2-Nel giardino dei semplici la rosa del sapere

Pubblicato il 5 Novembre 2014 in , , da Vitalba Paesano
….  il cibo della conoscenza
Il nome della rosa Italia-Francia-Germania 1986; regia: Jean-Jacques Annaud; sogg. dall’omonimo romanzo di Umberto Eco; scen. Andrew Birkin, Gerard Brach, Howard Franklin, Alain Godard; fot. Tonino Delli Colli; mus. James Horner; scenogr. Dante Ferretti; cost. Gabriella Pescucci; int. Sean Connery (Guglielmo da Baskerville), Christian Slater (Adso da Melk), F. Murray Abraham (Bernardo Gui), Michel Lonsdale (l’abate), Feodor Chaliapin jr. (Jorge), Ron Perlman (Salvatore), Valentina Vargas (la ragazza), Elya Baskin (Severino), William Hickey (Ubertino da Casale) Volker Prechtel (Malachia), Helmut Qualtinger (Remigio da Varagine); dur. 126′

Le abbazie sono orgogliose

dei prodotti della loro terra e delle loro stalle,

e della perizia dei loro cucinieri.

(Umberto Eco)

 Jean-Jacquea Annaud è un autore atipico nel panorama del cinema internazionale. A lui si devono infatti opere come La guerra del fuoco (1981), film privo di dialogo che mette in scena l’umanità preistorica, L’orso (1987), docu-fiction ambientato nel Canada del XIX secolo (ma girato tra le dolomiti) e Due fratelli (2004) ancora con degli animali (in questo caso tigri) come protagonisti. Accanto a queste opere, in bilico tra antropologia ed esotismo, il regista francese ha realizzato film storici (Sette anni in Tibet, 1997; Il nemico alle porte, 2001; Il principe del deserto, 2011) e anche drammi come L’amante (1991), da un romanzo di Marguerite Duras.

Anche qui Annaud parte da un’opera letteraria, ma mette in scena il best seller di Umberto Eco variandone non poco la sostanza pur affrontando il medesimo problema che sta al centro del romanzo: la conoscenza.

Umberto Eco focalizza il problema della conoscenza attraverso un testo dell’antichità andato perduto: il Secondo Libro della Poetica di Aristotele in cui il filosofo stagirita parla della commedia ossia del Bello che induce al riso. Se il libro non è arrivato sino a noi, argomenta lo scrittore, è perché nel Medioevo la sua lettura, e quindi la sua riproduzione, era proibita in quanto contraria alla dottrina della Chiesa. Il centro del romanzo è dunque un centro vuoto: l’occhio di un ciclone attorno al quale si scatenano le più terribili tempeste, i delitti, le distruzioni.

Per l’uomo moderno è pacifico che la scienza si muova autonomamente rispetto all’etica così come nessuno la subordinerebbe alla filosofia né, tanto meno, alla teologia. Tali caratteristiche del sapere scientifico sono relativamente recenti e risalgono al pensiero di autori quali Galilei, Hobbes, Locke e Hume, attivi tra la fine del ‘500 e il ‘700. Costoro avevano però avuto degli anticipatori nel XIII e XIV secolo: Duns Scoto, Ruggiero Bacone e Guglielmo d’Occam. Nel Nome della rosa il personaggio immaginario Guglielmo da Baskerville si dimostra ottimo discepolo di Bacone e Occam (esplicitamente citati) proprio nell’affidarsi alla ragione per indagare sui delitti avvenuti nell’abbazia senza scomodare, come fanno invece gli altri monaci, angeli, demoni o altre forze soprannaturali.

Nel corso degli avvenimenti però Guglielmo capisce che per scoprire il colpevole degli omicidi deve raggiungere la conoscenza racchiusa nel libro proibito. Anche l’inevitabile conflitto con il vecchio Jorge rientra in questo schema poiché l’ex bibliotecario impersona i limiti che la religione pone (anche oggi) alla libertà della ricerca. Nel Medioevo i chierici (il clero) erano gli unici depositari del sapere che rifletteva e perpetuava la rigida struttura piramidale di una società a compartimenti stagni.

Il romanzo verte dunque sulla conoscenza (i suoi limiti, i suoi confini, le sue categorie), ma, essendo Eco un semiologo, per lui la conoscenza si struttura essenzialmente attraverso dei segni. L’opera di Guglielmo (e, di conseguenza, anche quella del lettore) consiste infatti essenzialmente nella decifrazione dei segni (che possiamo anche chiamare indizi) attraverso cui la conoscenza viene veicolata. Tracce lasciate dagli assassini, ma soprattutto simboli dell’altra conoscenza cui Guglielmo aspira. La vicenda gialla del romanzo si trasforma così in un trattato di semiologia che però, in assenza del segno determinante (il libro aristotelico) non porta ad alcuna conclusione.

Il film, invece, propone un messaggio ben più preciso: gli idoli vanno abbattuti. Nel libro l’inquisitore Bernardo Gui (personaggio realmente esistito, come Ubertino da Casale) conclude l’interrogatorio di Remigio, il cellario, con queste parole: «L’imputato, reo confesso, sarà condotto ad Avignone, dove avrà luogo il processo definitivo, a salvaguardia scrupolosa della verità e della giustizia, e solo dopo quel regolare processo sarà bruciato». Nelle pagine successive di questi due personaggi non si parla più. Nel film invece si approntano i roghi nella stessa abbazia dove è avvenuto l’interrogatorio, destinati non solo al frate economo, ma anche al deforme Salvatore e alla ragazza senza nome con la quale Adso da Melk, l’io narrante, ha avuto un fugace rapporto amoroso tra i sacchi e le botti della dispensa.

Alla scena dei roghi ne seguono altre due, pure assenti nel romanzo: la morte dell’inquisitore e la sollevazione del popolo. Proprio la rivolta della plebe rappresenta il termine di maggior interesse per comprendere lo spostamento di focale operato da Annaud. Nel XIV secolo sollevazioni popolari avvengono un po’ in tutt’Europa: dal Tumulto dei Ciompi di Firenze (1378) alle sommosse di Gand e Ypres (1379), Lubecca (1380), Rouen e Parigi (1382). Insomma in tutto il vecchio continente le classi subalterne prendono coscienza della loro condizione e si ribellano al potere. A partire da quello della Chiesa. Annaud ha dunque spostato il problema della conoscenza dall’astrattezza della filosofia e della semiologia al concreto della conflittualità sociale.

Emblema di questa nuova dimensione è la ragazza senza nome. Figura inconsistente e fugace nel romanzo, nel film diventa la portatrice del messaggio più drammaticamente moderno dell’intera vicenda. Oppressa dalla fame (la prima volta la vediamo rovistare tra i rifiuti di cibo gettati dal convento), diventa oggetto, strumento nelle mani di altri che la manipolano proprio attraverso il ricatto della “carne” (le interiora con cui il cellario compensa i suoi incontri sessuali).

Ecco dunque che i pur brevi riferimenti al cibo presenti nel film assumono un’importanza chiave. Sin dalle prime battute Annaud introduce lo spettatore nella concretezza della vita materiale della comunità monastica. All’arrivo di Guglielmo e Adso nell’abbazia vediamo il Giardino dei semplici, ossia l’orto con le piante aromatiche e curative utilizzate nella fornitissima erboristeria del monastero, anch’essa mostrata con dovizia di particolari. Della dispensa abbiamo già detto e, siccome la vicenda è ambientata a novembre, ecco l’uccisione del maiale, momento di grande rilevanza nell’economia rurale del Norditalia fino a gran parte del secolo scorso. E poi la consegna al cellario delle derrate (oche, galline, uova, verdura) da parte dei contadini: uno dei motivi della rivolta conclusiva. Annaud si sofferma volutamente su stalle e cantine in quanto le abbazie medievali, oltre che centri di fede e cultura, erano vere e proprie aziende agricole, responsabili della bonifica e della messa a coltura di vastissime aree. Infine il regista porta sullo schermo i momenti conviviali del cenobio con i frati riuniti nel grande refettorio e il lettore che dall’ambone intrattiene i confratelli con la parola del Signore. Un mondo concreto, dice Annaud, contrapposto alla Chiesa Trionfante, fatto di animali e piante, uomini e donne che purtroppo vivono su una terra più simile all’inferno che al paradiso.