A proposito di spesa e di grandi magazzini

Pubblicato il 4 Novembre 2015 in , da redazione grey-panthers

A quel tempo al giovane Sam, cresciuto in campagna affinando la sottile arte dell’arrangiarsi, bastò fare più pubblicità e avere scaffali sempre pieni per battere la concorrenza. Era nato tra le mucche dell’Oklahoma e anche dopo, trasferitosi in città con la famiglia, era riuscito a ingegnarsi con piccoli lavoretti: lattaio, venditore porta a porta. Poi quell’occasione, la licenza di un negozio Ben Franklin a Newport, nell’Arkansas. Aveva 27 anni e racimolò i quattrini chiedendo un prestito al suocero e dando fondo a tutti i suoi risparmi. Non sapeva ancora che quello sarebbe stato il primo passo dell’impero Walmart e che la sua sarebbe diventata la famiglia più ricca d’America.

Il caso Amazon

Quando si parla di supermercati, non si può non ricordare la storia di Walmart, numero uno mondiale della grande distribuzione, 1 milione e 400 mila dipendenti negli Stati Uniti e vendite per 486 miliardi di dollari, pari a circa un quarto del Pil italiano. Un gigante che è andato avanti per più di 50 anni come un carro armato sfidando le class action americane, le accuse di pratiche anti sindacali e di lavoro sottopagato e che all’improvviso, davanti ai colossi dell’ecommerce, ha cominciato a tremare. Appena qualche giorno fa infatti Walmart ha annunciato ai mercati che gli utili nel 2016 resteranno fermi ai livelli di quest’anno, mentre nel 2017 potrebbero scendere tra il 6 e il 12%. È bastata questa notizia per far crollare il titolo a Wall Street del 10% in una sola seduta, il calo giornaliero più forte dal 1988, quando Sam era ormai all’apice del successo e fu nominato da Forbes l’uomo più ricco d’America per la sesta volta consecutiva. «Ogni anno che passa, per Walmart diventa sempre più difficile competere con Amazon» ha scritto di recente il NewYork Times facendo un esempio esemplificativo: «Nel 1999 Amazon era una società appena nata con un fatturato annuo di 1,6 miliardi di dollari contro i 138 di Walmart. L’anno scorso il fatturato di Amazon è stato 54 volte quello del ‘99, quasi tutto proveniente da vendite online. Il fatturato di Walmart è più o meno tre volte quello di quindici anni fa e solo il 2,5% viene dall’online». Gli investitori, in questa guerra tra Golia, hanno già incoronato il vincitore: nel mese di luglio il valore di Borsa di Amazon ha superato per la prima volta quello di Walmart e ora è sopra di ben 75 miliardi di dollari.

Com’è diminuita la spesa in Italia

Un caso emblematico, perché anche fuori dai confini a stelle e strisce, tra crisi dei consumi, ritirata di stranieri, casi di esuberi e mobilità, la cosiddetta Gdo (grande distribuzione organizzata) ha iniziato già da tempo a mostrare qualche segno di cedimento. Anche in Italia, dove Amazon non ha perso tempo e da quest’estate ha cominciato a vendere alimentari a lunga conservazione e prodotti per la cura della casa. Creando il panico tra i player che qui continuano a lavorare a differenza di chi, come gli austriaci di Billa, hanno da poco deciso di andar via. Perché seppur qualche segnale di ripresa di fiducia comincia a palesarsi, è vera una cosa: gli italiani spendono meno. Dal 2007 ad oggi la crisi è costata in totale 122 miliardi di euro: 47 miliardi di minori risparmi e 75 miliardi di minori consumi (rapporto Coop 2015 «Consumi e distribuzione»). E l’andamento dei consumi delle famiglie, dopo l’apice del 2007 ha preso a invertire la rotta fino ad arrivare all’annus horribilis 2013 quando i consumi sono scesi a 922 miliardi, 26,9 in meno rispetto a quindici anni fa (fonte, Federdistribuzione). Esclusi i consumi «obbligati» per salute, istruzione, tasse e quelli per altri servizi come alberghi e ristoranti (tutti cresciuti), i colossi della Gdo hanno dovuto guardare in faccia la realtà: i consumi che i tecnici chiamano «commercializzabili» (alimentari e non alimentari) sono i più bassi dagli anni 90. Rappresentavano una fetta del 38,9% dei consumi totali delle famiglie nel ‘91, oggi sono appena il 21,4%. Lo sanno bene i principali gruppi della Gdo: Coop, Conad, Selex, Esselunga, Auchan e Carrefour che stanno rivedendo le loro strategie di business alla luce dei nuovi competitor come i colossi internet e gli operatori specializzati tipo i discount, che in Italia sono passati da una quota di mercato dell’8,4% del 1998 all’11,9% del primo semestre del 2015.

Il caso Eataly

Ma non solo. Perché in questa lotta del carrello, si sono affacciati sul mercato anche altri operatori specializzati come Eataly contro cui, non a caso, si è più volte esposto il patron dell’Esselunga Bernardo Caprotti. «Lui – ha detto riferendosi a Oscar Farinetti – è l’uomo che sa tutto, viene qui a Milano e ci insegna cos’è il food. Vendeva frigoriferi e televisori, ma ora è un grande esperto, è l’oracolo. È un chiacchierone formidabile». Un caso, quello di Eataly, studiato nei manuali di marketing perché ha saputo «emozionalizzare» quello che la gente ha ormai poca voglia e tempo di fare: la spesa. Limitando i costi con la scelta di pochi punti vendita (26 in tutto il mondo), alzando la qualità, concentrando tutto nello stesso luogo: spesa, ristorante, piacere (con musica e concerti). «Negli ultimi vent’anni la grande distribuzione ha sostituito i dettaglianti e non c’è stata partita – spiega Sandro Castaldo, professore di economia e gestione delle imprese alla Bocconi -. Ora la competizione si sta facendo più dura e la Gdo vive il paradosso del leader, con una concorrenza sviluppata nei due estremi: la fascia bassa con i discount e la fascia alta con il gourmet, vedi il successo di Eataly. Chi sta nel mezzo e vuole accontentare un po’ tutti, rischia di non accontentare nessuno». Tant’è che, nel frattempo, la redditività delle aziende dell’alimentare è passata dall’1,8% del 2006 allo 0,4% del 2013. Ancora peggio per la grande distribuzione (alimentare e non) passata da una redditività dell’1,4% del 2006 al -0,1% del 2013.

Gli esuberi Auchan

Un colosso come Auchan ha chiuso a luglio la vertenza con i sindacati ricorrendo alla mobilità volontaria per un numero massimo di 1.345 lavoratori. I francesi di Carrefour hanno ridotto i punti vendita del 27,2% tra il 2009 e il 2013 (fonte, report di Mediobanca sulla Gdo) e ora stanno sperimentando i supermercati aperti 24 ore su 24. In risposta a Eataly, inoltre, hanno lanciato quest’anno il format «Gourmet» (eccellenza gastronomica dei territori italiani). «Nella Gdo è in corso un processo darwiniano – puntualizza Romolo De Camillis, responsabile dell’area retail di Nielsen -. Fino a poco tempo fa erano tutti concentrati sull’apertura di nuovi punti vendita, oggi il focus delle aziende distributive è come trasformare la propria offerta in qualcosa che le connoti in maniera più forte agli occhi del consumatore».

La spesa online e l’avanzata di Amazon

E poi c’è la sfida della spesa online: quella che gli esperti chiamano «egrocery», in Gran Bretagna ha già una quota di mercato dell’8,3%, in Francia è arrivata al 5,8%, in Italia è ferma appena allo 0,7%. Ma se Amazon ha iniziato a vendere prodotti alimentari anche in Italia, non è un caso. «Prima Amazon, ora anche Zalando sta creando una piattaforma logistica in Italia. Siamo preoccupati ovviamente – ammette Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione – alcuni gruppi hanno deciso di lasciare l’Italia, altri hanno razionalizzato l’offerta. Noi vorremmo cambiare le cose anche a livello della contrattazione tenendo conto dei cambiamenti che ci sono stati in questi anni in termini di produttività e flessibilità». Ma l’accusa, da parte dei sindacati, è che si vogliono solo ridurre gli stipendi dei lavoratori. Fatto sta che dopo due anni di vertenza il confronto è saltato e sono stati proclamati due giorni di sciopero per il 7 novembre e il 19 dicembre. «Nel frattempo Amazon fresh a New York è arrivata a fare consegne in due ore – aggiunge Castaldo – qui c’è chi sperimenta il pick and pay, c’è il caso del drive Auchan, ma questi colossi continuano ad avere costi fissi importanti che non hanno paragoni con i big dell’online. E se non si muovono rischiano di trasformarsi in elefanti sul ciglio di un burrone».

Ma in Italia l’offerta dell’egrocery è limitata

Quando Sam Walton, a 27 anni, avviò il suo primo negozio a Newport, nell’Arkansas, aveva un concorrente tosto quanto lui: Budd Hewitt. Sam aveva il vizio di studiare tutto dei suoi competitor e sapeva per esempio che in quel periodo le vendite di Budd andavano bene grazie a delle mutande per donna in tessuto rayon. Quando Budd finì il suo stock di biancheria femminile, Sam venne a saperlo. Corse dal suo fornitore, a Little Rock e acquistò tutta la fornitura di mutande in rayon. Al momento della sua morte, nel 1992, il necrologio del New York Times conteggiava la sua ricchezza a 28 miliardi di dollari. Oggi la famiglia Walton continua ad essere, sec ondo Forbes, la più ricca d’America (patrimonio netto 149 miliardi) ma qualche giorno fa, una volta annunciato l’allarme sugli utili, la regina dei supermercati ha sottolineato di voler investire due miliardi nei prossimi due anni nell’implementazione dell’innovazione tecnologica. Walmart ha piazzato 2.200 ingegneri nella Silicon Valley e ha realizzato un suo data center cloud. E in Italia? Secondo l’Osservatorio Digital Innovation del Politecnico di Milano il comparto alimentare è stato nel 2015 uno dei settori più dinamici nel panorama dell’ecommerce italiano. Eppure siamo ancora fermi a quello 0,7% dell’egrocery. «Perché seppur i consumatori sono pronti a fare la spesa online – spiega De Camillis – l’offerta è ancora molto limitata».

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