La carta d’identità? Come una fede al dito

Pubblicato il 29 Marzo 2015 in , , da Vitalba Paesano

È sempre un dispiacere vedere come alcuni ritengano che voler bene a un luogo significhi non muovere alcuna critica alle cose che non funzionano. Sarebbe come pretendere che una relazione di amicizia o d’amore non avesse mai un momento crisi. Non è che se non sono d’accordo con te su tutto sono un tuo nemico e nemmeno ti faccio un favore se ti do sempre ragione su tutto. Certo, c’è modo e modo di dire le cose. C’è il rispetto e c’è il livore. Anche se di recente il mio livello di acidità sta aumentando, il rispetto permane.

Mi riferisco al posto che per me (e non solo per me) è il più bello del mondo: l’Italia. Vivo un momento di profonda crisi con il mio Paese, nonostante io e lui si sia giunti al traguardo delle nozze d’oro. Nozze d’oro sì, ma di una relazione pericolosa.

Non mi piace come funziona il suo cervello, che riesce a rendere tutto difficile quanto macchinoso (come diceva Ennio Flaiano, “In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete d’arabeschi”). Ogni giorno mi crea un nuovo problema e a volte ho quasi l’impressione che lo faccia apposta per farmi star male.

Se da una parte mi complica la vita, dall’altra mi sento trascurata. Mi pare che le mie ragioni non interessino, che il mio parere non venga tenuto in considerazione. A volte ho persino il sospetto che mi tradisca.

Ciò non significa che non lo ami più, anzi. Eppure, ogni volta che esprimo le mie molte perplessità su di lui mi sento dire da alcuni che sono disfattista oppure ingrata oppure entrambe le cose. No, non è vero, non sono disfattista né ingrata. Non desidero che lui se la passi male per veder realizzati i miei pronostici o per vendicarmi delle sue scorrettezze. Non sto pensando di lasciarlo, ma mi piacerebbe concedermi una pausa. Come si fa a non essere italiani per un po’?

Ultimamente – sarà l’età, che fa diventare nostalgici – ci sono giorni in cui guardo la scritta “Repubblica Italiana” sulla carta d’identità, che è come una fede al dito, e cerco di ricordare i momenti belli di questo legame che dura da una vita. Ce ne sono stati tanti. Poi mi viene in mente la coda in posta, le tasse da pagare, gli scandali, la disoccupazione, la corruzione, il parchetto vicino a casa con le altalene rotte e allora ripongo la carta d’identità nel portafoglio, così almeno non la vedo.

Non voglio accettare che nella nostra relazione mi venga sempre richiesto di adattarmi alle sue magagne e infedeltà e continuerò nel mio piccolo a lottare per cambiare ciò che di lui proprio non riesco a digerire, giacché non intendo rassegnarmi. Ma non intendo divorziare, nemmeno dopo cinquant’anni di rapporto altalenante, anche se parlare con lui vuol dire il più delle volte parlare da soli, perché purtroppo non è uno che ascolta molto.

Perché rimango con lui? Perché, come diceva Cesare Pavese, “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo.”