5-Intorno a un Martini Dry: il cibo e la critica sociale

Pubblicato il 12 Gennaio 2015 in , , da Vitalba Paesano

Il fascino discreto della borghesia

Francia-Italia-Spagna 1972; regia Luis Buñuel; sogg. e scen. Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; fot. Edmond Richard; mus. Hélène Plemiannikov; scenogr. Pierre Guffroy; cost. Jacqueline Guyot; int. Fernando Rey (Rafael Acosta), Paul Frankeur (François Thévenot), Delphine Seyrig (Simone Thévenot), Jean-Pierre Cassel (Henry Sénéchal), Stéphane Audran (Alice Sénéchal), Bulle Ogier (Florence), Milena Vukotic (domestica), Julien Bertheau (mons. Dufour), Michel Piccoli (ministro), François Meistre (commissario), Pierre Maguelon (brigadiere) Claude Piéplu (colonnello); dur. 102′

 

Se la realtà è apparenza, ne viene che l’apparenza è realtà,

a meno che la realtà non sia l’apparenza dell’irrealtà

(Ramón Gómez de la Serna)

 

Il motore narrativo del film è l’impossibilità dei sei personaggi principali di sedersi a tavola e consumare insieme un pasto. Pranzi e cene, concordati di volta in volta, vengono infatti rimandati o interrotti per i più svariati motivi. L’esistenza di queste persone, esponenti delle classi più elevate, è peraltro rappresentata attraverso incontri, adulteri, sotterfugi e bassezze ancora più ignobili (il traffico di stupefacenti) in cui la ritualità del cibo rappresenta semplicemente gli istinti-base di ogni essere umano. In altre parole Buñuel riconduce alla sua essenza primaria tutte le sovrastrutture di cui la società si è ammantata nel corso dei secoli e la tavola diventa metafora della fame insaziabile, della cupidigia, dell’ingordigia di chi passa in continuazione da un banchetto all’altro senza avere peraltro necessità di nutrirsi.

E accanto al cibo, il sesso. Il secondo appuntamento a casa dei Sénéchal va in fumo perché gli ospiti fuggono in giardino per fare l’amore, ma anche la visita di Simone Thévenot all’ambasciata per consumare un adulterio viene interrotta dall’annuncio di un nuovo invito a cena. Subito dopo don Rafael Acosta neutralizza una terrorista del suo paese e, mentre le svuota la borsa (pane, verdura e… una pistola), azzarda un’avance che termina con queste parole: «Lo capirai tu stessa a Miranda, quando sarai costretta ad aprire le cosce di fronte a un intero battaglione di fanteria».

Cibo, sesso e sopruso. Per questi ineffabili personaggi il contratto sociale, fondamento della convivenza democratica, è lettera morta. Arrestati per traffico di cocaina vengono liberati dal brigadiere insanguinato, ansioso di redimersi per aver usato metodi brutali nella repressione delle rivolte studentesche. Benché si tratti di un sogno, basta una telefonata del ministro dell’interno (corrotto o colluso), perché esso si trasformi in realtà.

Che si tratti di cibo, di sesso o di questioni legali, per questi personaggi è tutto un girare a vuoto. Il loro è un andare senza meta, da un nulla verso un altro nulla come nella straordinaria metafora del cammino su una strada deserta che compare due volte nel corso del film, come uno stacco incongruo rispetto al racconto, e che chiude la pellicola con una sfocatura dell’obiettivo e un fermo immagine senza che compaia la parola fine.

L’orizzonte morale di questi grandi borghesi è esclusivamente terreno. La cultura, anche nella sua accezione più convenzionale, gli è del tutto estranea. Il loro talento si limita all’arte di cucinare o assaporare il Martini Dry: «Rafael sa bene che il Martini Dry va bevuto come lo champagne. Va un po’ masticato» afferma Thévenot dopo di che, per dimostrare il suo assioma, propone un “esperimento”. Viene chiamato l’autista dell’ambasciatore e gli viene offerta una coppa che questi scola in un fiato. «Avete visto? È l’esempio di come non si deve fare con il Martini Dry» commenta Thévenot. Al che sua moglie ribatte: «Bisogna essere comprensivi. Maurice è un uomo del popolo, non ha avuto educazione». Con molta serietà, don Rafael conclude: «Nessun sistema politico potrà dare al popolo la raffinatezza auspicabile. Eppure mi conoscete: io non sono un reazionario». L’opposizione di Buñuel verso il sistema che egli mostra sullo schermo è totale anche se il suo pessimismo si stempera nell’umorismo. In senso stretto nella filmografia buñueliana non ci sono personaggi più negativi di questi, ma lo stile, la fluidità narrativa, la levità del tocco, li rende non solo verosimili e credibili, ma convincenti e, per certi versi, persino simpatici.

Nel film la rappresentazione dei sogni (sogno del tenente, della staffetta militare, di Thévenot che include quello di Sénéchal, del commissario e dell’ambasciatore) ha una valenza rilevante e ne costituisce la cifra stilistica. Il suo scopo è spostare l’asse drammaturgico dal reale al possibile mantenendo inalterata l’azione scenica. Il regista compone così la sua opera attraverso una serie di paradossi. In filosofia il paradosso è un ragionamento che contiene in sé una contraddizione che serve a evidenziare una realtà diversa da quella mostrata a prima vista. Tutto il film è un paradosso in quanto nelle vicende di questi sei borghesi, così affascinanti e discreti, è contenuto tutto ciò che di negativo si è accumulato nel corso della storia sulla classe sociale che, dalla Rivoluzione Francese in poi, si è resa responsabile dei destini del mondo intero.

Nel sogno trovano spazio le pulsioni e le verità nascoste che il reale cela sotto le sue ipocrisie. Inoltre sogno e realtà appartengono alla stessa sfera dell’esperienza sensibile e per questo vengono rappresentati senza quegli effetti (sfumati, distorsioni, flou…) che solitamente li identificano come tali. Il sogno non è percepito come tale dallo spettatore fino al suo epilogo sicché l’impatto straniante è totale. Lo straniamento è dunque lo strumento estetico che consente all’autore di portare il paradosso fino alle sue estreme conseguenze.

Anche la realtà, però, a volte sconfina nell’assurdo. Lo dimostra, per esempio, l’episodio del vescovo e del giardiniere morente. Quest’ultimo ha chiesto l’intervento di un sacerdote per confessare in extremis un vecchio delitto. Un incredibile gioco del destino gli pone di fronte il figlio delle persone uccise. Il perdono che egli chiede è dunque rivolto non solo al prete (cioè a Dio), ma anche all’uomo. Il prelato gli impartisce l’assoluzione sottolineando la provvidenzialità di quell’incontro dopo di che uccide il moribondo con un colpo di fucile. Anche i ministri della Chiesa, come i borghesi di cui curano il giardino, si frappongono storicamente al riscatto dei più umili.

film 2Il fascino discreto della borghesia riassume in sé il percorso artistico e ideologico del suo autore, formatosi all’interno del movimento surrealista negli anni ’30 del ‘900 a Parigi e proseguito poi con alterne vicende personali, in Spagna e in Messico fino al ritorno creativo in Francia negli anni ’60 e ’70. Pur essendo un film all’apparenza leggero (merito, lo ribadiamo, soprattutto dello stile) è in realtà uno dei più pessimistici, la pietra tombale delle illusioni sul cambiamento della natura umana e della società. La fine di ogni utopia. La storia non è il terreno di confronto delle ideologie, ma un teatro in cui tutti recitano un copione insensato, interpretano un ruolo che non gli è proprio e di cui ignorano le battute. Muovendosi lungo tracce indecifrabili che non portano in nessun luogo.

Il discorso di Buñuel sulla fine delle utopie (a cominciare da quella cristiana e quella marxista) va inteso in senso metastorico, come metastorico è, in fondo, il contesto in cui egli colloca i suoi personaggi. I cenni all’attualità (i preti operai, la contestazione giovanile…), entrano a far parte del paradosso. Ne sono anzi la componente essenziale proprio per il loro andare al di là della cronaca. D’altra parte la metafora del cammino senza meta lungo la strada deserta ha il suo tragico ed enigmatico equivalente in un’altra sequenza del film che non è forzato leggere come metafora più generale della condizione umana: quella città dei morti, nel sogno del militare, in cui il giovane si trova a vagare, solo e disperato, lungo una strada piena d’ombre dove nessuno gli risponde.

 

film 1CURIOSITÀ – Nella scena del Martini Dry la “ricetta” di Thévenot ricalca quella fornita dallo stesso Buñuel nel suo libro di memorie Dei miei sospiri estremi (Rizzoli): «La mia bevanda è il Martini Dry […] come tutti i cocktail, probabilmente un’invenzione americana. Composto essenzialmente di gin e poche gocce di vermut, meglio se Noilly-Prat […] Altra raccomandazione: il ghiaccio dev’essere molto freddo, e molto duro, per evitare la più piccola perdita d’acqua. Non c’è niente di peggio che un Martini annacquato […] Ecco la mia ricetta personale, frutto di una lunga esperienza, con la quale raccolgo sempre un discreto successo. Il giorno che precede l’invito, metto tutto l’occorrente in frigorifero: bicchieri, gin e shaker. Un termometro mi permette di regolare la temperatura del ghiaccio, mantenendola su venti sottozero costanti. Il giorno dopo tiro fuori tutto. Sul ghiaccio durissimo verso dapprima qualche goccia di Noilly-Prat e un mezzo cucchiaino da caffè di angostura. Scuoto e butto via. Trattengo solo il ghiaccio, che conserva la traccia leggera dei due profumi, e sul ghiaccio verso direttamente il gin puro. Scuoto un altro po’ e servo. Tutto qui, ma è una delizia».