Lavoro in famiglia: quando si parla – e con quali norme – di impresa familiare?

Pubblicato il 23 Settembre 2015 in , da redazione grey-panthers

La riforma del diritto di famiglia del 1975 si è posta l’obiettivo, tra gli altri, di tutelare il valore del lavoro domestico considerando correttamente che, proprio perché il coniuge attende a tale attività, l’altro è in grado di svolgere lavoro esterno (in questo caso, attività imprenditoriale), garantendo in questo modo le ragioni patrimoniali dei familiari che prestano opera continuativa di lavoro in strutture imprenditoriali a base familiare.

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Impresa familiare

Secondo il dettato dell’art. 230 bis c.c., è impresa familiare quella in cui collaborano coniuge, parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo grado. In pratica, i coniugi (o gli altri familiari) non stipulano un contratto né costituiscono l’impresa; talvolta, a meri fini fiscali, ne dichiarano l’esistenza davanti a un notaio.

Familiare imprenditore

Secondo l’orientamento prevalente di dottrina e giurisprudenza, l’impresa ha carattere individuale e l’imprenditore assume in proprio diritti e obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi.

Familiare lavoratore

Ciò implica che il familiare lavoratore collabori all’impresa altrui e non cogestisca. Se, infatti, i familiari gestissero in comune l’impresa, si configurerebbe una società (di fatto, se non formalizzata in una delle tipologie previste dall’ordinamento) e non già un’impresa familiare, con la conseguenza, ad esempio, che un’eventuale dichiarazione di fallimento del titolare si estenderebbe a tutti i familiari. L’attività lavorativa del familiare deve rivestire i caratteri della regolarità e costanza nel tempo; non può trattarsi di un apporto saltuario e occasionale. Peraltro, la collaborazione del familiare può anche non essere a tempo pieno ed esclusiva, ben potendo costui svolgere anche altre attività parallele. La continuitàdell’apporto richiesto dalla legge per la configurabilità della partecipazione all’impresa familiare, infatti, non impone la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell’apporto.

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Il familiare lavoratore gode del diritto al mantenimento in relazione alla condizione patrimoniale della famiglia. Tale diritto va osservato anche nel caso in cui l’impresa sia in perdita non produca profitti e consta nella corresponsione di quanto occorrente per far fronte alle esigenze di vita di chi non possegga redditi propri o non disponga di redditi adeguati. Inoltre, il familiare ha il diritto di partecipare agli utili dell’impresa, ai beni acquistati con essi ed anche agli altri incrementi patrimoniali dell’azienda – ad es. l’avviamento – proporzionalmente alla qualità e quantità della prestazione svolta. Per costante giurisprudenza, il diritto agli utili dell’impresa familiare è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni; la maturazione di tale diritto – dalla quale decorrono rivalutazione monetaria ed interessi, in relazione alla riconducibilità della collaborazione continuativa all’impresa familiare ad uno dei rapporti di lavoro di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c. – coincide di regola, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.

Coniuge collaboratore

In particolare, rispetto all’apporto lavorativo del coniuge, va segnalato l’orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione secondo il quale deve riconoscersi la qualifica di partecipante all’impresa familiare alla moglie casalinga che effettui per l’impresa prestazioni, anche saltuarie, che concorrano alla produttività dell’impresa (come la cura di pratiche amministrative e contabili, di mansioni di segreteria etc.).

Gestione dell’impresa familiare

Dalla partecipazione all’impresa familiare discende una serie di diritti sia di carattere gestionale sia patrimoniale. Nello specifico, ogni familiare dispone di un voto: le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate a maggioranza dei familiari che partecipano all’impresa stessa. Bisogna ricordare che i poteri di amministrazione dei familiari sono confinati all’interno dell’impresa familiare e non assumono rilevanza alcuna per i terzi; questo comporta che gli atti eventualmente posti in essere dall’imprenditore contro la volontà dei familiari conservano piena validità ed efficacia nei rapporti con i terzi. Peraltro, come abbiamo innanzi osservato, in mancanza di un regime di pubblicità legale, i terzi non sono neppure in grado di sapere dell’esistenza dell’impresa familiare. Tuttavia, gli atti posti in essere dall’imprenditore in contrasto con la volontà dei familiari rimangono illegittimi nei rapporti tra imprenditore e familiari, che avranno diritto di agire nei confronti dell’imprenditore per il risarcimento dei danni.

Diritti e doveri

E’ importante precisare che la separazione personale dei coniugi non costituisce di per sé causa di scioglimento dell’impresa familiare; la Corte di Cassazione stabilisce che si debba valutare concretamente se si sia verificata, nella specie, una causa di estinzione. E’ solo con il divorzio (e la conseguente perdita dello status coniugale) che viene meno per il coniuge il rapporto di collaborazione all’impresa familiare. I familiari lavoratori godono di un regime di garanzia in caso di trasferimento o di divisione ereditaria dell’azienda. A costoro, infatti, è attribuito il diritto di prelazione legale sull’azienda (art. 230 bis c.c. co. 5°), a prescindere dalla quantità e dalla qualità del lavoro prestato; l’esercizio di tale diritto potrà essere congiunto, ovvero disgiunto, quando solo alcuni vi abbiano interesse. Oggetto della prelazione è l’azienda, ossia un insieme di beni destinati all’esercizio di impresa. Ne consegue che non opera la prelazione, ove il trasferimento abbia ad oggetto singoli cespiti, salvo che l’importanza del bene sia tale da identificarlo praticamente con l’azienda (si fa l’esempio del fondo nel caso di impresa agricola); ammissibile è invece la prelazione su un ramo dell’azienda, stante l’idoneità dello stesso allo svolgimento dell’attività d’impresa. Il riconoscimento del diritto di prelazione, peraltro, comporta un minimo onere per l’imprenditore: questi, infatti, rimane libero di disporre della propria azienda, con il solo limite di preferire i partecipanti all’impresa, a parità di condizioni offerte da terzi. Conformemente alla disciplina generale dell’istituto della prelazione, il partecipante all’impresa familiare può riscattare l’azienda presso i terzi acquirenti, ove sia stato violato il diritto di prelazione.

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Trattamento fiscale e previdenziale

Dal punto di vista fiscale, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, all’art. 5, precisa che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, purché l’indicazione dei familiari e del loro rapporto di parentela o affinità con l’imprenditore risulti da atto pubblico o scrittura privata autenticata, anteriore al periodo d’imposta, e sottoscritta dall’imprenditore e dai familiari stessi. E’, altresì, necessario che l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato dai familiari, risulti dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore; che, infine, ciascun familiare attesti nella propria dichiarazione dei redditi di aver prestato la propria attività di lavoro in modo continuativo e prevalente.

Sotto l’aspetto previdenziale, il titolare e i familiari lavoratori sono tenuti ad iscriversi alla speciale gestione lavoratori autonomi INPS a norma della L. 335/95 e versare i relativi contributi, che, di fatto, vengono corrisposti dal titolare dell’impresa familiare, il quale ha diritto ad esercitare il diritto di rivalsa nei confronti di ciascun partecipante per la quota dallo stesso dovuta o, in alternativa, a dedurre la spesa complessiva dal proprio reddito ai fini della quantificazione dell’IRPEF. In conclusione, anche se è vero che nella maggior parte dei casi l’impresa familiare attiene all’esercizio di una azienda di piccole dimensioni, va precisato che la norma nulla specifica al riguardo; è, dunque, da ritenere che potrebbe qualificarsi come familiare anche un’impresa di medie o grandi dimensioni, della quale facciano parte, accanto ai familiari, anche altri soggetti esterni alla famiglia, come soci o dipendenti, con conseguente incremento della complessità dei rapporti gestionali e patrimoniali in gioco.

Impresa coniugale

Quando si può parlare di impresa coniugale e non di impresa familiare? Per operare la pur non agevole distinzione, bisogna guardare al ruolo assunto rispettivamente dai coniugi nella fase gestionale. Ossia, se l’impresa è gestita alla pari da entrambi i coniugi, le cui decisioni abbiamo anche rilevanza esterna, allora trattasi di impresa coniugale; ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto sussistente una società di fatto tra coniugi allorquando un coniuge abbia compiuto ripetuti atti di amministrazione, gestione e finanziamento con riferimento all’impresa dell’altro coniuge, apparendo all’esterno come contitolare della stessa, non potendo tali condotte giustificarsi né nell’adempimento di obblighi nascenti dal rapporto di coniugio, né alla stregua di apporto all’impresa familiare altrui, posto che in quest’ultimo caso l’unica persona legittimata ad agire nei confronti dei terzi è il titolare dell’impresa. Quando, invece, l’apporto del coniuge non risulti paritario e sia sottoposto al potere organizzativo e direttivo del titolare dell’impresa, allora saremo in presenza di un’impresa familiare.

Articolo a cura dell’Avvocato Corinne Ciriello, socia fondatrice dello Studio Legale Associato Ciriello-Cozzi di Milano; si occupa prevalentemente di responsabilità civile, contrattualistica e diritto del condominio (avvciriello@ciriello-cozzi.it).