Quanto vale la nostra libertà

Pubblicato il 21 Gennaio 2025 in , da Valentina Zavoli
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Il conflitto in Ucraina ci riporta a crudeltà che pensavamo di non rivivere più. Due film su Prime Video e Netflix ricordano la follia delle guerre di ieri e di oggi: “Un Ponte sul fiume Kwai” (1957) e “Numero 24” (2023)

L’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa di Putin si trascina ormai da 16 mesi e ha fatto ripiombare l’Europa in una situazione novecentesca che eravamo sicuri non sarebbe più potuta succedere. Sulle piattaforme Prime Video e Netflix due film diversi ci ripropongono a latitudini opposte come vincitori e vinti siano accomunati da un destino di follia che si chiama guerra. Il colossal pluripremiato “Un ponte sul fiume Kwai” del 1957 e “Numero 24” girato lo scorso anno dal norvegese John Andreas Andersen.

In apertura: “Un ponte sul fiume Kwai”

La prima pellicola, basata sul libro di Pierre Boulle edito nel ‘52 ex prigioniero nel conflitto indocinese, racconta in modo romanzato un episodio della costruzione della Burma Railway nel 1943 sul fiume Mekong dove morirono circa 13 000 prigionieri. In realtà furono edificati due ponti in uso per un paio di anni, uno in legno provvisorio e uno in ferro semidistrutto dai bombardamenti alleati ma poi riparato (e oggi rinomata attrazione turistica). Comparato alle sequenze adrenaliniche attuali, il film con le sue quasi 3 ore di girato, ha cali di tensione e tradisce il gusto dell’epoca ma fa piacere ogni tanto immergersi nei campi lunghi, nelle sequenze diluite, nei colori sfumati, nella sceneggiatura ragionata. Il regista inglese David Lean, autore di colossal qualiLawrence d’Arabia”, “Il dottor Zivago”, annovera, con il contributo della musica (la celebre marcia fischiettata diventa un cult) numeri da record per quei tempi: ricostruisce a Ceylon per 9 mesi un gigante di legno che nella sequenza finale salta in aria in 40 secondi, riceve 8 premi Oscar, tra cui miglior attore per sir Alec Guinness. L’attore inglese, qui nel suo ruolo più iconico, è l’integerrimo colonnello Nicholson a capo di una guarnigione inglese arresasi al Giappone, confinata in un campo di lavoro in Birmania, a cui viene imposto di costruire il ponte per la ferrovia sopra il fiume Kwai. Il suo alter ego è Shears, un anonimo marinaio Usa che si finge comandante, impersonato da un magnifico William Holden, che morirà nel tentativo di portare a termine la distruzione dell’opera; per molta parte di critica – in specie quella americana – è considerato il vero protagonista morale. Nicholson è l’emblema del fanatismo e della vanità ammantata di legge militare e dell’inglesissimo senso di superiorità morale sui barbari, (“Quando questa guerra finirà si saprà che questo è stato fatto non da schiavi ma da soldati inglesi”); il suo rigore sfocia nella emblematica scena finale in cui colpito da fuoco amico per aver cercato di impedire il sabotaggio muore cadendo sulla leva che farà detonare il ponte. Riecheggiano le parole del medico che assiste alla scena: “Follia, follia”, molto simili all’orrore di “Apocalips now”.

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“Numero 24” (credit Netflix)

Le guerre raccontata da “Numero 24”

Di sabotaggi se ne intendeva anche il protagonista di “Numero 24”, in biopic calibrato ed elegante sulla vita di Gunnar Sønsteby, (impersonato dal bravo attore Sjur Vatne Brean), l’eroe della Resistenza norvegese più medagliato della storia del suo Paese. Il film è un lungo flash back in cui, durante uno degli innumerevoli incontri con le scuole nella sua città natale, un Sønsteby anziano (Erik Hivju) ripercorre la sua vita dopo che, il 9 aprile del 1940, i tedeschi invadono la Norvegia con 800 uomini e il ventiduenne contabile di Rjukan capisce che nulla sarebbe stato come prima. “Pensavamo di vivere nel dopoguerra e poi all’improvviso capimmo che era solo una pausa fra due guerre”. Spia, falsario, informatore (faceva la spola a piedi con la Svezia), a capo della Special Operations Executive (SOE), dove gli viene dato il suo nome di battaglia, 24. Con la sua ‘banda di Oslo’ distrugge la fabbrica di armi di Kongsberg, bombarda gli archivi dell’Ufficio di collocamento per impedire l’arruolamento dei sui connazionali nella  Wehrmacht, elimina collaborazionisti e traditori del suo popolo. Il costo per questi cinque anni, fino alla liberazione, l’8 maggio 1945, è la sua giovinezza: non dorme mai nello stesso posto, pianifica i colpi, non si fida di nessuno, non si concede distrazioni, non ha tentennamenti quando deve giustiziare i membri delle SS ma anche i fiancheggiatori degli invasori, come il suo amico d’infanzia, scoperto delatore, Erling Solheim. Si capisce, attraverso la sua figura, un po’ di più del carattere di un paese di 5 milioni di abitanti che è orgogliosa dei propri monarchi e, con vari referendum, ha scelto di non entrare nell’Unione Europea pur facendo parte del mercato comune. “In guerra le sfumature scompaiono, esiste solo il bianco o il nero” (…) Quanto vale la libertà?”  domandano le nuove generazioni. “Per me non ha prezzo” risponde il protagonista, ma il regista sembra porre questo interrogativo ormai non più rinviabile anche al pubblico. E allora, prima o poi, anche noi dovremo rispondere.

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“Numero 24” (credit press-international.sfstudios.se)

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