Al teatro Quirino per “Il Testimone” con Bebo Storti e Fabrizio Coniglio.

Pubblicato il 14 Ottobre 2014 in , da Attilio A. Romita

di Attilio A. Romita                                            13 ottobre2014

Testimone

Ieri sera al Teatro Quirino una rappresentazione unica su una vicenda politica, giudiziaria e personale che si è intrecciata con la più complessa vicenda che ha interessato i rapporti, veri e presunti, tra la politica e le organizzazioni criminali quali mafia, camorra e ‘ndrangheta a tutti i livelli ben radicate sul territorio.

Sulla complessa vicenda sono state emanate sentenze contraddittorie lunghe quasi due decenni ed illustri commentatori hanno scritto pagine di condanna ed assoluzione e non sono certo io, limitato cronista teatrale, in grado di dare pareri definitivi.

Questa mia nota  sarà divisa in due parti ben distinte, il commento all’azione scenica ed il mio personale pensiero sul contenuto della rappresentazione.

La trama: un colloquio, che va oltre il tempo fisico, tra due Magistrati ed amici: Giacomo Ciccio Montaldo e Mario Almerighi.

Montaldo, che possiamo definire Uomo Giusto, opera in Sicilia e la sua professione si svolge in un ambiente “immerso nella Mafia”. La sua natura e la sua cultura lo portano ad essere assolutamente contro le ingiustizie che lo circondano e lo spingono a difendere chi le subisce. Purtroppo questa sua cultura del giusto non è accettata dal mondo che lo circonda,  che decreta la sua condanna a morte.

Almerighi, magistrato che vive a Roma, è il consigliere ed amico più realista che, pur condividendo le giuste passioni ed idee di Montaldo, cerca di raccontare senza assolutamente condividerle idee e fatti che coinvolgono politica e politici.

Il colloquio è oltre il tempo fisico, frammisto di flash-back e salti in avanti, si svolge durante una passeggiata in barca. Forse, ma è una mia lettura, perchè il viaggio in mare permette una migliore visione prospettica di un mondo negativo mentre si è immersi in un piacevole e riposante ambiente.

Per buona parte della rappresentazione, come l’ombra di Banco a Macbeth, si insinua Giulio Andreotti quale sommo e malvagio burattinaio delle vicende mafiose.

Il finale, letto da una giovane spettatrice, è il dispositivo di sentenza per diffamazione nei riguardi del giudice Almerighi che condanna Andreotti ad un risarcimento di danni materiali, come dichiara la sentenza stessa,  per aver oltrepassato il «limite della continenza e il diritto di critica», nei confronti del giudice Almerighi.

Qui termina la parte “descrittiva” dello spettacolo e a questo mi sento in dovere di inserire mie considerazioni sul tentativo di spettacolarizzazione di una sentenza specifica, facendola passare per condanna generalizzata di una persona, il sen. Andreotti, che sentenze ben più ampie hanno riconosciuto estraneo ai fatti delittuosi attribuitigli.

Molto spesso, giustamente e con rispetto, ricordiamo i tanti magistrati uccisi per aver fatto il loro dovere contro tutti i tipi di associazioni delittuose.

Mi sembra giusto anche ricordare che la questione Alberighi-Andreotti è durata 17 anni, che i vari processi Andreotti sono durati un ventennio, che molti processi contro uomini pubblici, molte volte assolti, sono durati decenni, che altre volte il processo ha visto cadere in prescrizione le colpe e questa è una doppia condanna sia per l’accusato, che può non aver visto riconosciuta l’innocenza, sia per il Magistrato che non è riuscito ad arrivare ad un risultato certo per tempi così lunghi.

In un mondo nel quale informazione e disinformazione viaggiano, letteralmente alla velocità della luce, troppo spesso si ricorda il tonfo che fa una immediata notizia urlata e quasi mai si riesce a sentire il flebile sussurro di una sentenza che a volta invece di assolvere richiama, rinnovando la pena, il tonfo di quella notizia di 20 anni prima.

“Quis custodiet ipsos custodes?” diceva il poeta latino Giovenale nelle Satire contro un certo modo di andare del mondo, ma forse si può fare qualcosa di meglio.