Aguzzai lo sguardo per vedere che cosa si trovasse in mezzo a loro. Nulla, nera oscurità. Poi una striscia verniciata in fuga sotto di me. La linea centrale. Freneticamente, misi il motore ai minimo e mantenni in orizzontale il Vampire, pregando che si posasse. Le luci stavano salendo, adesso, erano quasi all’altezza dei miei occhi, e ancora non ci posavamo. Bang. Toccammo, toccammo la pista. Bang-bang. Un altro contatto, e il caccia era di nuovo in aria a qualche centimetro dalla pista nera e bagnata. Bam-bambam-babam, e un rombo. Era giù, le ruote principali avevano toccato e restavano al suolo.

Il Vampire stava rullando, a oltre centoquaranta chilometri all’ora, in un mare di nebbia grigia. Toccai i freni e anche il muso si abbassò sulla pista. Una pressione lenta, adesso, attento a non slittare, tienilo diritto per evitarlo, più pressione sui freni o usciremo dalla pista. Le luci saettavano via meno velocemente, adesso, rallentavano, più adagio, più adagio… Il Vampire si fermò. Mi sorpresi con entrambe le mani avvinghiate alla cicche di comando, intente a schiacciare verso il basso la leva dei freno.

Ho dimenticato per quanti secondi rimasi in quella posizione, prima di persuadermi che ci eravamo fermati. Infine mi persuasi, applicai il freno di parcheggio e allentai il freno principale. Poi spensi il motore, perché sarebbe stato inutile tentare di rullare in quella nebbia; avrebbero dovuto rimorchiare il caccia con una Land-Rover. Ma risultò del tutto superfluo spegnere il motore; era rimasto in secco mentre il Vampire filava sulla pista. Tolsi tutti gli altri contatti: carburante, freni idraulici, impianto elettrico e di pressurizzazione, e adagio cominciai a liberarmi dalle cinghie che mi trattenevano al sedile e dal paracadute. In quel momento, un movimento attrasse il mio sguardo. Sulla sinistra, nella nebbia, a non più di quindici metri di distanza, sfiorando il suolo, con il carrello ripiegato, il Mosquito mi rombò accanto. Scorsi in un lampo la mano del pilota dietro il finestrino, poi egli scomparve e fu di nuovo nella nebbia prima di aver potuto scorgere il mio cenno di risposta. Ma avevo già deciso di telefonare alla base della RAF a Gloucester e di ringraziarlo personalmente dalla mensa ufficiali. Tolti tutti i contatti, l’abitacolo si appannava rapidamente, per cui liberai il tettuccio e lo spinsi in alto e all’indietro con la mano finché il fermo non fu scattato. Soltanto allora, mentre mi alzavo, mi resi conto di quanto la temperatura era gelida. Contro il mio corpo accaldato, coperto soltanto dalla leggera tuta di nylon, il freddo pareva ghiaccio. Mi aspettavo che il veicolo della torre di controllo giungesse lì entro pochi secondi, poiché, nell’eventualità di un atterraggio di emergenza, anche la vigilia di Natale, l’autopompa dei pompieri, l’autoambulanza e una mezza dozzina di altri veicoli erano sempre pronti a intervenire. Ma non accadde niente, O almeno, non accadde niente per dieci minuti.

Quando i due fari emersero dalla nebbia come se brancolassero, ero gelato. I fari si fermarono a sei metri dal Vampire immobile, minuscoli in contrasto con la mole del caccia.

Una voce gridò: « Ehi laggiù, salve. »

Uscii dall’abitacolo, balzai a terra dall’ala e corsi verso i fari. Risultò allora che appartenevano a una vetusta e ammaccata Jowett Javelin. Non un solo distintivo dell’Air Force era visibile. Dietro il volante della macchina si trovava una faccia gonfia da bevitore di birra, con baffoni a manubrio. Per lo meno, l’uomo portava il berretto di ufficiale della RAF.

Mi fissò mentre, sagoma vaga, emergevo dalla nebbia.

«E’ tuo, quello? » accennando con la testa alla forma incerta del Vampire.

«Sì » risposi. « Sono appena atterrato. »

«Straordinario » disse lui « davvero straordinario. Farai bene a saltar su; ti porto alla mensa»

Mi sentii colmare di gratitudine per il tepore dell’automobile, e ancor più perché ero vivo. Innestata la prima, l’uomo cominciò a fare l’inversione di marcia sulla pista di rullaggio, diretto evidentemente verso la torre di controllo e, più in là, verso gli edifici della mensa. Mentre ci allontanavamo dal Vampire, vidi che si era fermato a sei metri un campo arato, proprio all’estremità della pista.

«Hai avuto un diavolo di fortuna» disse, o meglio gridò l’uomo, poiché il motore stava ruggendo in prima ed egli sembrava incontrare difficoltà con i pedali. A giudicare dall’odore di whisky nel suo alito, la cosa non era sorprendente.

«Sì, un diavolo di fortuna» riconobbi. «Sono rimasto senza carburante proprio mentre atterravo. La radio e tutti gli impianti elettrici si sono guastati quasi cinquanta minuti fa, sopra il Mare del Nord.»

Impiegò parecchi minuti per assimilare laboriosamente la notizia. « Straordinario » disse infine. «Niente bussola? »

«Niente bussola. Ho volato regolandomi sulla luna. Fino alla costa, o dove ritenevo si trovasse la costa. In seguito…»

« Senza la radio? »

« Senza la radio » dissi. « Muta su tutti i canali»

« Allora come lo hai trovato, questo posto? » domandò.

Stavo perdendo la pazienza. Era evidentemente uno di quei tenenti piloti accantonati; non troppo intelligente, probabilmente non volava più, nonostante i baffoni a manubrio. Un pilota addetto ai servizi a terra, e per di più ubriaco. Non sarebbe dovuto assolutamente essere di turno in qualsiasi base operativa a quell’ora della notte.

« Sono stato guidato » spiegai pazientemente. Le procedure di emergenza, avendo funzionato così bene, sembravano ormai ordinaria amministrazione, tale è la capacità di ricupero della gioventù. « Ho volato tracciando brevi triangoli, con virate a sinistra, secondo le istruzioni, e hanno fatto decollare un aereo pastore per guidarmi nell’atterraggio. Nessuna difficoltà. »

Alzò le spalle, come per dire: “Se proprio insisti”. Infine osservo:

« Hai avuto ugualmente un diavolo di fortuna. Mi stupisce che l’altro pilota sia riuscito a trovare il posto. »

« Niente di difficile » continuai a spiegare con pazienza. « Era uno degli aerei meteorologici della RAF di Gloucester. Ovviamente aveva la radio. E così siamo venuti qui in formazione, con un GCA. Poi, non appena vedute le luci all’inizio della pista, ho atterrato. »

L’uomo era ottuso, oltre che ubriaco.

« Straordinario » disse, risucchiando dai baffoni a manubrio una goccia di umidità. « Noi non abbiamo GCA. Non disponiamo di alcun impianto per la navigazione aerea, nemmeno di un radiofaro. »

Toccò a me, ora, assimilare l’informazione.

« Ma non siamo alla base della RAF di Merriam St. George? » domandai, con una voce esile. Lui scosse il capo. « O a Marham? A Chicksands? A Lakenheath? »

« No » rispose « questa è la base di Minton. »

« Non ne ho mai sentito parlare » dissi infine.

« Non mi stupisce. Non siamo una base operativa. Non lo siamo più da anni. Minton è un deposito. Scusami. »

Fermò la macchina e discese. Vidi che ci trovavamo a pochi passi dal vago profilo di una torre di controllo, adiacente a una lunga fila di baracche Nissen, evidentemente adibite un tempo alla preparazione delle missioni. Sopra la stretta porta alla base della torre, per la quale l’ufficiale era entrato scomparendo, pendeva un’unica e nuda lampadina elettrica. Alla sua luce riuscii a distinguere finestre dai vetri rotti, porte chiuse con lucchetti, tutto un aspetto di abbandono e di trascuratezza. L’uomo tornò indietro e, vacillando, si rimise al volante.« Ho soltanto spento le luci della pista » disse, e ruttò. La mia mente era un turbine. Tutto questo sembrava pazzesco, folle, illogico. Eppure doveva esserci una spiegazione assolutamente ragionevole.

« Perché le avevi accese? » domandai.

« Ho sentito il rombo del motore » rispose. « Stavo vuotando un boccale nella mensa ufficiali, e il vecchio Joe mi ha detto di ascoltare dalla finestra per un momento. Tu eri quassù, a girare proprio sopra di noi. Sembravi maledettamente basso, come se fossi stato sui punto di piombare a terra. E allora ho pensato che mi sarei potuto rendere utile; mi è venuto in mente che, smantellando la base, non avevano mai tolto i riflettori della pista, così sono andato di corsa alla torre di controllo e mi sono affrettato a accenderli. »

« Capisco » dissi, senza capire. Ma una spiegazione doveva esserci.

« Ecco perché ho tardato tanto prima di venire a prenderti. Sono dovuto tornare alla mensa per tirar fuori la macchina dopo averti sentito atterrare. Poi è stato necessario cercarti. Dannata notte di nebbia. »

Puoi dirlo forte, pensai. Il mistero mi lasciò interdetto ancora per qualche minuto. Poi trovai la spiegazione.

« Dove si trova Minton, esattamente? » domandai

« Otto chilometri dalla costa, nell’entroterra rispetto a Cromer. Ecco dove siamo » rispose.

« E dove si trova la più vicina base operativa della RAF con tutti gli impianti radio, compreso il GCA?»

Rifletté per qualche secondo. « Dev’essere la base di Merriam St. George » rispose. « Loro devono avere tutti quegli impianti. Io non sono che un addetto ai magazzini, sai. »

Ecco la spiegazione. Il mio sconosciuto amico dell’aereo meteorologico mi aveva guidato direttamente dalla costa a Merriam St. George. Per caso Minton, l’abbandonata e vecchia base di Minton divenuta deposito, con i suoi riflettori coperti di ragnatele e il comandante ubriaco, si trovava proprio sulla rotta di volo per Merriam. Il controllore di Merriam ci aveva chiesto di fare due giri mentre lui avrebbe illuminato la pista di atterraggio sedici chilometri più avanti, e anche questo vecchio scemo aveva acceso i riflettori. Risultato: sopraggiungendo nell’ultimo tratto di sedici chilometri, avevo portato il Vampire sull’aeroporto sbagliato. Stavo per dirgli di non ostacolare i moderni sistemi di volo che non riusciva a capire, ma poi tacqui ingollando le parole. Il carburante si era esaurito mentre mi trovavo a metà pista. Non ce l’avrei mai fatta ad arrivare fino a Merriam, sedici chilometri più lontana. Mi sarei schiantato sui campi prima di aver potuto atterrare. Grazie a un caso stupefacente, avevo avuto, come diceva lui, un diavolo di fortuna.

Quando ebbi elaborato la spiegazione razionale della mia presenza in quell’aeroporto quasi abbandonato, eravamo giunti alla mensa ufficiali. Il mio anfitrione parcheggiò l’automobile davanti all’ingresso e scendemmo. Sopra la porta una lampada ardeva disperdendo la nebbia e illuminando lo stemma scolpito e scrostato della RAF. Da un lato, c’era una targa avvitata al muro. Diceva: “RAF – Base di Minton”. All’altro lato, una seconda targa annunciava: “Mensa ufficiali”.

Entrammo. Il vestibolo era vasto e spazioso, ma costruito evidentemente negli anni prebellici, quando esisteva la voga delle finestre con intelaiature metalliche. La sala ricordava la frase “ha veduto tempi migliori”; era effettivamente così. Soltanto due screpolate poltrone di cuoio occupavano l’anticamera, che avrebbe potuto accoglierne venti. Il guardaroba, sulla destra, conteneva un lungo e vuoto attaccapanni per pastrani inesistenti. Il mio anfitrione, che si era presentato come tenente pilota Marks, si tolse il giubbotto di pelle e lo gettò su una delle poltrone. Indossava i calzoni dell’uniforme, ma con un pesante pullover blu in luogo della giubba. Doveva essere avvilente trascorrere il Natale in servizio in una tana come quella.

Mi disse di essere il comandante in seconda; il suo superiore aveva ottenuto una licenza natalizia. Oltre a loro due, nella base erano abitualmente di stanza un sergente, tre caporali, uno dei quali anch’egli in servizio e probabilmente nella mensa per la truppa, e venti magazzinieri, tutti in licenza. Quando erano in servizio, passavano le giornate classificando tonnellate di capi di vestiario, paracadute, calzature, e tutto il resto dell’armamentario indispensabile ai reparti.

Il fuoco era spento nel vestibolo, sebbene vi fosse un grande caminetto di mattoni, e non vi era fuoco neanche nel bar. Entrambi i locali erano gelidi e io stavo ricominciando a rabbrividire dopo essermi riscaldato un po’ sull’automobile. Marks aprì le varie porte che davano sui corridoio e chiamò qualcuno di nome Joe. Guardai oltre le spalle di lui e scorsi la spaziosa ma deserta sala da pranzo, anche quella senza fuoco e gelida, e due corridoi, uno dei quali conduceva alle stanze degli ufficiali e l’altro agli alloggi della truppa. L’architettura delle basi della RAF non varia di molto; ricalca sempre io stesso modello.

« Spiacente che il posto non sia molto ospitale, vecchio mio » disse Marks, non essendo riuscito a scovare l’invisibile Joe. « Poiché siamo soltanto in due di servizio qui, e non riceviamo visitatori dei quali valga la pena di parlare, abbiamo entrambi ricavato da due camere da letto una specie di piccolo appartamento indipendente nel quale abitiamo. Sembrava inutile utilizzare tutto questo spazio soltanto per noi due; è impossibile riscaldarlo durante l’inverno, capisci. Non con il carbone che ci passano. E non si trova personale. »

La sistemazione sembrava ragionevole. Ai suo posto, probabilmente mi sarei regolato anch’io così.

« Non preoccuparti » dissi, lasciando cadere il casco di volo e la maschera dell’ossigeno sull’altra poltrona. « Anche se gradirei un bagno e un pasto. »« Questo credo sia possibile ” disse lui, sforzandosi di interpretare il ruolo dell’anfitrione cordiale e accogliente. « Farò preparare da Joe una delle camere libere… Dio sa quante ne abbiamo.., e gli dirò di scaldare l’acqua. Potrà improvvisare anche uno spuntino. Non un granché, temo. Uova e pancetta potrebbero andare? »

Annuii. Nel frattempo, avevo supposto che Joe fosse il cameriere della mensa ufficiali. « Andranno benissimo. Mentre aspetto, ti spiace se mi servo del vostro telefono? »

« Ma sicuro, ma sicuro, naturale, dovrai avvertire che sei arrivato. »

Mi fece entrare nella segreteria, la porta adiacente a quella del bar. Era una stanza piccola e gelida, ma vi si trovavano una sedia, una scrivania sgombra e un telefono. Formai il numero 100 del centralino locale e, mentre aspettavo, Marks tornò con un bicchiere di whisky. Normalmente non bevevo quasi mai liquori, ma il whisky avrebbe potuto scaldarmi e così lo ringraziai e lui andò a impartire ordini al cameriere. Il mio orologio segnava la mezzanotte meno pochi minuti. Bel modo di trascorrere il Natale, pensai. Poi ricordai che, appena mezz’ora prima, avevo supplicato Dio affinché mi aiutasse, e mi vergognai.

« Little Minton » disse una voce sonnacchiosa.

Occorsero secoli per ottenere la comunicazione, perché non conoscevo il numero di Merriam St. George, ma la ragazza riuscì infine a passarmi la base. Nella linea udivo la famiglia della centralinista festeggiare il Natale in un’altra stanza, senza dubbio l’alloggio annesso all’ufficio postale del villaggio. Infine il telefono squillò.

« RAF di Merriam St. George » disse una voce di uomo. Il sergente di servizio che parlava dal corpo di guardia, pensai. « Il controllore di turno del traffico aereo, per favore » dissi.

Seguì un silenzio. « Mi scusi, signore » disse la voce. « Posso sapere chi è all’apparecchio? »

Dichiarai generalità e grado. Gli dissi che stavo parlando dalla base di Minton.

«Capisco, signore. Ma temo che non ci siano voli stanotte, signore. Nessuno dei controllo aereo è in servizio. Alcuni degli ufficiali si trovano però alla mensa.»

«Allora passami l’ufficiale di servizio della base, per piacere.»

Quando mi venne passata la comunicazione, l’ufficiale si trovava evidentemente alla mensa, poiché si udiva un suono di conversazioni animate. Gli spiegai la situazione nella quale ero venuto a trovarmi, e il fatto che la sua base era stata avvertita di accogliere un caccia Vampire con la radio guasta, in atterraggio di emergenza con il GCA. Ascoltò attentamente. Forse anche lui era giovane e coscienzioso, poiché non aveva bevuto allatto, proprio come dovrebbe fare l’ufficiale di servizio di una base aerea in qualsiasi momento, anche la notte di Natale.

« Non ne so niente » disse infine. « Non credo che la torre di controllo abbia funzionato dopo la chiusura, alle cinque del pomeriggio. Ma io non sono nei traffico aereo. Ti spiace restare in linea? Ti passo il tenente colonnello. E’ qui. »

Seguì un silenzio. Poi udii nella linea la voce di un uomo più anziano. Spiegai daccapo la situazione.

« Da dove stai parlando? » domandò il colonnello, dopo aver preso nota del mio nome, del grado e della base.

« Da Minton, signore. Ho appena compiuto qui un atterraggio d’emergenza. A quanto pare la base è quasi abbandonata. »

« Sì, lo so » disse lui, strascicando la voce. « Una vera sfortuna. Vuoi che mandiamo a prenderti con un automezzo? »

« No, non si tratta di questo, signore. Non mi importa restare qui. E’ solo che, atterrando, ho sbagliato aeroporto. Credo che fossi diretto sul suo aeroporto con un GCA. »

« Bene, deciditi. Eri diretto qui o no? Dovresti saperlo. Stando a quanto dici, eri tu a pilotare il dannato aereo. » Trassi un profondo respiro e gli raccontai tutto.

« Ecco, vede, signore, sono stato intercettato dall’aereo meteorologico di Gloucester, ed è stato il suo pilota a guidarmi. Ma con questa nebbia può esserci riuscito soltanto con un GCA. Non era possibile scendere in nessun altro modo. Però, vedendo le luci di Minton, ho atterrato qui nella supposizione che si trattasse di Merriam St. George. »

« Splendido » disse lui, dopo un lungo silenzio. « Meravigliosa prova di volo da parte di quel pilota di Gloucester. Certo, quei tipi volano con ogni tempo; è il loro mestiere. Che cosa dovremmo fare al riguardo, secondo te? »

Cominciavo a essere esasperato. Poteva avere il grado di tenente colonnello, ma certo non si era limitato nel bere, la notte della vigilia di Natale.

« Ho telefonato perché avverta i suoi uomini del radar e del controllo, signore. Devono aspettare l’arrivo di un Vampire che non arriverà mai. E’ già arrivato… qui a Minton. »

« Ma il servizio è stato sospeso » disse lui. « Tutti gli impianti hanno cessato di funzionare alle cinque. Nessuno ci ha chiesto di riattivarli. »

« Ma la base di Merriam St. George ha il GCA. »

« Lo so che lo abbiamo » sbraitò il colonnello. « Però questa notte non è stato impiegato. Lo abbiamo disattivato a partire dalle diciassette.»

Posi la successiva, e ultima, domanda, adagio e con meticolosità. « Può dirmi, signor colonnello, dove si trova la più vicina base della RAF che trasmette per tutta la notte sulla frequenza di 121,3, la più vicina base che rimanga ininterrottamente in ascolto nell’eventualità di situazioni di emergenza? » (121,5 è la frequenza internazionale per i casi di emergenza.)

« Sì » rispose, altrettanto adagio. « A ovest è a Marham. A sud, a Lakenheath. Buonanotte. E buon Natale. »

Posò il ricevitore. Io mi appoggiai alla spalliera della sedia e respirai profondamente. Marham distava sessantaquattro chilometri ed era situata all’estremità opposta del Norfolk. Lakenheath si trovava sessantaquattro chilometri più a sud, nel Suffolk. Con il carburante di cui disponevo, non soltanto non avrei potuto raggiungere Merriam St. George, ma avrei trovato la base chiusa. E come mi sarebbe stato possibile, allora, arrivare a Marham o a Lakenheath? Eppure, avevo segnalato al pilota di quel Mosquito che mi rimaneva carburante per soli cinque minuti, e constatato dai suoi cenni che la comunicazione era stata capita. In ogni modo, dopo la discesa nel banco di nebbia, volava di gran lunga troppo in basso per poter percorrere in quel modo altri sessantaquattro chilometri. Doveva essere pazzo. Cominciò ad apparirmi chiaro che, in realtà, non dovevo la vita al pilota dei servizi meteorologici di Gloucester, ma al tenente pilota Marks, all’accantonato e goffo tenente pilota Marks, pieno di birra e incapace di distinguere un apparecchio dall’altro; che aveva corso per quattrocento metri nella nebbia allo scopo di accendere i riflettori di una pista abbandonata perché aveva sentito un reattore che girava sopra il campo a quota troppo bassa. Ma ormai il Mosquito doveva essere rientrato a Gloucester, e il pilota doveva venire informato del fatto che, nonostante tutto, io ero vivo.

« Gloucester? » disse la centralinista. « A quest’ora della notte? »

« Sì » risposi con fermezza. « Gloucester, a quest’ora della notte. »

Le squadriglie meteorologiche hanno di buono che sono sempre in servizio. Rispose il meteorologo di turno. Gli spiegai la situazione.

« Temo che debba esserci stato un equivoco, tenente » disse. « Non poteva essere uno dei nostri.»

« Senta, sto parlando con la Raf di Gloucester, vero?

« Sì, certo. Qui è l’ufficiale di turno. »

« Bene. E i Mosquito della squadriglia volano per rilevare i dati relativi alla pressione e alla temperatura ad alta quota, no? »

« No » rispose. « Ci servivamo prima dei Mosquito. Sono stati sostituiti tre mesi fa con i Canberra. »

Rimasi immobile con il ricevitore in mano, fissandolo incredulo. Poi mi venne un’idea.

« Dove sono andati a finire? » domandai. Doveva essere un anziano scienziato cortesissimo e paziente, per sopportare domande così stupide a quell’ora.

« Sono stati demoliti, credo, oppure, più probabilmente, mandati ai musei. Stanno diventando rarissimi al giorno d’oggi, sa. »

« Lo so » dissi. « È possibile che uno di essi sia stato venduto a un privato? »

« Presumo che sia possibile » rispose dopo qualche momento. « Dipenderebbe dal ministero dell’Aeronautica. Ma credo che siano stati consegnati ai musei dell’aviazione. »

« Grazie. Grazie infinite. E buon Natale. »

Posai il ricevitore e scossi la testa in preda allo smarrimento. Che notte, che notte incredibile. Prima la radio e tutti gli strumenti nell’impossibilità di funzionare. Poi avevo perduto l’orientamento ed ero rimasto a corto di carburante. Infine mi aveva preso a rimorchio qualche nottambulo scervellato, con la passione per gli aerei antiquati, che, pilotando di notte il suo Mosquito, si era accorto per caso della mia presenza nel cielo e per un pelo non mi aveva fatto ammazzare. Da ultimo, un ufficiale dei servizi a terra, mezzo ubriaco, era stato così assennato da accendere i riflettori della pista appena in tempo per salvarmi. Impossibile essere più fortunati di così. Ma una cosa sembrava certa: l’asso dell’aria dilettante non aveva la più pallida idea di quello che stava facendo. D’altro canto, dove sarei adesso senza di lui? mi domandai. Dondolerei morto nel Mare del Nord. Alzai il bicchiere con il whisky che vi rimaneva per brindare a lui e alla sua strana mania di pilotare vecchi aerei, poi bevvi d’un fiato. Il tenente pilota Marks fece capolino alla porta.

« La tua stanza è pronta » disse. « È il numero diciassette, in fondo al corridoio. Joe sta accendendo il fuoco. L’acqua per il bagno si sta scaldando. Se non ti spiace, credo che ora me ne andrò a letto. Riuscirai a cavartela per tuo conto? »

Lo ringraziai con più cordialità di prima, come meritava.

« Sicuro, mi sistemerò benissimo. Grazie infinite per tutto il tuo aiuto. »

Presi il casco e mi incamminai lungo il corridoio; sulle pareti c’erano i numeri delle camere da letto di ufficiali scapoli trasferiti da un pezzo altrove. Dalla porta della camera diciassette sfuggiva un filo di luce, illuminando il corridoio. Quando entrai, un vecchio inginocchiato davanti al caminetto si alzò in piedi. Mi fèce trasalire. I camerieri di mensa sono di solito della RAF. Quell’uomo aveva quasi settant’anni, ed era ovviamente un borghese assunto sul posto. « Buona sera, signore » disse. « Sono Joe, signore. Il cameriere di mensa. »

« Sì, Joe, il tenente Marks mi ha parlato di lei. Spiacente di importunarla tanto a quest’ora della notte. Sono piovuto dal cielo all’improvviso, è proprio il caso di dirlo.

« SI, il tenente Marks mi ha spiegato. La stanza sarà pronta tra un momento. Non appena il fuoco avrà preso, diventerà calda e accogliente.»

Il gelo non aveva ancora abbandonato la camera, e io rabbrividivo nella tuta di nylon. Avrei dovuto chiedere a Marks di prestarmi un maglione, ma me n’ero dimenticato. Decisi di consumare lì il solitario pasto serale e, mentre Joe andava a prenderlo, feci un rapido bagno, poiché l’acqua era ormai ragionevolmente calda. Mentre mi asciugavo e infilavo la vecchia, ma calda, veste da camera portatami da Joe, il vecchio apparecchiò un tavolino e vi mise su un piatto sfrigolante con uova e pancetta. La stanza cominciava a essere piacevolmente calda, il fuoco di carbone ardeva vivido, le tende erano accostate. Mentre mangiavo – e mi occorsero appena pochi minuti perché ero terribilmente affamato – l’anziano cameriere si trattenne per conversare.

« Si trova qui da molto, Joe? » gli domandai, più per cortesia che per un autentico interessamento.

« Oh, si, signore, quasi da vent’anni; dai tempi subito prima della guerra, quando venne creata la base. »

« Ne ha veduti di cambiamenti, eh? Non sarà sempre stata cosi. »

« No di certo, signore. No di certo. » E mi parlò dei tempi in cui le stanze erano gremite di giovani piloti entusiasti, e nella mensa risuonavano l’acciottolio dei piatti e il tintinnio delle posate, e nel bar echeggiavano canzoni ribalde; dei mesi e degli anni durante i quali, nel cielo sopra l’aeroporto, scoppiettavano e rombavano i motori a pistoni che portavano gli aerei in battaglia e li riportavano indietro.

Mentre parlava, finii di mangiare e vuotai la bottiglia piccola di vino rosso che lui aveva portato dal bar. Era un cameriere consumato Joe. Dopo aver finito, mi alzai da tavola, pescai una sigaretta nella tasca della tuta, l’accesi, e mi aggirai qua e là per la stanza. Joe cominciò a sparecchiare, togliendo dal tavolino i piatti e il bicchiere. Mi soffermai dinanzi a una vecchia fotografia incorniciata, l’unica che si trovasse sulla mensola del caminetto, sopra il fuoco scoppiettante. Mi fermai con la sigaretta a mezz‘aria mentre me la portavo alle labbra, e a un tratto sentii diventare gelida la stanza. La fotografia risaliva a molti anni addietro ed era macchiata, ma dietro il vetro risultava ancora sufficientemente chiara. Vi si vedeva un giovane all’incirca della mia età, sui ventitré o i ventiquattro anni, in uniforme di volo. Ma non indossava una delle moderne tute di nylon blu, né portava uno dei nostri lucenti caschi di plastica. Calzava robusti stivali foderati con pelle di pecora, portava ruvidi calzoni e il pesante giubbotto di pelle con chiusura-lampo. Dalla mano sinistra gli penzolava uno di quei caschi flosci di cuoio che si usavano allora, muniti di occhialoni, in luogo della moderna visiera azzurrata dei piloti. Era in piedi a gambe divaricate, la mano destra sul fianco, in un atteggiamento spavaldo, ma non sorrideva. Fissava la macchina fotografica con una sorta di cupa concentrazione. Aveva un che di malinconico negli occhi. Dietro di lui, visibile molto chiaramente, si trovava il suo apparecchio. Non ci si poteva ingannare: era la sagoma snella e aerodinamica del cacciabombardiere Mosquito, con i due motori Merlin che gli consentivano prestazioni notevolissime.

Stavo per dire qualcosa a Joe, quando sentii la folata d’aria gelida sulla schiena. Una delle finestre si era spalancata lasciando entrare nella stanza il vento ghiacciato.

« La chiudo io, signore » disse il vecchio, e fece per rimettere tutti i piatti sul tavolo.

« No, ci penso io. »

Mi occorsero appena due lunghi passi per arrivare alla finestra che oscillava sull’intelaiatura d’acciaio. Per avere una presa migliore, mi portai dietro la tenda e guardai fuori. La nebbia turbinava a ondate intorno al vecchio edificio della mensa, smossa dalla corrente d’aria calda che usciva dalla finestra. Lontano, nella nebbia, mi parve di udire un rombo di motori. Ma non si trattava di un aereo, soltanto della motocicletta di qualche garzone di fattoria che si allontanava dalla fidanzata attraverso le paludi. Chiusi la finestra, mi accertai che fosse ben fissata e tornai nella stanza.

«Chi è il pilota, Joe? »

« Il pilota, signore? »

Accennai con il capo alla fotografia sulla mensola del caminetto.

«Oh, capisco, signore. Quello è il tenente Kavanagh. Si trovava qui durante la guerra, signore.»

Mise il bicchiere del vino sull’ultimo piatto della piccola pila che aveva in mano.

« Kavanagh? » Tornai verso la fotografia e la esaminai attentamente.

« Sì, signore. Un ufficiale irlandese. Una gran brava persona, se mi è consentito dirlo. In effetti, signore, questa era la sua stanza. »

« A quale squadriglia apparteneva, Joe? » Stavo ancora scrutando l’apparecchio sullo sfondo.

« Alla squadriglia ricognitori, signore. Pilotavano Mosquito. Ottimi piloti tutti quanti, signore. Ma mi azzardo a dire che, secondo me, il tenente Johnny era il più abile di tutti. D’altro canto, il mio giudizio non può essere obiettivo, signore. Vede, ero il suo attendente. »

Non c’era dubbio. Le due lettere sbiadite sui muso del Mosquito, alle spalle dell’ufficiale nella fotografia, erano JK. Non già Juliet Kilo, ma Johnny Kavanagh. Tutto mi appariva ormai chiaro come la luce del giorno. Kavanagh era stato un abilissimo pilota e aveva volato in una delle squadriglie di punta durante la guerra. Al termine dei conflitto, se n’era andato dall’aviazione, probabilmente per vendere automobili usate, come avevano fatto taluni. Così, durante il boom degli anni cinquanta, era riuscito a far soldi a palate, quasi certamente aveva acquistato una bella dimora di campagna e gli era rimasto abbastanza per indulgere alla sua vera passione… il volo. O meglio per ricreare il passato, i suoi giorni di gloria. Aveva acquistato un vecchio Mosquito in occasione di una delle periodiche aste di apparecchi ormai superati indette dalla RAF, e, revisionatolo, se ne serviva per andare ovunque volesse. Disponendo del denaro necessario, non era un brutto modo per passare il tempo libero. E così, tornando da qualche viaggio in Europa, mi aveva veduto mentre tracciavo triangoli sopra il banco di nebbia, si era reso conto che mi trovavo in difficoltà e mi aveva preso a rimorchio. Individuando esattamente la propria posizione mediante radiofari incrociati, e conoscendo a mente quel tratto di costa, aveva compiuto il tentativo rischioso di trovare il suo aeroporto di un tempo, a Minton, anche nella nebbia fitta. Un diavolo di rischio. Ma, d’altro canto, ero rimasto senza carburante, e bisognava tentare o sarebbe stata la fine. Non dubitavo affatto di poter rintracciare quell’uomo, probabilmente per il tramite del Royal Aero Club.

« Doveva essere senz’altro un abile pilota » dissi, riflettendo alla sua esibizione di quella notte.

«Il più bravo, signore » asserì Joe, alle mie spalle. « Dicevano che aveva gli occhi di un gatto, il tenente Johnny. Ricordo bene le volte che la squadriglia tornava, dopo avere sganciato razzi illuminanti sugli obiettivi da bombardare in Germania, e gli altri giovani ufficiali affollavano il bar e bevevano. E non si limitavano a un solo bicchiere. »

« Lui non beveva? » domandai.

« Oh, sì, signore, ma quasi sempre faceva rifornire di carburante il suo Mosquito e ripartiva solo, diretto verso il Canale della Manica o il Mare de] Nord, nell’ eventualità che vi si trovasse qualche bombardiere colpito, diretto verso la costa, e che egli potesse guidano fino alla base. »

Mi accigliai. Quei grossi bombardieri si dirigevano verso altre basi.

« Ma alcuni erano stati tartassati dalla contraerea nemica e avevano avuto la radio distrutta. Venivano da ogni parte, da Marham, Scampton, Waddington; i grossi quadrimotori, gli Halifax, gli Stirling, i Lancaster; hanno preceduto di un pochino i suoi tempi, se mi consente di dirlo, signore. »

« Ne ho veduto le fotografie » ammisi. « Alcuni di quegli apparecchi volano ancora nelle parate aeree. E lui li guidava e li riconduceva alla base? »

Me li immaginavo, con squarci sulla fusoliera, sulle ali e sulla coda, cigolanti e oscillanti mentre il pilota si sforzava di tenerli in orizzontale, con l’equipaggio ferito o morente, e la radio fatta a pezzi. E sapevo, per una troppo recente esperienza, quanto sia tremenda la solitudine del cielo invernale di notte, senza la radio, senza una guida che ti riconduca alla base, con la nebbia che cela ogni cosa.

« Esatto, signore. Decollava per un secondo volo nella stessa notte, e pattugliava sul Mare del Nord, in cerca di aerei colpiti. Poi li guidava, li conduceva qui a Minton, a volte con una nebbia così fitta che non si riusciva neanche a vedersi la mano. Un sesto senso, dicevano che aveva; il sesto senso degli irlandesi. »

Voltai le spalle alla fotografia e schiacciai il mozzicone della sigaretta nel posacenere accanto alletto. Joe si trovava sulla porta.

« Un uomo davvero in gamba » dissi, ed ero sincero. Ancor oggi, in età matura, pilotava superbamente.

« Oh, sì, signore, proprio un uomo in gamba, il tenente Johnny. Ricordo che un giorno mi disse, stando lì in piedi, dove si trova lei adesso, accanto al fuoco: “Joe, ogni volta che un aereo nella notte tenterà di tornare indietro, andrò e lo riporterò alla base”. Così disse. »

Annuii con gravità. Manifestamente, il vecchio adorava il suo antico ufficiale.

« Bene » osservai « a quanto pare, continua a farlo. »

A questo punto Joe sorrise. « Oh, non credo davvero, signore. Il tenente Johnny decollò per l’ultima volta la vigilia del Natale 1943, esattamente quattordici anni fa. E non fece mai ritorno, signore. Precipitò con il suo apparecchio là, nel Mare del Nord.

Buona notte, signore.….E Buon Natale. »