Vatel
Gran Bretagna-Francia 2000; regia Roland Joffé; sogg. Roland Joffé; scen. Jeanne Labrune, Tom Stoppard; fot. Robert Fraisse; mus. Ennio Morricone; scenogr. Cecilia Montiel, Jean Rabasse; cost. Yvonne Sassinot de Nesle; int. Gérard Depardieu (François Vatel), Julian Glover (Principe di Condé), Julian Sands (Luigi XIV), Tim Roth (Marchese di Lauzun), Uma Thurman (Anne de Montauisier), Timothy Spall (Gourville), Murray Lachlam Young (Filippo d’Orléans), Arielle Dombasle (Principessa di Condé), Marine Delterme (M.me de Montespan), Hywel Bennett (Colbert), James Thierrée (Duca di Longueville); dur. 117′
Armonia e contrasto. Ogni bellezza
deriva da questi due elementi
(François Vatel)
Fritz Karl Watel (1631-1671) è un personaggio storico. Svizzero naturalizzato francese, aveva cambiato il proprio nome in François Vatel ed era entrato al servizio di alcuni grandi nobili della corte di Luigi XIV come cuoco, maestro di cerimonie e intendente generale. Tra i suoi “datori di lavoro” il ministro delle finanze Nicolas Fouquet e, dopo la caduta in disgrazia di questi, il principe di Condé, generale dell’esercito.
Storico il personaggio e storico l’episodio messo in scena nel film. Joffé racconta infatti gli ultimi tre giorni di vita di Vatel che coincidono con i festeggiamenti in onore del Re Sole offerti da Condé nel suo castello di Chantilly. Benché sia sull’orlo della bancarotta, perseguitato dai creditori e in dissidio con il sovrano, il principe spera di rientrare nelle grazie reali proprio per mezzo del lungo ricevimento la cui organizzazione viene affidata a Vatel.
Sin dal rinascimento non era raro che artisti, anche del calibro di Leonardo e Michelangelo, si dedicassero all’allestimento delle feste per i potenti di cui erano al servizio. Esattamente come Vatel nell’episodio in questione. La loro creatività si esprimeva al meglio anche in questi spettacoli effimeri per i quali, spesso, le cronache coeve abbondano di elogi.
Dopo The Mission (1986) e La lettera scarlatta, (1995), con questo suo film Joffé torna per la terza volta al periodo storico compreso tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 utilizzando per la messa in scena le unità aristoteliche (tempo, luogo, azione). Siamo nell’aprile del 1671 e ciascuna delle tre giornate in cui si articola il narrato è scandita dal ritmo dei lavori preparatori dei banchetti che ogni sera intrattengono la corte con sontuose portate e spettacoli a tema. Lo stesso arrivo del re al castello del suo ospite diventa una sorta di fastosa rappresentazione teatrale che esalta la potenza del sovrano.
A questo canovaccio principale si sovrappone la messa in scena degli intrighi di corte, gli adulteri, i soprusi, persino le violenze che gran parte dei convenuti mette in atto o per riaffermare il proprio ruolo o per acquisire nuovo potere o anche semplicemente per esibire una (pre)potenza fine a se stessa. In questa sentina di vizi e turpitudini gli unici “innocenti” sono il geniale Vatel, interamente assorbito dalla propria arte, e la signora di Montauisier, dama di compagnia della regina e unica donna non intenzionata a sfruttare le proprie capacità seduttive per ottenere favori. Fatale che in mezzo a tante mistificazioni, inganni, menzogne, tra i due sbocci un sentimento sincero e disinteressato.
Dunque il film di Joffé ripropone, in chiave romanzesca, l’eterno dissidio tra egoismo e generosità, ma i personaggi sono un po’ stereotipati, di scarso spessore psicologico, e l’assunto è altrettanto semplice: l’amore vero è destinato a soccombere sotto il peso dell’ipocrisia.
Oltre ai secoli del barocco, nei suoi film Joffé ha spesso affrontato temi storici: la guerra in Cambogia in Urla del silenzio (1975), il progetto americano dell’atomica negli anni ’40 in L’ombra di mille soli (1989), e la vita di Josemaría Escrivá de Balaguer, il fondatore dell’Opus Dei, nel recente There be dragons (2011). Dunque, una questione che riguarda per intero l’opera del regista franco-inglese è appunto il modo in cui il cinema di fiction può mettere in scena fatti realmente accaduti senza rinunciare a una propria visione del mondo e a una propria verità. Tenendo conto che la storia non si può tradire oltre certi limiti e sempre nel rispetto i suoi dati oggettivi.
Dunque, fedeltà o trasgressione? La soluzione del problema, alla portata peraltro di pochi registi come Ejzenstejn o Visconti, sta nella ricostruzione dell’ambiente psicologico che determina la situazione storica e l’agire dei suoi protagonisti. Casi emblematici dei due autori citati sono film come Ivan il Terribile (1944) e La congiura dei boiari (1946), Senso (1954) e Il gattopardo (1963). In essi le vicende narrate dagli annali sono rappresentate e analizzate nel loro significato metastorico. Lo zar fondatore della Russia moderna diventa così un despota tormentato e amletico che agisce sospinto dal destino quasi come un personaggio da tragedia greca mentre l’epopea risorgimentale viene rappresentata in chiave antieroica, mettendo in scena egoismi e ambiguità piuttosto che audaci imprese e trionfi militari. Altro caso emblematico è rappresentato dai film di Roberto Rossellini, sia la cosiddetta “trilogia della guerra” (Roma città aperta, 1945; Paisà, 1946; Germania anno zero, 1948) sia i film per la televisione degli anni ’60 tra cui, significativo, La prise de pouvoir par Louis XIV (1966) assolutamente antitetico rispetto al lavoro di Joffé.
Considerazioni a parte merita poi la colonna sonora, composta da Ennio Morricone che torna per l’ultima volta a collaborare con questo regista dopo le precedenti esperienze di The Mission, L’ombra di mille soli e La città della gioia (1992). L’ispirazione e l’unità di intenti che si erano verificate con The Mission non si sono ripetute in nessuno dei film successivi. Tanto meno in questo per il quale Morricone compone un tema piuttosto debole e melenso rinunciando persino a intervenire con un proprio commento sonoro in occasione del banchetto serale del secondo giorno per il quale viene invece utilizzata la Firework Music di Georg Friedrich Händel. Appropriata al contesto, in quanto commissionata per una analoga occasione alla corte inglese, ma composta nel 1749, ossia 78 anni dopo i fatti narrati da Joffé.
Curiosità:
Benché ambientato nel castello di Chantilly, la pellicola venne girata nel castello di Vaux-le-Vicomte, vicino a Parigi. Per combinazione entrambe le dimore avevano comunque visto le gesta di François Vatel come maestro di cerimonie. Nel primo al servizio di Condé, nell’altro di Fouquet.
Una breve scena ricostruisce romanzescamente l’invenzione della crema chantilly. Informato dell’impossibilità di realizzare la crema per il dessert perché una partita di uova è inutilizzabile, Vatel fa montare la panna con lo zucchero e la fa servire in coppe con fragole. «Se vi chiedono cos’è, ditegli che è una ricetta segreta di Chantilly» commenta il personaggio interpretato da Gérard Depardieu. In questa breve scena viene peraltro mostrato un contenitore di zucchero con dentro la classica granella bianca a cui siamo abituati. Nel XVII secolo però lo zucchero raffinato di barbabietola non esisteva ancora.