I principi base dell’architettura biofilica riguardano l’utilizzo efficace dei dislivelli del terreno, le coperture verdi, le ampie superfici per terrazzi e giardini, attrezzati in modo da offrire ogni comodità anche per la vita all’aria aperta
A differenza di altri movimenti, l’architettura organica ha espresso nei decenni un elevato grado di flessibilità, includendo oltre alle intuizioni e ai progetti pionieristici (si pensi alla ‘Casa sulla cascata’ di Franck Lloyd Wright) diversi approcci tecnici ed estetici. Se negli anni ’80 era forse parsa prevalere una corrente più ‘tecnica’ e maggiormente impegnata nella ricerca di soluzioni costruttive ai problemi posti dall’inquinamento, al contempo il concetto di ‘edificio ecologico’ aveva già travalicato il movimento organico, lasciando un segno indelebile in architetture mimetiche come quelle di Emilio Ambasz di fine anni ’70, a cominciare dalla casa di Siviglia, dove l’architettura veniva ridotta a quinta teatrale, un segno di sapore metafisico: un semplice setto murario a libro, una scala e un balcone con musharabia (un dispositivo di ventilazione forzata naturale, frequentemente usato nell’architettura tradizionale dei Paesi arabi. La riduzione della superficie, prodotta dalla griglia della musciarabia, accelera il passaggio del vento. Fonte Wikipedia) ad aprirsi sul paesaggio circostante. Le funzioni domestiche erano infatti interamente espletate al piano seminterrato, ideato per garantire una temperatura confortevole sia d’inverno che in estate, ma principalmente concepito come primo esempio di un desiderio di dissoluzione della costruzione, un frammento post-moderno che diventava principalmente invisibile, cedendo il passo a un paesaggio apparentemente naturale e invisibile.
In apertura Bosco verticale, studio Stefano Boeri Architetti _ph.Dimitar Harizanov
Questo principio era in realtà già all’opera, rovesciato, anche nelle ‘superarchitetture’ utopiche di Superstudio: più che delle costruzioni infatti, i loro progetti di ‘urbanizzazione totale’ rappresentavano infatti delle infrastrutture fuoriscala per nuovi nomadi, reticoli giganteschi in grado di imbrigliare indifferentemente le città quanto gli ambienti naturali, ma senza mai creare veri spazi abitati, piuttosto palcoscenici a servizio di una nuova umanità senza radici. Ed è proprio quel seme utopico, dichiarato e ben visibile nell’architettura radicale italiana di Superstudio, che, nascosto, era già all’opera anche nella scomparsa dell’architettura di Ambasz e si è sviluppato fino a noi nell’odierna corrente dell’architettura biofilica.
Architettura biofilica, le caratteristiche principali
Pochi mesi fa Salvatore Peluso per la rivista online del Salone del Mobile, ha provato a riassumere i principi cardine di questo nuovo tipo di architettura che ha in ben sintetizzato come “una strategia progettuale che tiene conto della spontanea tendenza degli esseri umani a sentirsi bene in mezzo alla natura” e che nella sua interpretazione risalirebbe alla definizione di biofilia data dal filosofo Fromm e dal biologo Wilson. Senza addentrarci nei meandri della Scuola di Francoforte, ci limitiamo qui a osservare che molti dei principi enunciati per definire questa nuova architettura biofilica, coincidono in effetti proprio con quella visione utopica della fine degli anni ’60 all’opera nel design radicale italiano come nei progetti dell’artista francese Yves Kein, progetti che, in quanto utopici, erano in effetti sempre rimasti su carta e la cui traduzione più simile rimanda ancora una volta ad Ambasz per primo, ma anche alle abitazioni di lusso che Christie’s ha in programma di costruire in Gallura e che si prevede scompaiano letteralmente nel paesaggio, senza alterarne la bellezza e consentendo agli ospiti il desiderato contatto con la natura, senza rinunciare ai comfort contemporanei.
Operazioni analoghe, forse meno mimetiche, sono del resto già state progettate sia da Fuksas (sempre in Sardegna) che da Foster (in Corsica): caratteristiche principali sono usualmente un utilizzo efficace dei dislivelli del terreno e l’utilizzo di coperture verdi e ampie superfici per terrazzi e giardini, attrezzati in modo da offrire ogni comodità anche per vita all’aria aperta. E’ già dalla ripresa post-covid che anche i principali produttori italiani di arredo hanno colto il trend sviluppando molte linee di arredi da esterno che garantiscono le stesse funzioni e comodità presenti all’interno delle case, con veri e propri salotti (B&B Italia, Molteni, Baxter), cucine (Smeg, Fantin), alcove (Poliform) e anche docce da giardino. Anche la Camera Nazionale della Moda, nel suo testo dedicato all’architettura sostenibile per il commercio, aveva promosso l’architettura biofilica e molti dei suoi principi, in grado di garantire alle costruzioni un maggior grado di benessere e un minor impatto ambientale. Così anche il Welcome centre, centro direzionale per Milano Crescenzago progettato dal giapponese Kengo Kuma, che promette la generazione di una piazza e di terrazze verdi in connessione con il parco Lambro per più di 12.000 mq.
Ma oltre a tetti o terrazze ‘verdi’, le case biofiliche forniscono più luce e ventilazione naturali, nonché l’impiego di materiali organici e rinnovabili come il legno (che sia Kuma sia Foster hanno impiegato anche per le strutture), il risparmio dell’acqua di falda attraverso la raccolta e riuso dell’acqua piovana e sempre più spesso la produzione di energia elettrica in situ attraverso pannelli fotovoltaici. L’aspetto più interessante inoltre, come nel caso di Milano, è l’impiego di soluzioni sperimentali come la ‘fabbrica dell’aria’: una sorta di serra che verrà utilizzata per la ventilazione dello stabile in modo da biofiltrare l’aria interna rimuovendo gli inquinanti interni grazie alle piante e alle loro radici.
Architettura biofilica, le difficoltà di applicazione
Allo stato attuale però, permangono ancora difficoltà di vario genere nell’applicazione di questi principi, per esempio per la ristrutturazione del vasto patrimonio edilizio italiano: i casi studio fanno infatti riferimento a edifici di nuova costruzione e principalmente a uso non residenziale. Da questo punto di vista il carattere utopico che storicamente ha consentito lo sviluppo e l’affermazione di questa nuova tendenza, ne segna anche il limite: la difficoltà attuale nel trovare soluzioni intermedie e applicazioni a basso costo o realizzabili per gradi, lo stesso limite che abbiamo segnalato più in generale anche nelle agende green delle istituzioni internazionali.
In base all’interpretazione del design biofilico del prof. Kellert di Yale, si dovrebbe infatti ricostruire (e rifondare) la gran parte delle abitazioni e delle città in quanto non presuppongono, se non raramente, un “contatto costante con la natura”, ma solo “esperienze occasionali”. In questa accezione, il design biofilico, per quanto interessante, risulterebbe pertanto accessibile ai pochi interventi di nuova costruzione dotati di un solido budget. Sebbene non faccia dichiaratamente riferimento ai principi dell’architettura biofilica, troviamo infatti molte connessioni tra le teorie di Kellert e il caso studio del Bosco verticale di Milano, progettato da Stefano Boeri, i cui costi sia di costruzione sia di manutenzione risultano ben lontani dai costi medi di un edificio tradizionale. Inutile dire che un simile approccio, non potrà quindi trovare vasta applicazione nel territorio italiano e sebbene offra molti spunti utili al mondo delle costruzioni (anche da un punto di vista estetico), è oggi più che mai opportuno l’adozione di una visione più pragmatica e realmente sostenibile (ovvero che sappia mediare al contempo tra gli obiettivi ambientali, economici e sociali, senza promettere l’eden per pochissimi, né utopie rigenerative senza possibilità di successo). In questa direzione ha per esempio lavorato l’architetto Rob Marsh, esperto di sostenibilità, che ha rivolto i suoi studi primariamente al patrimonio edilizio esistente e ha potuto dimostrare come la lunga durata del patrimonio edilizio sia in realtà di per sé un moltiplicatore della sostenibilità e che la strada verso un sempre minor impatto ambientale non ci conduce necessariamente alla rinuncia al patrimonio delle città né tantomeno a processi obbligati di ricostruzione, quanto piuttosto a interventi mirati ed a un cammino progressivo di adeguamenti e manutenzioni programmate. Da questo punto di visita è indubbiamente auspicabile che al momento di tradurre le raccomandazioni della Direttiva europea sulla prestazione energetica nell’edilizia (2024/1275), lo Stato Italiano sappia contenere le spinte utopistiche e rilanciare al contempo il patrimonio italiano, il cui valore è diffuso e capillare e non insiste unicamente in pochi edifici vincolati, ma principalmente nel tessuto urbano degli insediamenti, così ricco di storie e tradizioni, segno dell’ingegno costruttivo italiano, vero giacimento culturale da salvaguardare.
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