Vera informazione o no? Uso strumentale della comunicazione di Stati e uomini politici

Pubblicato il 23 Gennaio 2017 in , da Vitalba Paesano

L’utilizzo degli strumenti della comunicazione, della propaganda e della manipolazione delle informazioni da parte di stati e leader politici per orientare opinioni e consensi non è un fenomeno inedito. Recentemente, il tema dell’uso strumentale dell’informazione è tuttavia balzato agli onori della cronaca internazionale, non da ultimo in occasione della campagna presidenziale americana. L’evoluzione e la pervasività dei nuovi media hanno indubbiamente favorito la rapida divulgazione delle notizie, ma la verifica della loro attendibilità è un compito impegnativo e passa spesso in secondo piano.

Il mondo di oggi è ben lontano dalle chiare logiche tipiche della propaganda del periodo della guerra fredda. I contenuti della disinformazione risultano adesso molto più variegati e l’identificazione dei loro responsabili sempre più difficile. Per descrivere questo fenomeno, è stata recentemente coniata una nuova espressione: “post–verità”, concetto che descrive il propagarsi di notizie false (fake news) o costruite ad arte che, spacciate per attendibili, finiscono per influenzare una parte dell’opinione pubblica. Come funziona il mondo della post–verità? E quali sono le conseguenze di questo fenomeno sui processi democratici e sugli equilibri politici internazionali?(Fonte e considerazioni ISPI)

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La propaganda come strumento di politica estera: il caso della Russia di Putin

di Alessandro Vitale, Università degli Studi di Milano

L’uso della propaganda come strumento di politica estera è noto da secoli. Nell’epoca contemporanea è servito in particolare a giustificare guerre e interventi militari. Nel caso della Russia – che nell’attuale fase di restaurazione politica interna ha visto la ripresa del controllo dello Stato da parte di una classe politica già in possesso per un settantennio delle leve del potere e una consistente continuità amministrativa – questo strumento, rivitalizzato da un quindicennio, è stato sottovalutato nelle analisi dei political scientists occidentali. È un paradosso, se si pensa a quante e quali tecniche siano state sviluppate nel periodo sovietico in tema di disinformazione, propaganda i agitacija, operazioni coperte e disorientanti, alterazione della storia, discredito nei confronti di nemici, costruzione di falsi dossier, e sulle quali si sono formati gli attuali detentori del potere, eredi di concrete istituzioni preposte alla propaganda e che vi fanno ricorso in modo massiccio anche nella conduzione contemporanea della politica estera.

Le tecniche di Information Warfare (IW) sono state perfezionate e si sono moltiplicate dai tempi della creazione di una fake façade della realtà sovietica. I nuovi media hanno fornito formidabili strumenti per la rinata potenza politico-militare, che non agisce solo per consolidare un proprio soft power, ma utilizza i metodi della “strategia indiretta” del passato, trasformata in agitazione politica e ricerca di supporter riuniti in network per l’influenza e l’azione politica in Occidente e nelle Repubbliche ex sovietiche indipendenti. Gli strumenti vanno dall’uso di media tradizionali alla creazione di canali televisivi all’estero (media-offshoring), a quello di internet con interi uffici dedicati alla disinformazione e all’orientamento dell’opinione pubblica e dei governi, di troll factories che agiscono con centinaia di addetti nei social media, nei blog e nei forum, diffondendo commenti pilotati, false informazioni e utilizzando le tecniche più sofisticate della guerra psicologica. Non sono state abbandonate le tradizionali pubblicazioni disorientanti, basate su documenti artefatti, presentati parzialmente o sulla de-contestualizzazione storica. In alcuni casi tali pubblicazioni sono apparse solo all’estero, così come film e documentari prodotti in grande quantità dal 2005 e finalizzati a influenzare l’opinione pubblica internazionale.

Le tecniche sono ancora quelle studiate in passato, in campo politico-militare, descritte ad esempio dall’analista americano T. L. Thomas: il discredito, l’inganno degli oppositori e il disorientamento dell’opinione pubblica (si pensi alla martellante retorica dei “fascisti” in Ucraina o nei Paesi Baltici). Si servono poi della “distrazione” (creazione di minacce immaginarie per fornire obiettivi inconsistenti e indurre la paralisi), dell’invio ai nemici di una grande quantità di informazioni contraddittorie, dell’esaurimento delle forze, inducendo a impiegarle per obiettivi inutili o fittizi, dell’inganno, provocando la concentrazione dell’attenzione e delle forze su temi e obiettivi irrilevanti, del divide et impera, inducendo fratture nel campo avverso (UE, NATO, partiti politici o coalizioni, anche mediante finanziamenti selettivi per influenzare elezioni e durante cicli elettorali), della deterrenza, creando l’impressione di un’insormontabile superiorità, della provocazione, al fine di indurre azioni a sé favorevoli, della suggestione, offrendo informazioni che colpiscano la legalità, moralità, ideologia, i valori del nemico (ad es. con una “guerra culturale” fra “valori tradizionali cristiani” e “liberalismo” occidentale, a volte utilizzando contraddittoriamente la storyline dell’“età d’oro” del regime sovietico). Si fa poi uso del discredito di interi Paesi o classi politiche agli occhi della popolazione o dell’opinione pubblica internazionale mediante tesi complottiste. Gli esempi di applicazione recenti sono innumerevoli. La disinformazione serve a preparare l’opinione pubblica prima di operazioni militari, come si è visto nella campagna crimeana o nel Donbas. Tutti questi metodi fanno parte della strategia (dottrina Gerasimov) del “conflitto non-lineare” (o hybrid warfare), nel quale sopravvivono i concetti militari dell’era sovietica: denial (blocco di informazioni utilizzabili dall’avversario), deception (sforzi per ingannare), distraction e disinformation (Volkov), considerati come strumenti non-militari di importanza superiore rispetto a quelli militari tradizionali.

Le finalità perseguite da un’autentica geopolitics of information (A. Grigas, G. Csurgai) sono manifeste e/o latenti. Fra le prime vi è il dichiarato contrasto al soft power occidentale, visto come “guerra non lineare” e alle sue “mire di destabilizzazione dello Stato russo” e del suo “cortile di casa” (near abroad) mediante “rivoluzioni colorate”. Fra le seconde vi è la creazione, mediante information tools e campagne comunicative, di una fake reality basata sulla manipolazione del passato, che consenta il perseguimento e la legittimazione di obiettivi specifici di politica estera, quali la riacquisizione dell’influenza nel near abroad, l’influenza sulle istituzioni straniere, nazionali e sovranazionali, logorandone l’autorità, la credibilità e la loro rete di alleanze e indebolendo l’efficacia del loro decision-making.

L’uso della propaganda a fini di politica estera non è certo una prerogativa della Russia di Putin. Tuttavia, gli strumenti usati e i metodi per conseguire precise finalità di politica estera ne fanno un uso fra i più efficaci al mondo. La sua specificità è che non può essere ridotta al soft power, dato che risponde a frequenti strategie offensive, con metodi consolidati e di antica origine, che possono causare o esacerbare conflitti, contrasti interetnici e regionali, divisioni fra istituzioni e raggruppamenti politici, ma anche giustificare ex post violenze, guerre o interventi militari.

 

Trump e l’utilizzo di Twitter: (quasi) niente di nuovo sotto il sole

di Diego Ceccobelli, Scuola Normale Superiore, Pisa

Per spiegare l’esito delle ultime elezioni presidenziali americane si è molto dibattuto sul ruolo di Twitter. Quello che è diventato ufficialmente il 45° presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si è infatti fin da subito contraddistinto per un utilizzo incessante di questa piattaforma digitale. Tuttavia, questo non è un tratto che caratterizza solo il caso statunitense o che ha caratterizzato unicamente le presidenziali americane del 2016, tutt’altro. Twitter è oramai un social media centrale per la comunicazione politica da almeno quattro o cinque anni non solo negli Stati Uniti, bensì in (quasi) tutte le democrazie occidentali, e non solo. Di fatto, le ultime presidenziali americane si sono mosse in linee di continuità con quanto già avvenuto in passato e poco possono aggiungere alla nostra comprensione e definizione di quello che è il ruolo di Twitter nella comunicazione politica contemporanea, soprattutto se visto come strumento di esercizio politico e del potere più in generale.

Un politico che sceglie di comunicare su Twitter lo fa per ottenere un obiettivo principale: ricevere la copertura mediatica da parte di ogni tipo di organo dell’informazione. Ovviamente, un tweet di un leader politico ha anche la potenzialità di arrivare direttamente a una mole rilevante di cittadini – più o meno alta in base al numero dei suoi follower. Tuttavia, quando un membro dello staff di un leader politico o il leader stesso pubblicano un tweet, il loro obiettivo è quello di fare in modo che quel cinguettio diventi il titolo d’apertura di un giornale sia nella versione cartacea il giorno seguente, che in tempo reale in quella digitale, oppure la flash news dei canali televisivi all-news, amplificando pertanto la portata comunicativa di un messaggio che, senza la reintermediazione dei giornalisti, rischierebbe di essere consumato da una percentuale dell’elettorato molto meno ampia.

Sempre in ottica comparata, è importante sottolineare come il social media che facilita maggiormente il rapporto diretto tra il leader e un numero significativo di cittadini è in realtà un altro, ossia Facebook. La netta maggioranza dei cittadini frequenta Facebook, non Twitter. Non esiste alcun Paese in cui il numero di cittadini iscritti a Twitter sopravanzi quelli degli iscritti a Facebook. Inoltre, la forbice che divide questi due valori è molto ampia e negli ultimi anni si sta perfino allargando. Rappresenta la norma, infatti, che mentre la penetrazione di Facebook superi ampiamente il 50% dei cittadini di un determinato Paese, quella di Twitter fatichi a raggiungere il 20%.

A prescindere da questi tratti che caratterizzano oramai strutturalmente il rapporto tra social media e cittadini nelle democrazie liberali contemporanee, l’utilizzo di Twitter da parte di Donald Trump può comunque essere considerato anomalo e paradigmatico. A differenza di Hillary Clinton, e di buona parte dei leader politici statunitensi e non solo, Donald Trump sembra gestire personalmente il suo account Twitter. Questo aspetto ha contribuito a dargli un’aura di autenticità che difficilmente viene associata ai leader politici nel loro utilizzo dei social media. Inoltre, questo lo ha reso ancor di più notiziabile. Il suo utilizzo spasmodico e aggressivo di Twitter ben si sposa con le esigenze degli attori mediali, sempre alla ricerca di nuove storie e/o semplici dichiarazioni da parte degli attori politici, in un sistema dell’informazione in cui il ciclo di vita delle notizie è oramai sempre più breve, e che quindi necessita continuamente di nuovi contenuti.

La centralità di Twitter nella comunicazione di Trump risulta comunque vincente e politicamente remunerativa per due motivi: i) perché il limite di 140 caratteri bene si lega con il suo stile comunicativo basato su frasi dirette e lapidarie, che più che fornire argomenti di discussione e confronto ottengono l’obiettivo di esprimere con forza –a prescindere dall’aderenza delle sue proposte o semplici dichiarazioni con la realtà – un determinato concetto, proposta o attacco politico; ii) perché sono i giornalisti stessi a prediligere dei contenuti brevi e coincisi, maggiormente trasformabili in notizie riassumibili in titoli da dare rapidamente in pasto ai propri lettori.

Al netto di queste dinamiche e processi politico-comunicativi ben noti e studiati da tempo dagli studiosi di comunicazione politica, è innegabile il fatto che il successo elettorale di Trump possa essere spiegato solo parzialmente dalla sua scelta di utilizzare Twitter, o dal modo specifico in cui si è servito e continua a servirsi di questo social media. Trump si è imposto fin da subito grazie al suo essere un leader notiziabile. Grazie ai contenuti che ha veicolato su ogni mezzo di comunicazione, quindi anche, non solo, sui social media, Twitter in particolare. Grazie alla debolezza dei suoi concorrenti sia durante le primarie repubblicane, che durante le elezioni presidenziali stesse. Non c’è dubbio che l’eventuale scelta di utilizzare i social media in maniera meno violenta e martellante non gli avrebbe garantito la stessa visibilità mediatica sia direttamente, ossia comparendo sulle timeline dei propri follower Twitter, sia indirettamente, attraverso la continua opera di reintermediazione dei suoi tweet operata in tempo reale da parte dei giornalisti. Tuttavia, dare un peso eccessivo al suo innovativo ed efficace utilizzo di Twitter avrebbe l’esito di allontanarci dalla corretta individuazione e comprensione delle cause che hanno portato all’elezione di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti.