Approfondimenti sullo Stato Islamico (1)

Pubblicato il 20 Agosto 2015 in , da redazione grey-panthers

Esiste un prima e un dopo nel percepito dell’opinione pubblica sulle vicende che riguardano la costituzione del sedicente Stato Islamico, la sua comparsa sulla scena globale. La data spartiacque è il 29 giugno 2014, giorno in cui Abu Bakr al-Baghdadi proclama la nascita del califfato.

Da quel momento l’attenzione dei media si ridesta dopo anni segnati dall’annoiato torpore che accompagnava ogni notizia proveniente dall’Iraq e, più in generale, da tutta la regione.

Quello che eravamo abituati a chiamare Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil/Isis) sceglie dunque di proclamare l’instaurazione del califfato islamico nei territori conquistati in Siria e in Iraq. Lo fa con un discorso di al-Baghdadi nella moschea di Mosul e, in un comunicato diffuso su internet invita tutti i fedeli musulmani ad allearsi in questa nuova battaglia. Contemporaneamente l’Isil annuncia di aver cambiato nome in Stato Islamico e di aver assegnato al suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi, il rango di califfo, il successore del profeta.

Il portavoce dell’Isil afferma che il califfato «è il sogno di ogni musulmano e il desiderio di ogni jihadista». È un modo di coinvolgere ogni fedele islamico, ma anche di minacciarlo in modo sottile intendendo che per tutti i musulmani, «con l’annuncio del califfato, è ormai loro dovere giurare fedeltà al califfo». E rivolto agli altri gruppi jihadisti aggiunge: «Non esiste alcuna scusa religiosa per non sostenere questo stato. Sappiate che con la nascita del califfato i vostri gruppi hanno perso legittimità. Nessuno è autorizzato a non prestare giuramento al califfato».

Il messaggio della nascita del califfato viene diffuso dunque attraverso tre modalità comunicative che vengono messe in campo in contemporanea: la predicazione diretta da parte di al-Baghdadi all’interno della moschea di Mosul (il cui video è preceduto dalla scritta “Al-Furqan media foundation presents”); il comunicato che il suo portavoce affida a internet e, come conseguenza, ai mezzi di comunicazione di tutto il mondo; e poi un secondo video (destinato alla comunicazione globale) che chiarisce immediatamente la prospettiva politica del neo proclamato califfato, la sua posizione rispetto agli stati e ai territori nei quali la sua azione si dispiega. Significativamente, il video s’intitola: “La fine di Sykes-Picot”. Il riferimento è ai patti franco-britannici del 1916 (ufficialmente l’Asia Minor Agreement), firmati da François Georges-Picot e sir Mark Sykes, con cui Londra e Parigi si spartiscono sostanzialmente le zone d’influenza in Medio Oriente dopo la Prima guerra mondiale.

Eppure nessuno dei messaggi provenienti dal califfo, in quel giorno di giugno, è tanto forte quanto quello contenuto in quest’ultimo video che segna in modo irreversibile il cambio di passo e strategia dell’organizzazione. Proprio in questo video, infatti, c’è la dichiarazione di quali sono i nuovi obiettivi del leader e dei suoi seguaci; quali le scelte.

Gli uomini del califfo delineano sostanzialmente le mosse, le strategie operative, che vedremo realizzate nei mesi successivi dai fedelissimi dello Stato Islamico.

“La fine di Sykes-Picot” dura quindici minuti e quattro secondi, riprese in full HD, inquadratura sapiente e buona scelta di luce. Anche il sound mix è professionale. In alto a destra nelle immagini, compare il simbolo della casa di produzione al-Hayat e del media center Al-I’tisam Establishment for Media Production, che da anni agisce nello scenario iracheno come produttore di contenuti media per le diverse sigle di stampo jihadista sunnita, che negli anni si sono susseguite.

Un giovane barbuto appare sullo schermo accompagnato dalla scritta (il sottopancia) “Abu Safiyya from Chile”, nel rispetto dei canoni narrativi dei media audiovisivi ufficiali di tutto il mondo. Il giovane è in un punto imprecisato del deserto (sarà lui a chiarire immediatamente che si tratta del confine tra Siria e Iraq); alle sue spalle una sbarra di ferro. La formula di rito, la basmala, è ovviamente in arabo ma, appena inizia il suo racconto, l’uomo passa rapidamente all’uso dell’inglese. Le immagini arrivano da al-Qaim, posto di frontiera tra Siria e Iraq conquistato dagli uomini dell’Isis, e il giovane barbuto conferma: «Questa non è la prima frontiera che distruggiamo e ne distruggeremo altre», dice, citando Iraq, Giordania e Libano.

Ma chi è Abu Safiyya?

L’apparizione del sottopancia trasmette un dato importante in sé e per il fatto stesso di essere messo lì. Il regista del video ha un messaggio preciso da veicolare prima di tutti gli altri: far apparire nella prima sequenza la scritta “Abu Safiyya from Chile”, non significa infatti voler semplicemente comunicare il nome operativo del jihadista protagonista del filmato. La volontà è quella di connotare immediatamente il protagonista del video come “straniero”: viene scritto dunque nel sottopancia che è cileno e, pochi istanti dopo la formula rituale, lo sentiremo parlare inglese.

Bastián Vásquez, detto Abu Safiyya, è, in effetti, un cittadino norvegese di origine cilena. Ha 25 anni e nella sua storia recente (dal 2008 a oggi) ha seguito il percorso ormai tipico del giovane convertito che rapidamente imbocca la via dell’islam radicale. La sua famiglia si trasferisce in Norvegia negli anni della dittatura in Cile, lui frequenta le periferie urbane in cui s’incrociano immigrati da tutto il mondo, entra a far parte di un gruppo hip hop poi, attorno al 2009, si converte grazie alla frequentazione di Mohyeldeen Mohammad, un iracheno noto alle autorità per la sua reazione violenta alle vignette contro Maometto del 2010.

Mohammad è uno dei primi jihadisti norvegesi che parte per andare a combattere in Siria. V asquez, nel frattempo, viene segnalato tra i fomentatori della protesta davanti all’ambasciata americana di Oslo, nel 2012. È con i membri di un gruppo estremista norvegese “The Prophet’s Ummah”. Nelle settimane subito dopo la protesta sarebbe partito dalla Norvegia per raggiungere in Siria il suo amico Mohammed. Nel 2013, con il suo nuovo nome di Abu Safiyya, è lui stesso a postare su Facebook la notizia che si trova ad Aleppo tra le fila dell’Isis.

Ma non è per un caso fortuito che Bastian Vásquez diventa il protagonista del primo video che il califfato diffonde in tutto il mondo grazie alla rete a poche ore dalla sua stessa proclamazione. Abu Safiyya viene scelto perché rappresenta l’emblema di quello che il nuovo IS vuole essere: è la rappresentazione simbolica del suo messaggio e, al tempo stesso, dei principali destinatari del suo messaggio.

Nel momento della proclamazione del califfato l’IS dichiara la sua volontà di essere stato, d’identificarsi con un’entità territoriale precisa. Nel giugno 2014 il messaggio di al-Baghdadi e i suoi al mondo, è quello di essere ormai pronti a costruire non un movimento di guerriglia o un’organizzazione terroristica (quello lo sono già da anni, sotto gli occhi di tutti anche se quasi nulla viene fatto per contrastarli) ma un vero stato. Uno stato con organizzazione, istituzioni, autorità definite. Di più, con forti mire espansionistiche: a livello di territorio e di popolazione. Alla base, un’ideologia, una religione; uno schema di pensieri e “valori” nei quali potenzialmente tutti i buoni musulmani dovrebbero riconoscersi. Almeno questo pensano e predicano il califfo e i suoi adepti.

Dunque, nella loro visione l’IS è uno stato che, come primo obiettivo, ha la necessità di spiegare i fondamenti ideali e gli obiettivi politici che ne giustificano la nascita e l’esistenza (non a caso il primo video pubblicato nell’era del califfato è quello che decreta la fine dei confini tracciati all’inizio del secolo scorso dai “crociati”). Lo Stato Islamico non si accontenta dunque dei successi dell’oggi. Non basta Mosul, non sono sufficienti le centinaia di foreign fighters arrivate tra Siria e Iraq a combattere il jihad. Il califfo deve fare nuovi proseliti, richiamare fedeli da tutto il mondo. Questo è l’obiettivo cui la macchina della propaganda mira: bisogna attirare, convincere nuovi soggetti, rendere la proposta jihadista attrattiva.

Strategia politica e mosse mediatiche vanno di pari passo, seguono la stessa logica.

Per tutte queste ragioni diventa fondamentale analizzare le modalità comunicative messe in campo dall’Isis, specie nella sua ultima fase (dopo la proclamazione del califfato), per capire le mosse future. E, contemporaneamente, si comprende l’importanza dell’analisi di tutto quello che ha preceduto l’annuncio del 29 giugno, per cogliere le connessioni, la preparazione avvenuta negli anni in cui l’Iraq è stato lasciato a se stesso. Per cogliere sino in fondo la continuità di quel “prima e dopo” che da più parti viene presentato come una “mossa a sorpresa”, mentre di sorprendente contiene assai poco.

L’analisi del “prima” ci permette forse di tentare di capire perché nulla di significativo sia stato fatto per intercettare l’azione di al-Baghdadi e dei suoi fedeli quando ancora le cose sarebbero state, forse, assai più semplici da gestire.

È proprio per questo che vale la pena di soffermarsi qualche istante ad analizzare il valore simbolico della comparsa del cileno- norvegese Abu Safiyya, nei primi frames del video “La fine di Sykes-Picot”. La didascalia, che ci proietta a migliaia di chilometri dal deserto iracheno, è l’emblema del nuovo califfato che va oltre i confini, che si pone come attrattiva e progetto politico su scala globale, richiamando giovani musulmani da ogni angolo della terra per allargare i confini e la potenza del nuovo Stato Islamico.

Con IS anche il processo di arruolamento, la costruzione della fascinazione per il jihad, attraversa una nuova fase. Per anni il cammino tra la radicalizzazione, l’arruolamento, il combattimento e il martirio era stato accompagnato dalla vita nell’ombra. Dal silenzio e dal segreto. Dei mujaheddin conosce- vamo i volti solo dopo il sacrificio, quando ormai si erano trasformati in shahid, in martiri. Oggi non è più così.

In internet i combattenti discutono, postano i video della partenza verso il nuovo stato, raccontano una loro quotidianità fatta d’indottrinamento (per loro dottrina) e di modelli di vita alternativi a quelli da cui provengono.

I nuovi combattenti trovano un palcoscenico in cui possono essere protagonisti già in questa vita, prima del martirio, hanno una platea globale cui rivolgersi: una popolarità insperata. Il loro viaggio, spesso senza ritorno, si colora di prospettive magnifiche, di vite che alternano atti eroici e gioie quotidiane. Questo è l’IS che raccontano nei loro video postati sul web. E qualcuno ha la grande fortuna di diventare attore protagonista: così come accade ad Aby Safiyya, il cileno.

Come molti dei convertiti forse Abu Safiyya non parla nemmeno troppo bene l’arabo. Ripete ossessivamente gli incisi “inshallah” e “alhamdulillah”, nel doppio tentativo di legittimarsi linguisticamente e ideologicamente.

Mentre l’intera scelta lessicale del suo racconto sottende un’impostazione ideologica che deve mostrarsi in tutta la sua evidenza al fruitore: «So called border», «so called check point», il «cosiddetto confine» ripete Abu Safiyya, a sottolineare che nulla di quel che è codificato nella storia tracciata dagli occidentali deve essere dato per acquisito. Ad affermare che tutta la storia può essere scritta da capo.

Il filmato ha una suddivisione interna per passaggi narrativi sottolineati dai “fade to black” i classici passaggi a nero dello schermo che scandiscono la sequenza narrativa dei trailer e dei filmati più contemporanei. Ogni dettaglio della scena viene accuratamente evidenziato nel racconto. Il primo reportage del califfato non trascura alcun passaggio. La mappa disegnata sul muro del posto di frontiera di al-Qaim serve per spiegare che quel confine non esisterà più. I distintivi dei soldati iracheni e siriani vengono raccolti da terra, descritti: per ognuno c’è una spiegazione che mira a sottolineare la viltà degli eserciti degli stati “infedeli”. «Si sono tolti distintivi e divise, sono corsi al fiume e sono scappati via», ci racconta il nostro narratore.

La scena di Abu Safiyya che issa la bandiera nera del califfo sul pilone da cui sventolavano quelle degli stati i cui eserciti sono fuggiti, si ripete in diversi punti del racconto. Abu Safiyya si lancia poi in spiegazioni religiose, racconta che gli yazidi sono adoratori del demonio, e prima di farci entrare nella prigione dice: «Exclusive for you!».

Suona molto, troppo familiare. È il linguaggio del giornalismo, del marketing delle cose e delle notizie che ci accompagna ogni giorno. Solo che questa volta l’esclusiva che ci viene proposta è la visione dell’incontro con i prigionieri terrorizzati che attendono la fine. Il venticinquenne norvegese-cileno impersona il perfetto “reporter” del califfato. I codici del “reportage all’occidentale” vengono sistematicamente traslati e applicati al messaggio del califfo creando uno scarto narrativo di cui è impossibile non avvertire la potenza.

È una questione di parole, di tecniche di racconto ma anche di tecnologia: è il risultato dell’impiego di telecamere digitali di facile trasporto e a basso costo ma dalle prestazioni straordinarie che permettono ai combattenti della “guerra santa” globale di replicare il modello narrativo occidentale, piegandolo al messag- gio del loro concetto di jihad. E, passaggio dopo passaggio, sono i computer, internet e i social media a diventare strumenti ideali per la diffusione dell’epica jihadista contemporanea.

Abu Safiyya è il primo di una serie di raccontatori, più o meno volontari, di questa nuova storia che impareremo a conoscere, a partire da giugno 2014, per tutti i mesi successivi.

Da al-Zarqawi che decapita Nick Berg a James Fowley. Storie di dottrina, propaganda e decapitazioni

Di Mosul, la città nord-irachena dove avviene la proclamazione del califfato, non si parla più da anni sulle prime pagine dei giornali occidentali, di quelli italiani in particolare.

Qualche sporadica riga di cronaca, la seconda città d’Iraq se la conquista quando giunge la notizia delle persecuzioni ai cristiani nella provincia di Ninive, o in occasione di qualche azione spettacolare come l’assalto alle prigioni e la liberazione dei prigionieri.

L’Iraq è diventato una sorta di buco nero nel racconto del mondo e delle sue vicende. Anche quando nel 2011 scoppia la questione siriana, dalla maggior parte dei media viene trattata come una faccenda a sé, scissa dalla vicenda irachena. A nulla vale il ricordare i 605 km di confine in comune, i continui passaggi di jihadisti avvenuti prima in direzione dell’Iraq (fin dai primi mesi della guerra americana del 2003) e, negli ultimi anni, al contrario in direzione della Siria; sottolineare l’importanza dei corridoi del mercato nero del petrolio; fare cenno alla sinistra presenza di campi di addestramento per ribelli di difficile identificazione. Inutile. Il racconto mediatico dell’oggi sganciato da ieri diventa il terreno ideale in cui la narrativa jihadista ha il tempo di crescere, consolidarsi, trovare indisturbata i propri codici: alcuni del tutto originali, altri uguali nei segni e perfettamente opposti nel senso, a quelli occidentali. Come vedremo.

Vale la pena dunque di fare un salto indietro nel tempo. Il 7 maggio del 2004, al-Zarqawi decapita Nick Berg. È la prima volta che in un video compare un prigioniero di al-Qaida con la stessa tuta arancio dei prigionieri di Guantanamo. La simbologia deve essere ancora spiegata.

L’uomo che posa il coltello sulla gola del tecnico delle comunicazioni che il 10 aprile aveva lasciato per l’ultima volta l’hotel al-Fanar, nel centro di Baghdad, ha una storia complessa. In quel momento lui, che aveva combattuto con i mujaheddin in Afghanistan, che aveva per anni cercato di legittimarsi agli occhi dell’establishment qaidista, è in una fase di profonda discussione con i vertici di al-Qaida che non vogliono riconoscere la sua affiliazione e il suo ruolo di gestore del “franchising iracheno” dell’organizzazione.

Il video dello sgozzamento dell’americano, ancorché destinato a suscitare le critiche dello stesso al-Zawahiri, numero due di bin Laden, serve ad Abu Musab al-Zarqawi per attestarsi definitivamente come capo di al-Qaida in Iraq.

Il messaggio di sangue, in quel maggio 2004, ha un duplice destinatario: da una parte la comunità jihadista, dall’altra gli americani che devono interpretare quell’orrore esibito in video come la vendetta per le atrocità da loro commesse nel corso della guerra.

Dunque, nonostante le resistenze iniziali, la strategia aggressiva di al-Zarqawi, anche sul piano della comunicazione, paga anche dentro il sistema al-Qaida. Il 27 dicembre dello stesso anno è Osama bin Laden a far sentire la sua voce e a consacrare al- Zarqawi come emiro di al-Qaida in Iraq affermando: «Invochiamo l’unificazione dei gruppi jihadisti sotto una sola norma, che riconosca in al-Zarqawi l’emiro di al-Qaida in Iraq». È la certificazione della presenza di al-Qaida nel dopoguerra iracheno come catalizzatore della rabbia sunnita. Una presenza costante, dal 2004 a oggi, con fortune alterne, che si è legittimata attraverso azioni di guerriglia, che ha sostenuto le popolazioni sunnite e spesso le ha protette dall’aggressione sciita. Una presenza che negli anni ha cambiato le sue sigle, visto le scissioni fra i diversi gruppi, ma ha saputo sfruttare ogni sacca di risentimento nella comunità sunnita vessata dai nuovi governi sciiti inutilmente arroganti in virtù della propria maggioranza elettorale e dell’appoggio incrociato di Teheran e dell’Occidente.

Nella composita galassia jihadista la matrice di al-Qaida ha sempre continuato a far sentire il proprio peso – e quello della propria propaganda – anche (dovremmo dire soprattutto) negli anni del disinteresse occidentale per le vicende irachene.

La voce qaidista/jihadista ha sempre lasciato le proprie tracce: ha dialogato con gli iracheni e con i suoi seguaci su scala globale; ha diffuso messaggi. Nel web e non solo. Proviamo a trovarne alcuni esempi: l’esercizio può essere utile per decidere che non è il caso di sorprendersi nel momento della proclamazione dello Stato Islamico e chiedersi poi, perché nulla è stato fatto, nel frattempo.

Dal 2004 gli insurgents sunniti, che largamente finiscono per convergere nella galassia jihadista nonostante origini, culture e motivi totalmente differenti, usano da subito internet come mezzo di diffusione del proprio messaggio e di propaganda delle proprie azioni di guerriglia contro l’esercito di occupazione. I video realizzati dalla macchina di propaganda della guerriglia vengono presto resi globali dalle tv via satellite (al-Jazeera, al-Arabia) che trasformano regolarmente i video amatoriali, e messaggi fabbricati artigianalmente, in strumenti di comunicazione in grado di raggiungere qualsiasi latitudine.

Il video dello sgozzamento di Nick Berg segna un cambio di passo e inaugura una sinistra tradizione: la serialità della narrazione del rapito prevede in quegli anni (tra 2004 e 2005) il ripetersi di un copione che vede il rapito occidentale in ginocchio con il mujaheddin armato di kalashnikov alle sue spalle. Accanto a questa serie, e in modo speculare, si sviluppa la retorica dei video- racconti delle azioni contro uomini e mezzi della coalizione.

Gli improvvisati film makers (di assai modesta capacità tecnica e narrativa) seguono con puntualità ogni azione contro le forze della coalizione. È evidente il loro ruolo di embedded con i gruppi combattenti. Nel giro di poche ore da quando l’azione viene compiuta, il video-racconto viene postato sui siti web jihadisti.

Accanto ai racconti filmati delle azioni di combattimento, una quantità infinita di materiale promozionale e di propaganda trova spazio ogni giorno su web e social media.

Abu Musab al-Zarqawi, infatti, non si limita a farsi filmare durante la decapitazione di Nick Berg ma, convinto come è che il messaggio debba raggiungere con violenza i nemici e rafforzare l’azione dei mujaheddin, crea una vera e propria media unit di cui si trovano le prime tracce dentro Falluja.

L’attenzione alla rappresentazione mediatica delle mosse, da parte dei leader jihadisti è ormai un dato di fatto. La struttura di diffusione del messaggio nei media si fa via via più solida e continua la sua azione anche dopo la morte dell’emiro di al-Qaida in Iraq.

L’effetto del racconto delle azioni sul campo di battaglia iracheno va però molto al di là dei confini dello stato dei due fiumi. Il messaggio jihadista dei guerriglieri che combattono la coalizione va ben presto ad alimentare la narrativa della guerra globale antioccidentale che dopo l’11 settembre trova uno spazio sempre più vasto nella rete. Sebbene non esista un luogo centrale di produzione della propaganda della “guerra santa”, si evidenzia un’assoluta coerenza di simbologie e messaggi.

Il racconto in diretta di quel che avviene sul terreno, la rivendicazione e la propaganda si moltiplicano negli anni e diventano particolarmente efficaci nel corso del 2007: nei giorni della violenza che attraversa Baghdad all’inizio del “surge”. È il al-Fajr Media Center che, il 26 e il 27 marzo, posta in continuazione racconti dettagliati degli attacchi ai “crociati americani”.

Gli insurgents producono oltre alle cronache sul terreno una serie di documenti di propaganda e racconto della propria ideologia con l’obiettivo, sin dai primi momenti, di non essere percepiti come una banda di guerriglieri tagliagole, ma piuttosto come un vasto gruppo con un piano d’azione e un articolato progetto politico.

Nel febbraio 2006 un rapporto dell’International Crisis Group analizza la situazione e conclude che i gruppi degli insurgents aderiscono a una «miscela di salafismo e patriottismo che annacqua le distinzioni tra jihadisti stranieri e combattenti.

Nel 2006 viene prodotta da al-Boraq la serie di film titolata “Juba”. Sono diverse puntate di un unico racconto dedicate alla figura leggendaria del cecchino di Baghdad: un tiratore scelto che, secondo la versione accreditata anche da molti giornali, nel corso del 2005 avrebbe «ucciso 668 crociati». Il film viene realizzato in 4 parti con sequenze d’immagini amatoriali di soldati americani uccisi da cecchini e una struttura narrativa quasi inesistente. Iniziale, rudimentale, ancora povera di mezzi: è comunque l’inizio della doppia narrativa sistematica, di una vera e propria contro-informazione.

I jihadisti capiscono che la legittimazione presso i propri referenti locali e nei confronti del jihadismo globale, passa attraverso la sistematica produzione d’informazioni. I diversi gruppi creano simil-agenzie di stampa che diffondono comunicati per i giornalisti, replicando formato e stile di quelli delle forze della coalizione. Il racconto dei fatti del 12 aprile 2007 ne è chiaro esempio. Su albasrah.net appare un “Iraqi Resistance Report” che descrive gli accadimenti di quel giovedì in modo molto preciso, ma assai distante dal racconto delle agenzie di stampa ufficiali.
Così, nei giorni in cui la distinzione tra insurgents e jihadisti dell’Isi/al-Qaida si fa sempre più labile, le capacità tecniche dei residui dell’apparato informativo del regime di Saddam e le nuove competenze (soprattutto legate al web e ai video) dei foreign fighters vengono messe a fattor comune.
In questi stessi anni inizia anche la produzione sistematica di periodici, alcuni più rudimentali. Altri già strutturati.
Il bimestrale al-Fursan nasce attorno al 2005 e continua a essere pubblicato fino a tutto il 2007. È un periodico corposo, basti pensare che il numero 10, che esce nel 2006, è composto da 64 pagine di cui le prime 6 sono dedicate all’illustrazione grafica dei risultati militari del gruppo.
Intanto il Global Islamic Media Front (Gimf) pubblica 33 numeri di Sada al-Rafidayn (Eco dei due fiumi) che si autodefinisce settimanale di notizie e cronache del jihad e dei mujaheddin.

Sono solo esempi, perché di fatto le pubblicazioni si susseguono in questi anni: il fatto di tracciarli ci permette di avere un’idea più precisa della continuità evidente con la produzione degli ultimi mesi (in particolare di Inspire e Dabiq) di cui parleremo in seguito.

Anche in riferimento alla produzione di periodici, assistiamo a una naturale evoluzione di fenomeni costruitisi negli anni, non certo di “soprese” come sono state invece raccontate dai main- stream media.

In questi stessi anni aumenta nel web la produzione di video per i pod e film legati all’azione di al-Qaida sul piano globale. Al- Sahab, considerato a tutti gli effetti il media center dell’organizzazione centrale, moltiplica negli anni quantità e qualità del suo materiale filmato. Proprio al-Sahab inizia a porsi in modo sistematico il problema della diffusione di un messaggio che vada al di là di chi conosce la lingua araba: e sottotitola in inglese i suoi video più significativi. La narrativa è ormai globale e di renderla ancora più globale si occupa una struttura ad hoc, il Gimf.

Il bisogno di una sistematica controinformazione e la necessità di un brand jihadista legato a qualche forma di coordinamento viene evidenziata in un documento del 21 settembre 2006, pubblicato da al-Boraq e titolato “Esuberanza dei media”. Il documento spiega come anche i media jihadisti debbano rispettare le regole riguardo al plagio, la citazione delle fonti. Si tratta insomma di creare documenti confezionati in modo autorevole così da poter far concorrenza, sul piano della credibilità, a quelli dei media tradizionali. Tutte queste indicazioni rendono assolutamente plausibile l’idea dell’esistenza di un coordinamento mediatico con una supervisione trans-regionale.

Il bisogno di costruire un’informazione autorevole, in grado di controbilanciare l’informazione mainstream dei “crociati”, viene in superficie a più riprese. E diventa un’affermazione politica esplicita, il 2 maggio del 2007 l’Esercito dei mujaheddin e la Commissione Legale di Ansar al-Sunna proclamano che «gli operatori dei media, gli oratori e gli scrittori devono dire la verità e indirizzare le loro frecce contro il falso poiché la comunicazione è metà della battaglia».

La comunicazione è metà della battaglia dunque, e diventa sempre più importante per capire cosa accade nell’universo jihadista: dal Pakistan, all’Iraq in guerra, dal Maghreb fino alla Somalia, i messaggi si diffondono, anno dopo anno, con dinami- che di coerenza impressionante.

È significativo, in questo senso, il caso somalo.

Il gruppo jihadista Harakat al-Shabaab tra il 2007 e il 2010 impegna risorse e uomini, come mai era accaduto prima sul piano della comunicazione. Il disegno preciso: porsi come struttura statale somala, avocare a sé il ruolo di legittimo successore delle corti islamiche. Nel movimento sono confluiti in gran numero, nel corso degli anni, giovani combattenti di origine europea e molti nordamericani. Sono loro a giocare un ruolo chiave nella strategia mediatica del gruppo. La figura centrale è quella di Omar “Abu Mansur al-Amriki” Hammami.

Sono gli anni in cui, come abbiamo visto, i gruppi jihadisti in Iraq stanno già sviluppando un loro sistema di narrazione, mentre in Somalia il racconto della “guerra santa” è ancora piuttosto primitivo. Il massimo della produzione sono ancora le riprese dei discorsi davanti a una camera fissa: il livello è ancora quello della comunicazione dei leader di al-Qaida della primissima ora. Qualche rara volta dai campi di battaglia arrivano immagini di azioni spettacolari girate in modo amatoriale.

Poi accade qualcosa. Il 20 settembre 2009 Harakat al-Shabaab pubblica un filmato della durata di 48 minuti dal titolo “Labbayk Ya Usama”11, in cui il leader di Harakat, Mukhtar Abu al-Zubayr dichiara la sua fedeltà ad al-Qaida centrale e al suo capo Osama bin Laden. Si tratta di una produzione multimediale di primissimo livello con uno straordinario impianto narrativo e qualità audio. Ma c’è un altro elemento chiave: il video pesa 1 Giga. Ora, nella Somalia devastata dalla guerra le linee internet reggono a fatica e non sono certo in grado di effettuare semplici download di video tanto pesanti. È il segno che i destinatari della comunicazione contenuta nel video non sono solo, né in modo prioritario, gli affiliati somali. La volontà è quella di diffondere un messaggio di natura globale.

Un’indicazione confermata pochi mesi dopo da un altro episodio essenziale nello sviluppo dell’azione mediatica di Harakat al- Shabaab.

È il 27 luglio 2010: il gruppo jihadista annuncia la creazione di un nuovo canale d’informazione: al-Kata’ib News Channel. Il trailer di lancio somiglia a quello di una stazione televisiva a tutti gli effetti: al-Kata’ib tv ha un jingle, un logo e perfino un pay off. I colori sono quelli da telegiornale internazionale, persino la scelta grafica rievoca la composizione sferica alla base delle sigle dei telegiornali di mezzo mondo. Ma è l’inserimento grafico delle immagini in movimento a dirci che siamo in presenza di una qualità di montaggio di primo livello.

E poi il pay off, che arriva nei secondi conclusivi della sigla, e spiega con precisione la missione che i combattenti somali del jihad si sono assegnati: «to inform, to inspire, to incite».

È tutto lì, in quei tre verbi: costruire una controinformazione, ispirare e dunque diffondere l’elemento ideologico, fare proseliti e incitare alla lotta. Globale e locale: ecco la nuova dimensione del messaggio jihadista che incita i combattenti, attrae gli stranieri e racconta al mondo le “ragioni” della battaglia. Era vero in Somalia, nel 2010, è ancor più vero oggi nei giorni del califfato di Isis.

Dicevamo, l’ultima evoluzione della capacità mediatica dei jihadisti somali (e la storia si ripeterà anche con l’IS) viene messa in diretta relazione con l’arrivo dei foreign fighters, le reclute straniere. Caso tipico è quello di Omar Hammami, detto anche Abu Mansur al-Amriki, arrivato dall’Alabama. È un esperto di computer con capacità di editing e di utilizzo professionale della tecnologia: sarebbe lui la chiave dell’ideazione e dell’organizzazione del nuovo News Channel. Lui e altre reclute avrebbero ricevuto dalla Somalia la richiesta precisa di presentarsi al momento del reclutamento con videocamere, computer portatili e altre tecnologie per contribuire alla campagna mediatica del gruppo.

Quando il 27 luglio 2010 viene presentato il canale di news, Harakat sostiene che dovrà essere la “falange della verità”. Siamo di nuovo in presenza di quella volontà di combattere “metà della guerra” (quella della propaganda, appunto) cui facevano riferimento i jihadisti iracheni. Non a caso la prima produzione autonoma del canale è un lungo reportage dal titolo: “Mogadishu: The Crusaders Graveyard”.

A guardarla senza saperne nulla, potrebbe essere una puntata di “Panorama”, la storica serie di documentari di Bbc. Perfetto il tono, la narrazione in inglese, le pause, la descrizione della storia. Nei primi minuti, una voce fuori campo racconta la situazione nelle strade di Mogadiscio dopo la battaglia: si vedono i soldati dell’Unione Africana che vengono attaccati nelle strade della città. È quando appare accanto a un carro armato distrutto, che scopriamo l’arcano: il preteso reporter ha il volto coperto da una benda nera. Eppure, non fosse per quel volto nascosto, i codici sono stati tutti rispettati, hanno quel grado di familiarità che ci fa pensare immediatamente a un sistema di comunicazione che arriva da Occidente. Una familiarità che chi ha deciso lo stile del reportage aveva tutta l’intenzione di sottolineare. La chiusura, infatti, fa il verso al “rito di chiusura” dei reportage internazionali con la firma in voce: «al-Kata’ib News Channel, in diretta dalla linea del fronte di Mogadiscio».

E davvero parrebbe tutto normale. Se non fosse che il reporter è mascherato. Ed è esattamente quel “tutto normale tranne un dettaglio” che vedremo – quattro anni dopo – nel caso di John Cantlie, l’ultimo reporter arruolato da Isis: tutto come alla Bbc, se non fosse che il reporter è un ostaggio minacciato di morte.

L’operazione mediatica di Harakat è un successo. Al-Kata’ib viene consultato da jihadisti di diverse nazionalità e fa convergere su Harakat l’attenzione di al-Qaida centrale e di al-Qaida nel Maghreb. E proprio nella serie di Aqim “Shade of swords” è spesso citato il leader di Harakat, Abu al-Zubeyr.

È un segno evidente che proprio attraverso le nuove tecnologie e l’elaborazione di strategie mediatiche sofisticate, la globalizzazione del messaggio jihadista avviene con grande rapidità uniformando i messaggi, le strategie: moltiplicando le opportunità. Anche quelle di raccontare l’orrore in mondovisione. Come accade nel caso della serie delle decapitazioni firmate dallo Stato Islamico. Il 19 agosto 2014, esattamente dieci anni e tre mesi dopo Nick Berg, con le stesse motivazioni, con la stessa ferocia condita dalla stessa retorica, che però oggi osa sognare in grande. Quel califfato di cui parlavano nei loro scambi epistolari Ayman al- Zawahiri e Abu Musab al-Zarqawi oggi è una realtà.

Il califfo Abu Bakr al-Baghdadi però non usa direttamente il coltello. L’ordine del califfo, che fa decapitare il giornalista James Foley e diffonde in tutto il mondo il video della decapitazione, viene eseguito da un ragazzo di poco più di venti anni: un rapper londinese partito per combattere sull’ultimo fronte del jihad, la guerra contro Assad per il controllo della Siria. Le esecuzioni si susseguono a breve distanza. Tutte nello stesso posto, sembra. Tutte secondo lo stesso rituale nel quale l’accento cockney del boia John aggiunge orrore all’orrore, lo porta dentro le case dell’Occidente, lo fa risuonare di un accento familiare. John usa i “nostri” suoni, non i “loro”. La barriera dell’altro da sé è infranta. L’orrore ci riguarda.

È un’aggressione, anche mediatica, così violenta che tutte le strutture dell’informazione devono porsi il problema di come trattare le immagini. Le riunioni delle redazioni di tutto il mondo vengono attraversate dal dubbio: Cosa mostrare? Cosa nascondere? Perché i terroristi ci stanno fornendo tutto con grande precisione?

Far vedere è fare il loro gioco, convengono i più. Non mostrare significa lasciare che qualcuno continui a illudersi che la guerra condotta dall’Isis possa avere qualche cosa di accettabile, sia effettivamente una lotta per la vendetta degli oppressi. Anche il sistema globale dei media è vittima di una strategia che sfugge al suo controllo, di cui non riesce a cogliere fino in fondo la portata.

One thought on “Approfondimenti sullo Stato Islamico (1)

  1. Vorrei suggerire di leggere anche il saggio di Tahar Ben Jelloun romanziere e saggista marocchino che vive a Parigi : ” E’ questo L’ISLAM CHE FA PAURA” edito di recente da Bompiani .
    Strutturato come un dialogo ideale tra lo scrittore e sua figlia, il libro descrive lo sdegno dei musulmani moderati di fronte al fondamentalismo criminale, spiegando cos’è la jihad e cos’è l’Isis, in che modo sia nato e come riesca a fare proseliti fra i giovani più fragili e disorientati dalla mancanza di lavoro, dalla miseria morale e materiale.

    Laura

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