Ai margini del caos, di Pio Iglesias

Pubblicato il 28 Gennaio 2010 in , da Vitalba Paesano

Premessa: nella newsletter di gennaio (2010) abbiamo chiesto ai nostri amici grey panther di mettere la propria esperienza di lavoro e di vita al servizio della comunità. Tra le adesioni pervenute, di cui vi ringraziamo, c’è anche quella di un nuovo iscritto, Pio Iglesias, medico di formazione, ma esperto in emergenze internazionali per professione (Esperto Internazionale in Management di Sistemi Sanitari, Sviluppo ed Emergenza. Medico Tropicalista, recita il suo curriculum). Luanda (Angola), Uganda, Etiopia, ma anche Nicaragua e Zimbabwe: queste le sue destinazioni abituali. Pio, nei momenti di pausa, scrive e dalle sue pericolose postazioni ha accettato di inviarci dei racconti. Li scrive di notte, in un silenzio interrotto da rumori e suoni che noi non immaginiamo neppure. Ecco il primo contributo inviatoci, che pubblichiamo volentieri, sicuri di suscitare il vostro interesse. (vp)

Ai margini del caos

Stamattina all’alba, nel mio letto solitario, mi ha svegliato un incubo. Uno dei soliti, che allietano le mie notti da quando la moglie è scappata con un nuovo amore e la figlia, unica e amata, ha scelto di vivere la sua vita lontana dai miei parossismi educativi. A questa piccola catastrofe emotiva si è aggiunto l’immancabile accompagnamento di quando il destino decide di fartela pagare. Ho perso il lavoro e con questo la mia rendita e con questa anche i pochi amici con cui ancora mi relazionavo con fatica. Non biasimo nessuno, anzi mi sembra che tutto abbia un senso, con la lenta dissoluzione dell’efficienza del mio corpo e direi anche del mio cervello, mi sembra consequenziale essere abbandonato. Non che la cosa mi avesse scosso in maniera eccessiva, preoccupato come ero a tener insieme le mie emorroidi con la prostata e gli eczemi con la dentiera in perenne manutenzione.

Neanche la perdita del lavoro è stata poi così tragica, ero stanco delle falsità intrinseche nell’emergenza umanitaria, dove ho capito che la prima emergenza è la conservazione del posto di lavoro a scapito della missione che dovremmo avere. La perdita del salario invece sì, traumatica e spaventosa. Credo che questo sia dovuto al fatto che ho sempre, per privilegio di nascita, avuto accesso a quella quantità di denaro che ti permette di dire che il denaro non è poi così importante. Ma poi, piano piano, anche la povertà ha acquistato un senso, e nel mio crogiolarmi nell’ignavia, nell’egoistico ripiegarsi su me stesso, anche la povertà ha smesso di disturbarmi. Ho rinunciato a molto, ma non ne sento la mancanza. Soldi, moglie, figlia, rispetto, fringe benefits di una vita scaduta.

Ho passato i 50 anni da poco ma ho fatto una vita molto disordinata e l’usura è stata tanta. Ho mangiato e bevuto e scopato e mi sono drogato sempre che abbia avuto l’occasione. Ho anche letto i russi e i greci, i francesi e i romani, gli americani e gli spagnoli, ho letto fino a Pessoa il grande, e questo non aiuta. Ho viaggiato quasi tutto il mondo. Non ho rimpianti. Ho preferito avere una vita più larga che lunga.

Ma stamattina appena sveglio, reduce dall’incubo e con la pelle fredda e sudata, mi sono accorto che c’era qualcosa di strano in me. Nella frazione di un secondo, mentre sto aprendo gli occhi e tornando alla vita, realizzo di non potermi più muovere. Provo a muovere una gamba, un braccio, la mano ma non sento più nulla, sono paralizzato in questo letto solitario. Sono disteso nel letto prono e non riesco neanche a muovere un dito. Il panico e la disperazione salgono a ondate. Rimango a soffrire un po’ mentre tento di muovere qualcosa del mio corpo. I piedi, niente. Gamba destra niente. Gamba sinistra, niente. Il collo un po’, mi sembra, riesco a muovere la testa verso destra, di pochi centimetri, ma nello stadio in cui sono già questo diventa consolatorio e mi rende meno disperato. Le mie nozioni di medicina sono spolverate e si giunge alla diagnosi di probabilità. Un Ictus, un TIA, un’anossia, un’emorragia, un infarcimento, stroke, tutte definizioni che fanno rima con “sei fottuto”. Il sapere medico non consola, ma chiarisce, avrò una remissione parziale nel giro di qualche ora o qualche giorno al massimo e recupererò parte della funzionalità in attesa del prossimo inevitabile colpo; ricordo il mio professore (ciao Luisetto) di clinica medica che diceva: “il TIA (infarto, colpo, stroke, anossia) è il campanello di allarme che avverte dell’arrivo del prossimo TIA”. Ma fatta la diagnosi e la prognosi (worst case, best case and likely to be case), mi rivolgo ai problemi logistici che la nuova contingenza impone.

Aiuti non me ne posso aspettare. Al mattino presto sarebbe dovuto arrivare Innocent per prepararmi la colazione e se non mi avesse visto, verso le nove sarebbe venuto a bussare alla mia porta e se non avessi risposto avrebbe aperto per accertarsi della mia presenza o meno. Ed allora mi avrebbe visto e sarei stato trasportato all’ospedale e da lì evacuato verso l’Europa dove grazie alla mutua sarei stato curato gratis e abbastanza bene considerando che sono povero. Ma invece Innocent non potrà venire, l’ho licenziato un mese fa perche non potevo più pagargli lo stipendio. I poveri non hanno servitù neanche ai margini del caos. Visite non ne aspettavo, il telefonino l’avevo staccato la sera prima mettendolo in carica per approfittare di una erogazione temporanea di elettricità. La situazione non sembrava facile.

Scoprii che non potevo vocalizzare ma potevo emettere solo un brusio, basso e sforzandomi lungo, ma non so se questo fosse udibile nel giardino della casa dove eventualmente un visitatore inatteso avrebbe dovuto passare. Il suono che producevo aveva poco di umano ma continuai ad esercitarmi per dare del mio meglio nel richiamare un visitatore al momento opportuno.

Il mio sguardo aveva un raggio limitato perché i movimenti della testa, centimetri e pochi, non mi permetteva altro. Ma potevo vedere il cellulare spento, la bottiglia di minerale e le sigarette tutto a mezzo irraggiungibile metro lontano da me. La luce del giorno entrava dalle fessure fra le tende rosse. Lame di luce mi ricordavano che un nuovo giorno, la vita ricominciava ed io potevo assisterci solo come spettatore, ma non per molto. Fissavo le sigarette, avevo smesso di fumare da tre settimane e la voglia di farmene una era ancora ben presente nel mio cervello, le desideravo. Era un pensiero irrazionale nella mia situazione ma mai ho desiderato tanto poter accendermi una sigaretta ed aspirare profondamente. Certo una sigaretta non mi avrebbe fatto male e avrei voluto godermi il mio ultimo tempo anche fumandomi una sigaretta. Mi sembrava un onesto scambio, io muoio di sete fra pochi giorni perché il caldo che c’e’ qui mi disidraterà al massimo in tre giorni, sempre che prima non mi scoprano gli insetti che qui sono legione e decidano di farsi le scorte alimentari a mie spese, ed in cambio io fumo le mie sigarette. Stava lì il pacchetto, bianco e verde, le Kali Kuba, una pessima sigaretta, la più economica nel mercato, il mio tentativo di coniugare risparmio e vizio, nobilitando la debolezza con un atto morale. Il materasso di foam dei poveri, sprofondava lentamente sotto il peso del mio corpo ed il mio collo doveva estendersi per continuare a stare sopra la linea dell’orizzonte. Il materasso di foam del terzo mondo e comodo per la prima ora, poi se non si cambia posizione, tende a risucchiare il corpo sovrastante in una impronta sempre più marcata che tende ad avvolgerti. Io mi ero svegliato prono e dovevo nuotare con il collo e la testa per limitare l’affondamento. Da fuori, oltre il muro di cinta, i rumori iniziavano a filtrare e a coprirsi l’un l’altro.

Il caldo iniziava a farsi sentire e mi resi conto di essere fradicio di sudore e con una sete che mi seccava la bocca. Vedevo le gocce di sudore passarmi sul naso, mi sembrava anche di sentirle e già sarebbe stato un bel segnale di ripresa, ma naturalmente erano fantasie disperate di un disperato. Credo che passassi tutto il mattino a cercare di non farmi soffocare dal foam avvolgente che nel frattempo era diventato bollente (è pura plastica in fondo), e a desiderare una sigaretta e a sognare cascate, laghi, fontane, rubinetti scroscianti, grondanti, roridi il tutto guardando la bottiglia di minerale a 40 cm da me. Mezzogiorno mi fu annunciato dalla scomparsa delle lame di luce nette dalle fessure delle tende rosse, sostituite da un chiarore diffuso e da una stagnazione dell’aria riempita solo dal ronzio delle mosche fuori dalle mie finestre. Il primo pomeriggio, oltre a continuare a nuotare con collo e faccia, ho letto i titoli dei libri che avevo negli scaffali davanti a me. L’unico vero libro era Celine con a che punto e la notte e Goethe con i dolori del giovane, gli altri erano anestesia fiacca per menti provate come la mia.  Per un attimo mi vergognai di farmi trovare morto e puzzolente, in compagnia di tali libri. Avrebbero trovato anche la mia riserva di canapa, e anche questo non sarebbe stato preso bene dalla società in cui vivo.

Pensai alla mia vita e inizia un peana di ringraziamento a Dio che mi aveva tanto elargito. Prima che la disidratazione mi facesse perdere razionalità e spirito, pensai alla mia vita e ne fui soddisfatto, certo la fine sarebbe stata ingloriosa e dolorosa ma c’era di peggio e comunque avevo goduto della vita come si gode di una donna quando la donna ci ama e noi l’amiamo o anche solo quando i corpi e le alchimie biochimiche si incontrano in un’orgia di sensazioni primordiali. Ho portato sempre e dovunque più pace che guerra, più prevenzione che cura cercando di servire il bene nonostante me. Male credo di averne fatto ben poco, più per disinteresse che per bontà, più per snobismo che per virtù, ma tant’è, male non ho fatto.

Nel mio progressivi affondamento fra foam bollente e sudore, ho avuto uno scatto di rabbia, perche quasi non riuscivo più a respirare, e mi sembra di aver mosso un ginocchio, il destro. Mi prende una gioia infinita e il cuore mi batte forte. Dimentico la bocca secca, la lingua grossa, le tre mosche che sono riuscite ad entrare e mirano da un po’ a planare sui miei occhi, e mi concentro su quel ginocchio, gamba, coscia, piede, dita, unghie. E si muove, risponde, lo stimolo ed il mio ginocchio si sposta di pochi millimetri. Cosi fa la mia gamba, il piede, le dita, le unghie. Esercizio nella fibrillazione del canto che sto elevando, un ringraziamento così profondo e puro che ne sono io stesso commosso. Non sapevo di avere ancora tanta poesia dentro di me, dopo tutti i massacri, dopo aver visto vendere vite e sofferenze per soldi o per un posto sicuro, ho raschiato il fondo dell’animo umano e ne sono rimasto avvelenato. I miei e altrui miasmi mi avevano reso cinico. Ma questo ginocchio continua  a far progressi ed e quasi sera quando anche il braccio destro inizia a potersi muovere, mentre i movimenti della testa e del collo sono diventati più ampi e controllabili. Anche il brusio profondo che emettevo si è trasformato in una quasi voce, un lamento da neonato, acuto, fastidioso, una buona arma per richiamare l’attenzione del possibile unaspected visitor.

La luce dalle tende rosse filtra sempre più fioca e ne seguo il rapido morire e il buio e su di me mentre mi riposo fra una serie di esercizi che sto facendo. Ormai riesco a muovere abbastanza da spostarmi di lato, la parte destra del corpo. Sfiancato, dopo il brutale esercizio, mentre la sete inizia a farsi imperiosa e le sigarette rimangono irraggiungibili, mi riposo ansando. Il mio recupero è sorprendente ma so che anche se raro è possibile nel best case. A mezzanotte, riesco a sedermi sul letto. Quando smetto di ansimare e mi sono ripreso dallo sforzo bestiale e di fine equilibrismo, riesco ad allungare una mano sulle Kali Kuba, mi metto una sigaretta in bocca, lascio cadere il pacchetto e allungo la mano sull’accendino.

Mi accendo la sigaretta. La assaporo come non ho mai fatto in vita mia. Aspiro il fumo lentamente e lo osservo mentre lo espiro lentamente. All’alba, quando la luce inizia a filtrare dalle tende rosse, riesco a raggiungere la bottiglia di minerale. Vuota. Mi viene da piangere. Verso mezzogiorno riesco, di sbieco, a raggiungere la doccia e apro il rubinetto ed apro la bocca mentre l’acqua inizia a cadere dentro e fuori di me.

La sigaretta e ancora appiccicata alle mie labbra e bevo acqua e sigaretta e aria e so che fra poco sarò pronto per vivere l’ultimo tratto della mia fantastica vita.

 Contributo di Pio Iglesias ©